Melchiorre Delfico Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale |
di Gabriele Carletti Introduzione a "Melchiorre Delfico. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale", Pisa, Edizioni ETS, 1996 (*) |
Da più di un quarto di secolo una certa attenzione viene rivolta alla figura e all'opera di Melchiorre Delfico. In realtà, il pensatore teramano, uscito per merito di Giovanni Gentile dal lungo e ingiustificato oblìo che lo aveva reso per tutto l'Ottocento un autore sostanzialmente sconosciuto, è oggetto di una diversa considerazione già a partire dal secondo dopoguerra. Una rivalutazione che si determina in coincidenza con il rinnovato interesse storiografico per la cultura e la storia del Settecento, ed in particolare per alcune esperienze intellettuali e politiche significative dell'illuminismo italiano (1). Prende inizio all'indomani dell'ultimo conflitto mondiale un filone di studi storici che, mettendo a frutto alcuni orientamenti delineatisi in precedenza (2), si distacca dall'impostazione nazionalistica che nel corso del ventennio fascista aveva finito per considerare il Settecento italiano in funzione del Risorgimento. Il nuovo filone ha come primo e più generale risultato una profonda revisione dell'età dei lumi (3), che porta a vedere l'illuminismo italiano come parte di quello europeo, ma anche a riconoscere ad esso finalità proprie ed un proprio autonomo carattere. In questa prospettiva si inquadrano le ricerche di una nutrita schiera di studiosi, che, pur con ottiche diverse e con differenti metodi, iniziano un lavoro «di scavo su singoli personaggi e autori o su aspetti determinati, settoriali, della vita italiana dell'epoca» (4). Questo rinnovato interesse per la storia culturale del Settecento - ritenuto, a ragione, uno degli aspetti nuovi della ripresa degli studi storici italiani dopo la fine del fascismo e della guerra (5) - inaugura una fortunata stagione storiografica che dà vita a due filoni di ricerca complementari, anche se talvolta contrastanti. Da un lato, le analisi e le indagini di storia sociale ed economica del Mirri, del Quazza, del Berengo, del Villani, del Villari e di altri, certo non estranei ad alcune prospettive metodologiche aperte dalla lezione cantimoriana; dall'altro, gli studi su singoli autori di Marini, Giarrizzo, Diaz, Bertelli, Torcellan (per citarne solo alcuni) e, soprattutto, la galleria di quadri biografici di Venturi. Orientamenti storiografici, questi ricordati, che partono da ottiche ed esperienze culturali eterogenee ed esprimono esigenze e tensioni epistemologiche diverse, sul cui rapporto però sembra ancora valido l'auspicio formulato da Venturi agli inizi degli anni Sessanta di un «punto d'incontro e d'incrocio tra la storia delle idee e la storia economica e politica» quale premessa per «una più profonda comprensione dell'età illuministica» (6). Alla ripresa, nel secondo dopoguerra, dell'interesse storiografico per il mondo settecentesco si salda la rifondazione degli studi delficini da cui emergono aspetti e tematiche fino ad allora trascurati, a testimonianza di un diverso approccio con l'intellettuale meridionale, per nulla avulso dal fervore culturale e dalle vicende storiche e politiche del tempo. La sua duplice attività di scrittore e di amministratore e i sui molteplici interessi culturali e politici si estendono in un arco di tempo assai vasto, dagli ultimi decenni del secolo XVIII ai primi di quello successivo, essendo egli morto nel 1835. Nella sua voluminosa raccolta di testi degli Illuministi italiani, colti nelle loro vicende personali, nel loro ambiente e formazione ideale e nello sforzo di finalizzare le loro idee a proposte politiche ben definite, Venturi considera lo scrittore teramano «uno dei più veramente cosmopoliti» e al tempo