Est praecutinis in montibus horrida cautes,
Indigenae vocitant Cornu de vertice cujus
Manat aquae gelidus per saxa rigentia torrens (1)
L’ascesa alla vetta più alta degli Appenini, a quella Bella Addormentata di
dannunziana memoria, aspra e voluttuosa, è narrazione fiabesca nel racconto di
scienza, meticoloso e puntuale, del Marchese Orazio Delfico. Percorrendo,
infatti, le horrida cautes del Monte Corno, egli compie un’impresa di
eccezionale importanza nell’ambito delle conoscenze dell’epoca, non
semplicemente scalando le vette (intento già di per sé estremamente arduo), ma
proponendo una missione di carattere scientifico finalizzata alla misurazione
della cima del Monte Corno. Discepolo arguto e attento, presso l’Università di
Pavia, di Barletti per la Fisica Generale, Brusati per la Botanica e la Chimica,
Mascheroni per l’Algebra e la Geometria, nonché Spallanzani per la Storia
Naturale e Volta per la Fisica Particolare, egli scrive: “…iniziato negli
studj della natura, giovine curioso e vedendo tutto giorno dalle mie finestre la
sommità del Gran Sasso d’Italia, non mi fu possibile il resistere agli impulsi
della curiosità e dell’imitazione. Salutato questo Monte solo in distanza dai
naturalisti, fui più lusingato dell’impresa e le tenere rimostranze paterne (ben
lontano però dall’aver l’aria di dissuasioni) le descrizioni ed i racconti de’perigli,
la poca lusinga di riportar novità, il travaglio ed il periglio effettivo a cui
mi esponeva, non poterono distogliermi dalla risoluzione...”.
Ebbene…”ai 25 Luglio dell’anno 1794 mi partii per visitare questa Montagna,
che veramente torreggia sulla lunga catena de’Monti Appenini…”.
Colpisce il lettore attento, il rispetto ed una sorta di reverenzialità con cui
il Delfico cita il Gran Sasso parlando di Monte o Montagna
utilizzando costantemente il maiuscolo, finanche l’appellativo di “Monte
Olimpo” regalando una connotazione di sacralità alla “…favolosa opera dei
Giganti…;…per salire a quest’Olimpo, la mia prima gita fu ad Ornano…”.
L’interesse che desta al lettore contemporaneo l’intero racconto, oltre che la
piacevole narrazione, è naturalmente incentrato sul confronto tra la perizia
con cui viene elaborato il progetto del Delfico e le attuali conoscenze in
materia. Egli sviluppa, infatti, un proprio modello scientifico di misurazione
organizzando meticolosamente il progetto di calcolo sulla base delle conoscenze
dell’epoca, non affidandosi alle “…regole della trigonometria, ma per mezzo
dei barometri; e conoscendo pure ch’entrambi hanno i loro inconvenienti e
difetti, prescelsi il secondo come più facile a rettificarsi, e che io era più a
portata di eseguire...”. Si affida, quindi, agli studi dell’importante
naturalista ginevrino del diciottesimo secolo, pioniere della Ipsometria e
dell’alpinismo: Jean-Andrè Deluc (1727-1817). La Ipsometria nasce, infatti, in
quest’epoca come tecnica mediante la quale la misurazione dell’altitudine di un
luogo (o della differenza di altitudine tra due luoghi) viene ricondotta ad una
misurazione di pressione atmosferica. Dal valore di quest’ultima si risale
all’altitudine mediante la cosiddetta formula ipsometrica. Questa è la relazione
che stabilisce l’andamento della pressione atmosferica al variare della quota.
Al pari di un moderno ricercatore, il Delfico descrive minuziosamente i
materiali e metodi utilizzati ai fini dello studio: “…due barometri e quattro
termometri della miglior costruzione…; …il fondo del pozzetto, dove la canna, o
tubo barometrico immerge nel mercurio la sua estremità aperta è fatto di pelle,
la quale può essere a piacere spinta in alto o portata a basso per mezzo di una
vite d’ottone sottopostagli…”. E’molto probabile che la descrizione del
dispositivo barometrico fatta dal Delfico si riferisse al barometro portatile
ideato da Deluc e successivamente sviluppato da Fortin, meccanico parigino
vissuto tra il 1750 ed il 1831. Si tratta, infatti, di un cilindro di vetro il
cui fondo, formato da un sacchetto di pelle di camoscio, può essere sollevato o
abbassato mediante una vite girevole nella parte inferiore della superficie
cilindrica di ottone che ricopre la vaschetta e il sacco di pelle. Superiormente
vi è un’apertura centrale attraverso cui passa la canna barometrica. Una punta,
fissa al coperchio del cilindro, serve a segnare il livello del mercurio nella
vaschetta. Lo strumento è corredato, inoltre, di un termometro a mercurio (2).