stesso «dei più autenticamente provinciali tra i riformatori meridionali nel secondo Settecento» (7). Rappresentante di quell'ala della scuola genovesiana meno utopistica e filosofica, ma ugualmente antifeudale e più legata a problemi concreti e immediati del Regno napoletano, che affonda le sue radici nelle province, Delfico saprà essere «uno dei più liberi, intelligenti e spregiudicati consiglieri d'un governo sperato o supposto riformatore» (8). Dall'analisi dei mali economici e sociali della sua città, l'illuminista abruzzese matura in fretta l'esigenza di una ridefinizione del rapporto tra capitale e province, tra i centri periferici più sani e dinamici e quella Napoli corrotta ed inerte dalla quale tutti attendono una politica di riforme. Egli è, pertanto, uno dei «primi scrittori meridionalisti»(9) per avere, di fronte alla dicotomia tra centro e periferia, tra città e campagna, difeso strenuamente gli interessi della provincia contro le usurpazioni della capitale, gli interessi della società contro le prerogative dello stato e del potere ecclesiastico, dando così vita ad una prima forma di autonomismo meridionale. Almeno fino agli inizi dei nostri anni Ottanta, la storiografia delficina ha incentrato l'attenzione su Delfico riformatore, mettendo in risalto la specificità di alcune sue idee e proposte all'interno dell'ampio mosaico di ipotesi e soluzioni riformistiche prospettate a Napoli nel penultimo decennio del Settecento. Ciò ha consentito una rilettura del pensatore teramano in contrasto con le interpretazioni precedenti (10): sia con quelle del ventennio fascista, improntate ad uno strumentalismo storiografico, che hanno esaltato il precursore del Risorgimento e del Regime stesso, sia con quelle della storiografia neoidealistica e soprattutto gentiliana, che hanno visto nel suo pensiero il «riflesso di dottrine che non appartengono a lui e nemmeno all'Italia» (11) ma alla Francia del diciottesimo secolo. Merito della recente ripresa storiografica è quello di aver ricondotto e legato il riformismo delficino all'esperienza e al fervore culturale del movimento riformatore napoletano della seconda metà del XVIII secolo, di cui fu principale promotore Antonio Genovesi, del quale Delfico fu prima allievo e poi discepolo. Ed è seguendo l'insegnamento genovesiano, racchiuso nel Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, di una «filosofia tutta reale», «tutta di cose», che il Teramano intraprende l'attività di scrittore, avanzando proposte di rinnovamento del Regno, che si configurano, verso l'esterno, come anticurialismo, come lotta contro le pretese giurisdizionali dell'autorità ecclesistica, e, verso l'interno, come attuazione di politiche ed economie antifeudali. Con il presente lavoro si è voluto approfondire quelle che ci sono apparse le quattro fasi fondamentali della biografia intellettuale di Melchiorre Delfico (alcune delle quali scarsamente scandagliate), che contrassegnano la sua evoluzione da riformatore nutrito dell'illuminismo napoletano a filosofo della storia e della politica: il periodo della formazione e degli scritti giovanili; il decennio rivoluzionario 1789-1799; la riflessione sulla storia agli inizi dell'Ottocento; la lettura di Machiavelli negli anni della Restaurazione. La fase giovanile di Delfico continua a rivestire un'importanza decisiva per la comprensione e per una valutazione complessiva del suo pensiero. Sono anni, quelli tra il 1768 e il 1789, contraddistinti da un forte impegno riformatore, che si traduce in una serie di scritti a valenza politica, che presentano tutti finalità pratiche. E' un periodo di slanci e di speranze, ma anche di tensioni e di amarezze; ricco di incontri e di frequentazioni di esponenti della cultura non soltanto napoletana, ma italiana ed europea, con alcuni dei quali, come Francescantonio Grimaldi, Alberto Fortis, Friedrich Münter, stringerà un rapporto di profonda e duratura amicizia. L'impegno attivo in favore di un rinnovamento giuridico ed economico del Regno napoletano è una determinazione che, al pari di quella di altri riformatori meridionali, prende le mosse da una ferma e decisa condanna del regime feudale, responsabile di profonde divisioni e di «mostruose» sperequazioni e difformità all'interno del corpo sociale. Egli interpreta e conduce tale battaglia da philosophe, con un impianto empirico-sensistico, riponendo ancora intere le proprie speranze nella «bontà» del sovrano che, illuminato dalla ragione e, soprattutto, da saggi consiglieri, promuova quelle riforme in grado di assicurare il benessere e la felicità dei sudditi. Vale la pena di ricordare che l'idea di un riformismo come emanazione dall'alto e l'identificazione del processo riformistico con l'azione del sovrano sottintendono una svalutazione del popolo, che si attenuerà soltanto durante i primi anni della rivoluzione francese. Per tutto il periodo prerivoluzionario il popolo, sebbene resti il destinatario ultimo delle riforme, non si vede riconosciuto alcun ruolo attivo o autonomo. Continuando sulla linea del Genovesi e riprendendo le idee del Filangieri, Delfico conduce, in nome del principio della indivisibilità della sovranità, un duro attacco contro la giurisdizione baronale, con una «foga», un «vigore» e degli «argomenti» che «nulla hanno da invidiare» (12) alla chiarezza e alla incisività dello stesso autore della Scienza della legislazione. Un segmento centrale della sua polemica antifeudale è costituito dalla condanna, diretta ed esplicita, della cattiva distribuzione della proprietà fondiaria, dell'ingiusta concentrazione delle ricchezze nelle mani di pochi, ritenuta la vera causa non soltanto del malessere e dell'arretratezza del Regno, ma anche di molti gravi sconvolgimenti e «feroci convulsioni» negli Stati. «Ravvicinare gli estremi» diviene presto per lui un «canone politico», un obiettivo non più procrastinabile, dal cui conseguimento egli fa dipendere in gran parte lo stesso destino del Paese. Ciò nonostante lo scrittore teramano non giunge mai, neppure durante gli anni della rivoluzione, ad ipotizzare alcuna forma di egualitarismo agrario. Egli pone, invece, l'accento sull'uguaglianza giuridica di fronte alla legge. Difende altresì il diritto alla proprietà privata, limitandosi a rivendicare la formazione di una piccola proprietà terriera, che consentirebbe di moltiplicare il numero dei proprietari e che, oltre a migliorare le condizioni di vita dei proprietari stessi, creerebbe in loro, rispetto ai non possidenti, un maggiore «attaccamento» nei confronti dello Stato, al cui buon funzionamento essi sarebbero più direttamente interessati. Un riformismo in definitiva, quello delficino, che per contenuto e modalità di attuazione potrebbe essere considerato una sorta di anticipazione di quella «libertà dei moderni» che Constant incentrerà sul riconoscimento governativo dei diritti civili e giuridici dei cittadini. La notizia della rivoluzione francese raggiunge Delfico in Lombardia, dove si è recato alla fine del 1788 per accompagnare il nipote Orazio all'Università di Pavia e per allontanarsi da quella Napoli governativa, che lo ha deluso per la sua ambiguità politica. Gli eventi rivoluzionari d'oltralpe non fanno che rafforzare in lui la convinzione della necessità di attuare un organico piano di riforme, anche al fine di evitare l'estendersi dell'ondata rivoluzionaria agli Stati italiani. La rivoluzione di Francia rappresenta dunque «un esempio favorevole per i Principi savj» affinché non indugino più sulla strada delle riforme. Rianimato da queste speranze, Delfico si trasferisce