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Barometro di Deluc-Fortin |
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E cominciano le misurazioni: Teramo, Ornano (Colledara, nds), Isola, Ara Pietra
“…dove ci convenne licenziar le vetture e raccomandarci alle proprie gambe;
ivi allo spuntar dei primi raggi del Sole ammirai per qualche tempo la sommità
della montagna illuminata, mentre al basso erano ancora poco rischiarate le
ombre notturne. Essa era fortunatamente sgombra di quelle nebbie di vapori, che
spesso qua e là la ricoprono, e rendono quasi veneranda. Quindi con quel piacere
che le grand’impressioni producono, io vedeva la base della Montagna in tutto
l’apparato della più vigorosa vegetazione verdeggiare variamente ne’ boschi
antichi e con le amene praterie, che facevano una vaga alternativa di chiari ed
oscuri, ed alzando poi lo sguardo mi si presentava il monte in tutto il resto
della sua elevazione spoglio di ogni vegetabile produzione, lacero, e
maltrattato dai lunghi secoli, in cui ha dovuto essere bersaglio delle meteore,
le più violenti...”. Nell’avanzare sulla nuda roccia, il Delfico propone,
inoltre, una descrizione di natura geologica. La catena del Gran Sasso è
notoriamente costituita da calcari e dolomie che conferiscono alla montagna un
aspetto maestoso, con pareti altissime e verticali non riscontrabili in nessun
altro settore dell’Appennino. Egli scrive non senza un pizzico d’ironia:
“…spesso si costeggia la montagna nelle più impervie situazioni, mettendo piede
innanzi piede, o sopra le più mobili e sdrucciolevoli frane, o rampicandosi per
le punte delle rocche, le quali se fossero venute meno, o il piede avesse
fallato, si correva il rischio di misurarne con ben cattivo metodo l’altezza…”,
e aggiunge:”…tutto l’intero masso si riconosceva di pietra calcare uniforme
di grana rozza e bianca senza osservabili varietà..”. E il viaggio prosegue
alla volta del Ghiacciaio Calderone il quale, ad una quota compresa tra i 2650 e
i 2850 mt. s.l.m., con la sua latitudine di 42°28’ N, è considerato
tradizionalmente il ghiacciaio più meridionale d’Europa, estendendosi su una
superficie di circa 5 ettari, con spessore massimo variabile di 25 metri. Il
Delfico lo decrive così: “…un esteso ripiano quasi interamente circondato da
alte rocche, che ne formano come una maestosa conca…di neve non eguale in
durezza al gelo, ma ben solida e ferma…in mezzo alla quale scorre un ruscelletto
perenne…si può pensare che l’acqua appena incomincia a formare i piccolissimi
primi achi per gelare, essi sono portati via dalla corrente e non possono
attrarsi con quella polarità necessaria per formare i primi cristalli di gelo…”;
è verosimile ipotizzare che il Delfico si sia trovato di fronte ai ruscelli
prodotti dall’acqua di fusione del ghiacciaio, i quali alimentavano, in passato,
il cosiddetto Lago Sofia, estinto progressivamente alla fine degli anni ottanta.
“Si può immaginare facilmente che il resto della montata sia il più
malagevole e scabroso…da far veramente raccapricciare…; così arrivammo
sull’ultima cimata;…pasciuto così alquanto l’occhio e lo spirito, posi in opera
i miei Istrumenti per fare le osservazioni…”. L’unità di misura utilizzata
dal Delfico per la valutazione delle quote, attraverso complesse operazioni
logaritmiche, è il cosiddetto piede parigino (largamente in uso in tutta
Europa a partire dal XIII secolo) che corrisponde a 0.32484 mt. Egli rileva per
la città di Teramo 889 piedi parigini, Ornano da Teramo 649, Monte Corno da
Ornano 8039, “…in tutto dal livello del mare 9577 piedi parigini…”.
Lavoro straordinario, stimando che 9577 piedi parigini corrispondo agli attuali
3100 mt. e che, con le moderne rilevazioni del Global Position System, abbiamo
oggi certezza che la vetta del Monte Corno si stagli a 2912 mt. s.l.m.
L’opera del Delfico prosegue con osservazioni di Botanica e di ordine faunistico,
finanche esprimendo considerazioni sulla evoluzione geologica del massiccio:
“Nella incertezza della Teoria della Terra, questo disordine apparente di strati
ci porta a pensar così, non ostante, che valenti Geologisti abbiano stimato
diversamente, cioè che tale irregolarità sia effetto della prima
cristallizzazione, e formazione.”.
A 220 anni di distanza dal manoscritto inviato dal Delfico allo Zio Filippo
Mazzocchi (2/03/1796), con il racconto del viaggio e le relative osservazioni, è
esigenza naturale di ciascun lettore esprimere meraviglia ed ammirazione nei
confronti d’un impresa per l’epoca titanica, tanto meticolosamente strutturata e
tanto sorprendentemente vicina, nei risultati, alla realtà. Lo spirito
illuministico che traina l’intera opera e ne pervade i contorni, ne fa un
cammeo prezioso di scienza e letteratura e una straordinaria testimonianza di
umana tensione all’ignoto e, conseguentemente, all’infinito.
“Non è facile l’esprimere quel misto di sensazioni, che provai al trovarmi
per la prima volta sulla cima di una così alta montagna, e come l’orrore dei
passati perigli, e l’aspetto delle balze le più alpestri, delle valli
voraginose, dei dirupi più spaventevoli, e dei grandiosi sfasciumi che da più
parti mostra il monte, fosse tutto superiormente compensato dalla veduta , che
comprendeva il maggior spazio, che si fosse presentato al mio sguardo, e
dall’interno contento di vedermi giunto dove io desiderava".
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