nella capitale partenopea, dove riprende con maggior vigore la polemica antifeudale. La contrapposizione tra l'ammirazione per la Francia rivoluzionaria e la sfiducia verso l'azione riformatrice napoletana non determina tuttavia quel mutamento da «regalista in giacobino», che Benedetto Croce ha ravvisato in molti riformisti napoletani (13). Tanto più che, dopo la svolta antimonarchica e giacobina, il suo giudizio sulle vicende francesi si fa fortemente critico, continuando egli a preferire alla rivoluzione le riforme. Estraneo sia all'evoluzione giacobina della Francia rivoluzionaria che alla politica di chiusura del governo borbonico, preferisce mettersi di nuovo in disparte. Finché, con la venuta dei Francesi, «portatori non più del verbo robespierrista, ma degli orientamenti moderati del Direttorio» (14), intravede la possibilità di riprendere e portare finalmente a compimento quelle riforme da tempo sostenute. Forte di questa convinzione, accetta incarichi di responsabilità nella repubblica di Pescara e in quella di Napoli (dove però non potrà recarsi a causa delle insorgenze antifrancesi), impegnandosi all'interno del Supremo Consiglio pescarese, da lui presieduto, in un'intensa attività amministrativa e legislativa, senza peraltro mai discostarsi dai propri obiettivi riformistici. Della rivoluzione dell'89 valuterà positivamente la fase monarchico-costituzionale, dal Cuoco definita «legale»(15). Ne condannerà, invece, la fase giacobina, avversandone non soltanto il metodo «distruttivo» e le idee politiche «astratte» e «mostruose», ma anche i progetti universalistici. L'esperienza rivoluzionaria di fine Settecento lo persuaderà che l'Italia debba trovare in se stessa, nella sua tradizione storica, le indicazioni del proprio politico rinnovamento. Di qui l'esigenza, già manifestata nell'Elogio al Grimaldi, di una storia utile, che indaghi e interroghi il passato in funzione del presente. Ma perché questo avvenga è necessario ideare un nuovo modo di fare storia. Alla tradizione storiografica, infatti, egli rimprovera l'uso di sistemi metodologici inadeguati e parziali che sarebbe la causa della mancata conoscenza del passato. Come e più di Fontenelle, Voltaire, d'Alembert, Rousseau, Condorcet, Volney ed altri, nega che le ricostruzioni dei fatti fino ad allora condotte siano state in grado di riprodurre fedelmente la verità storica. E se priva di certezza, la storia non presenta alcuna vera utilità per il genere umano. L'atteggiamento delficino è stato da alcuni considerato l'espressione più radicale dell'antistoricismo italiano ed interpretato come la logica conseguenza della sua concezione materialistica della conoscenza. Egli avrebbe valutato la storia secondo metodi e criteri appartenenti alle scienze naturali e l'avrebbe criticata per averla intesa esclusivamente in funzione di un'utilità pratica mentre, invece, essa andava giustificata «colla soddisfazione del bisogno ond'è prodotta»(16). In realtà, si è scambiato per antistoricismo ciò che è solo una dura requisitoria contro un certo tipo di storiografia. Non si tratta infatti di un rifiuto della storia (semmai, come per altri illuministi, egli non crede alla «sua funzione legittimante»(17)), bensì della necessità di promuovere un radicale rinnovamento del metodo storiografico, che consenta il sorgere di una «vera critica storica» o anche «storia ragionata della specie». Il ritorno a Napoli dei Francesi, nel febbraio del 1806, viene salutato come l'inizio di una nuova stagione politica. Esso rappresenta per lo scrittore teramano quell'inversione di rotta che «era ormai tempo che si facesse» (18) e che lo induce ad abbandonare il proposito di «non ripassare più il Tronto» (19), per riportarsi, nel giugno di quell'anno, dopo sette anni di esilio sammarinese, nella capitale partenopea dove farà parte, per quasi un decennio, della nuova amministrazione francese. Nell'età napoleonica egli intravede la possibilità di un recupero di quello «spirito di ragione e di moderazione», a cui riteneva necessario ricondurre la politica dopo la crisi di fine secolo e che costituiva l'unica via possibile di sviluppo, sia contro gli eccessi dei rivoluzionari, sia contro le intemperanze dei reazionari. Ma mentre in passato erano stati soprattutto i primi ad impensierirlo, dopo il crollo del dominio napoleonico in Italia saranno i reazionari a divenire la sua maggiore preoccupazione. Teme che il loro desiderio di revanche possa vanificare quelle riforme amministrative, economiche e finanziarie che stavano provocando la dissoluzione dell'Ancien Régime napoletano e che, sebbene attuate durante il Decennio, rappresentavano il risultato di un «processo di più lunga durata» (20). La tensione reazionaria alla cancellazione dei risultati rivoluzionari si traduce sul piano culturale in una riesumazione strumentalizzata di pregiudizi politici, alcuni dei quali fatti risalire a grandi autori, non ultimo Niccolò Machiavelli. Questo clima è per Delfico l'occasione (o forse soltanto il pretesto) per una rilettura del «gran politico pensatore», di cui in gioventù aveva subìto qualche influenza (21). Nasce così l'esigenza di confrontarsi con il Fiorentino intorno ad alcuni temi, come la religione, la libertà, il problema costituzionale, l'uguaglianza. Da questo confronto fuoriescono talora divergenze più o meno accentuate o giudizi critici, ma anche affinità e valutazioni positive. Il dissenso è riconducibile in parte al rifiuto di una concezione della politica completamente disgiunta dalla morale, come nel caso di certe massime «infami» contenute nel capitolo XVIII del Principe, in parte ad una interpretazione delle tesi machiavelliane alla luce di esigenze ed esperienze storiche, politiche e culturali maturate tra il Sette e l'Ottocento. Molte sono tuttavia le idee del Fiorentino che considera ancora valide e attuali, come l'identificazione dell'origine dei conflitti sociali con l'ineguaglianza giuridica ed economica o la condanna del ruolo antisociale dei «gentiluomini». Ma, soprattutto, riconosce a Machiavelli il merito di aver legato la «questione militare» alla «questione politica», di aver ritenuto la soluzione dell'una imprescindibile da quella dell'altra. Tale correlazione presuppone ed implica un nuovo rapporto tra governanti e governati basato sul reciproco impegno, da parte del popolo, di assicurare la propria «affezione» allo Stato, così da garantirgli una maggiore stabilità; da parte dei governi, di soddisfare le aspirazioni dei sudditi, migliorandone le condizioni. Lo sviluppo di questo vincolo, che con assoluta originalità Delfico fa derivare dal nesso tra dimensione militare e dialettica politica, è concepito all'interno di una monarchia costituzionale, considerata la forma più «conveniente all'Umanità ed ai veri bisogni sociali», la giusta soluzione tra rivoluzione e reazione. L'emanazione di una carta costituzionale risponde soprattutto all'esigenza di assicurare l'uguaglianza politica e la tutela dei diritti individuali dei cittadini, garantendo loro la «sicurezza reale e personale cioè della proprietà e della persona» (22). La monarchia che egli predilige è quanto mai temperata e assai «più realista» di quella inglese. Alla rigida applicazione del principio della divisione e dell'equilibrio tra i tre poteri, che presupporrebbe un «contrasto di forze», contrappone l'idea di una «combinazione di forze», di cui «il solo vero potere» è quello esecutivo, i cui limiti però dovrebbero essere imposti più da «una legge» che da «un corpo resistente». Al legislativo, infatti, assegna la prerogativa non di «formare e dettar le leggi» (operazione questa che può essere «più agevolmente» svolta da un individuo che da molti), ma di esaminarle ed approvarle, per cui esso appare come un corpo destinato più «a dar de' lumi a chi siede sul trono, che ad assumere un'autorità di opposizione» (23). Né deve in alcun modo «mescolarsi» nell'attività del governo, per non cadere nello stesso «abuso» che si era verificato nella Francia rivoluzionaria. In un'epoca come quella moderna, in cui gli Stati hanno già i loro codici, l'attività di un corpo legislativo si riduce essenzialmente a formulare proposte volte a migliorare le leggi esistenti. Il giudiziario, infine, più che un potere gli appare l'esercizio di una funzione necessaria alla società, la cui azione non doveva assolutamente interferire nella sfera amministrativa (24). Amministrazione giudiziaria e amministrazione economica rappresentano i due modi attraverso i quali viene assicurata l'esecuzione delle leggi. Ugualmente appartenenti all'attività del governo, le due amministrazioni svolgono tuttavia «attribuzioni distinte», riguardando, quella economica, i rapporti dei cittadini con lo Stato, quella giudiziaria, i rapporti dei cittadini fra loro. Di qui la necessità di una Costituzione che fissi le competenze e i limiti di ciascuna parte componente il governo. La promulgazione di una carta costituzionale, di cui aveva manifestato l'esigenza sin dai primi anni della rivoluzione francese, nonché la creazione di buone leggi e di buone istituzioni costituiscono le basi programmatiche di un governo che voglia rendere «piacevole la vita» dei propri sudditi. Se realizzati, questi obiettivi legherebbero in modo permanente i cittadini allo Stato, facendo sorgere in loro quell'«affezione» che in passato egli aveva creduto potesse essere prodotta solo dalla proprietà. Essi diventerebbero in tal modo i veri difensori della libertà, poiché identificherebbero la lotta in difesa dello Stato con la lotta per la salvaguardia del loro «ben vivere politico». Questo nuovo legame tra classe politica e cittadini, che Delfico concepisce anche sulla scorta della lettura di Machiavelli, rappresenta non soltanto la risposta a qualsiasi tentativo di involuzione politica o di regressione civile negli anni della Restaurazione, ma anche l'individuazione di una linea politica che si pone in rapporto di continuità con la tradizione riformistica settecentesca e che gli uomini dell'Ottocento avrebbero dovuto riprendere e sviluppare. Ed è in tale prospettiva che egli guarda con fiducia al futuro della politica.
Desidero ringraziare quanti con preziosi suggerimenti ed utili consigli mi hanno consentito di porre un termine alla ricerca. A Luciano Russi va la mia profonda riconoscenza per avermi avviato agli studi delficini e aver seguito con generosa disponibilità ogni fase di questo libro.
Avvertenza per i lettori In riferimento a quanto riportato in nota (*) i capitoli saranno pubblicati a breve su questo sito. |
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(*) Il libro di G. Carletti "Melchiorre Delfico. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale" è composto dai seguenti quattro capitoli: Cap. I: L'ambiente napoletano Cap. II: Il giudizio sulla rivoluzione francese Cap. III: L'«inutilità» della storia Cap. IV: Osservazioni su Machiavelli ABBREVIAZIONI AST Archivio di Stato di Teramo BAFS Biblioteca Accademica dei Filopatridi di Savignano (FO) BCM Biblioteca Comunale di Macerata BGSM Biblioteca Governativa di San Marino BMRM Biblioteca del Museo del Risorgimento di Milano BNBM Biblioteca Nazionale Braidense di Milano BPT Biblioteca Provinciale di Teramo (1) Per un quadro d'insieme di queste esperienze, cfr. il volume di D. CARPANETTO - G. RICUPERATI, L'Italia del Settecento. Crisi, trasformazioni, lumi, Laterza, Roma-Bari 1993, e la ricca bibliografia in esso contenuta. (2) Sugli elementi che negli anni Trenta hanno portato alla nascita in Italia e, più in generale, in Occidente di interessi per la cultura illuministica, cfr. G. RICUPERATI, Paul Hazard e la storiografia dell'illuminismo, in «Rivista storica italiana», a. LXXXVI (1974), fasc. II, pp. 372-404. (3) Cfr., in proposito, R. FRANCHINI, La revisione del concetto di illuminismo nel pensiero italiano degli ultimi vent'anni (1948-1968), in Studi in onore di A. Corsano, Lacaita Manduria 1970, pp. 287-307. (4) F. DIAZ, Per una storia illuministica, Guida, Napoli 1973, p. 691. (5) Cfr. G. GIARRIZZO, Cultura illuministica e mondo settecentesco [1956], in Vico, la politica e la storia, Guida, Napoli 1981, p. 243. (6) F. VENTURI, Introduzione in Riformatori napoletani, t. V degli Illuministi italiani, Ricciardi, Milano-Napoli 1962, p. XXI. Per una ricostruzione delle tendenze più significative, cfr. G. RICUPERATI, La storiografia italiana sul Settecento nell'ultimo ventennio, in «Studi storici», a. 27 (1986), n. 4, pp. 753-803. (7) F. VENTURI, Nota introduttiva [a M. Delfico], in Riformatori napoletani, cit., p. 1161. (8) F. VENTURI, Il movimento riformatore degli illuministi meridionali, in «Rivista storica italiana», a. LXXIV (1962), fasc. I, p. 17. (9) Cfr. A. GAROSCI, San Marino. Mito e storiografia tra i libertini e il Carducci, Edizioni di Comunità, Milano 1967, p. 171. (10) Per una ricognizione critica degli studi delficini, cfr. G. CARLETTI, Recuperi, oblii e prospettive. Per una storia della storiografia delficina, in «Trimestre», a. XX (1987), nn. 1-2, pp. 5-40; Melchiorre Delfico nel dibattito storiografico, in Intellettuali e società in Abruzzo tra le due guerre. Analisi di una mediazione, a cura di C. Felice e L. Ponziani, Bulzoni, Roma 1989, II, pp. 633-44. (11) G. GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, Edizioni della «Critica», Napoli 1903, p. 34. (12) Cfr. P. VILLANI, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Laterza, Bari 1973, p. 177. (13) Cfr. B. CROCE, La rivoluzione napoletana del 1799, Laterza, Bari 19264, pp. 23-24. (14) I. TOGNARINI, La rivoluzione francese e la crisi del riformismo italiano, in L'Italia giacobina e napoleonica, vol. XIII della Storia della società italiana, Teti, Milano 1985, p. 16. (15) Cfr. V. CUOCO, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, seconda edizione con aggiunte dell'Autore, Dalla Tipografia di Francesco Sonzogno, Milano 1806, p. 112. (16) GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, cit., p. 70. (17) P. ROSSI, L'illuminismo e il mondo storico, in Nuove questioni di storia moderna, Marzorati, Milano 1964, vol. II, p. 1287. (18) Lettera di Delfico a Teresa Onofri del 21 marzo 1806, in F. BALSIMELLI, Epistolario di Melchiorre Delfico. Lettere sammarinesi, Arti grafiche Della Balda, San Marino 1934, p. 53. (19) Lettera di Delfico ad Alberto Fortis del 20 febbraio 1803, ivi, p. 32. (20) P. VILLANI, Italia napoleonica, Guida, Napoli 1978, p. 123. (21) Cfr. infra, pp. 33-34. (22) Frammento delficino pubblicato da A. MARINO, Scritti inediti di Melchiorre Delfico, Solfanelli, Chieti 1986, p. 134, col titolo redazionale Quale sia la migliore costituzione per l'Italia. (23) Ivi, p. 132. (24) Sui rapporti in Delfico tra autorità giudiziaria e autorità amministrativa, cfr. R. FEOLA, La monarchia amministrativa. Il sistema del contenzioso nelle Sicilie, Jovene, Napoli 1985, p. 127 sgg., il quale pubblica sull'argomento un inedito delficino del 1812 (pp. 287-93) e ne riproduce un altro (pp. 293-8) pubblicato da G. DE CAESARIS, Scritti inediti di Melchiorre Delfico. I conflitti giurisdizionali, in «Teramo», a. V, gennaio-aprile 1936, pp. 20-23, uscito anche in estratto, Cet, Teramo 1936. |