De Filippis

 

De Filippis-Delfico

 

(Teramo, 1820)

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Stemma famiglia De Filippis-Delfico, Teramo, 1820

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Delfico

(Napoli, sec. XVIII)

(Teramo, sec. XV)

Stemma famiglia De Filippis, Napoli, sec.XVIII

Stemma famiglia Delfico, Teramo, sec.XV

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A proposito di un'anonima dissertazione.

Note sulla presunta partecipazione di Melchiorre Delfico al concorso del 1796

di Gabriele Carletti

In «Trimestre», a. XXXIII, 2000, nn. 1-2, pp. 107-124

Tra i 57 partecipanti al concorso indetto dall'Amministrazione della Lombardia nel 1796  il nome di Melchiorre Delfico non figura.

È questa, forse, la ragione per cui gli studiosi di Delfico  non si sono mai posti il problema circa una possibile partecipazione dello scrittore teramano a quel concorso. Eppure, in quella che ancora oggi resta una valida fonte di notizie biografiche (1), Gregorio De Filippis-Delfico, nipote di Melchiorre, riporta tra le opere delficine "non-terminate" un opuscolo di 26 pagine privo di intestazione e da lui intitolato Sul quesito: Quale sia il miglior de' governi per l'Italia?, anche se poi nessuna notizia, sia in merito a questo testo sia relativa al concorso, fornisce nella ricostruzione biografica dell'Autore.

In un articolo del 1931, dal titolo Il ceto dei Patrioti e l'idea italiana dal 14 maggio 1796 al 12 giugno del 1797, Renato Soriga si rammaricava di non aver potuto ancora prendere diretta visione di una "certa scrittura" di Melchiorre Delfico, redatta in vista del celebre concorso e rimasta sconosciuta. Ma ancora dieci anni dopo, nel 1941, quando raccoglieva l'articolo nel volume L'idea nazionale italiana dal secolo XVIII all'unificazione (2), nulla egli aggiungeva circa l'esistenza di una presunta dissertazione delficina.

L'indicazione di Soriga ha in seguito attirato l'attenzione di Armando Saitta in occasione della pubblicazione nel 1964 dei testi del concorso. Ma il noto studioso, dopo accurate ricerche, ha manifestato qualche dubbio sulla effettiva partecipazione del Teramano al concorso del '96, pur lasciando aperto il campo a ipotesi diverse. Non ha escluso la possibilità che Delfico abbia davvero iniziato a scrivere una dissertazione per il concorso, senza tuttavia portarla a termine, e che il suo testo sia andato irrimediabilmente perduto nel corso degli anni.

Assai più suggestiva e meritevole di maggior considerazione ci appare l'altra ipotesi saittiana, secondo cui Delfico non solo avrebbe scritto, ma portato a termine e inviato all'Amministrazione generale della Lombardia una dissertazione la quale, forse, sarebbe stata anche pubblicata e di cui lo scritto menzionato dal De Filippis tra le opere "non-terminate" rappresenterebbe un abbozzo o soltanto una parte del testo definitivo. In tal caso Saitta non esclude che proprio Delfico possa essere l'autore che si cela dietro l'anonimo opuscolo dal titolo Sul governo che conviene all'Italia, stampato a Venezia dal tipografo Palese e da lui ripubblicato nel II volume (3). Una tesi, questa, che troverebbe giustificazione in una certa affinità concettuale del testo con alcune idee espresse da Delfico in altre opere; nell'ammirazione che in esso viene manifestata per la Repubblica di San Marino e nella profonda cultura mostrata dal suo autore.

Nostro obiettivo è quello di accertare la veridicità dell'ipotesi saittiana, mettendo a confronto alcuni concetti contenuti nell'opuscolo con altri presenti negli scritti delficini.

Comune è l'atteggiamento nei confronti della "memorabile" rivoluzione dell'89, che aveva decretato i sacri e inviolabili diritti dell'uomo e del cittadino (4). Sin dall'inizio Delfico aveva ritenuto, così come Verri (5) e molti altri illuministi, che i "fatti" di Francia servissero di modello agli altri popoli. "La Rivoluzione della Gallia" - aveva scritto - non solo non rappresentava una minaccia, ma costituiva "un esempio favorevole per i Principi savj, che non dovevano aspettare gli eccessi de' disordini pubblici, ma ristabilire in tutti i rami dell'Amministrazione la Giustizia relativa ai diversi aspetti di essa" (6). Merito della rivoluzione era stato quello di aver definitivamente sancito il principio della rappresentanza politica, concetto questo più volte ribadito anche nell'opuscolo come condizione di "prosperità nazionale", nonché quello di aver affermato l'idea che "la facoltà di far le leggi appartiene al corpo della Nazione" (7).

Riconducibili a Delfico potrebbero essere anche alcuni giudizi nei confronti dell'aristocrazia feudale. L'impegno attivo dello scrittore teramano in favore di un rinnovamento giuridico ed economico del Regno napoletano durante i decenni del riformismo meridionale (8) aveva preso le mosse da una ferma e decisa condanna del regime feudale, responsabile di profonde divisioni e di "mostruose" sperequazioni e difformità all'interno del corpo sociale. E soprattutto contro l'aristocrazia feudale, giudicata "la più impropria forma di governo, che siasi mai conosciuta", e la giurisdizione baronale, definita "nuova mostruosità politica e stranissima usurpazione dei diritti de' Popoli, e de' Sovrani" (9), egli aveva condotto un duro attacco con una foga, un vigore e degli argomenti che - come ha scritto Villani - nulla avevano da invidiare "alla chiarezza ed all'eloquenza del Filangieri" (10).

Una certa corrispondenza di valutazione si coglie poi a proposito degli "orrori" commessi dal governo dei papi, responsabile, per l'anonimo autore, di essersi opposto all'indipendenza nazionale e di aver cercato costantemente, attraverso "usurpazioni", "intrighi" e un "simulato dispotismo", di assoggettare al proprio volere l'intera penisola (11). Non dissimilmente, Delfico, che sin da giovane aveva manifestato un atteggiamento anticuriale e giurisdizionalistico, di ascendenza giannoniana e di eredità genovesiana (12), indica nella condotta politica della Corte di Roma la vera causa della rovina degli Stati e accusa i ministri del culto di essere gli artefici di "miserabili astuzie" delle quali i governi si sarebbero avvalsi e continuerebbero ad avvalersi "per ingannar i popoli e gravarli di nuovo giogo" ed "indurli ai loro voleri" (13).

La stessa affermazione che "l'uomo non dipende che dalle leggi" (14) sarebbe stata condivisa da Delfico, che aveva a lungo criticato l'ingiusto "addensamento" delle ricchezze nelle mani di pochi perché distruggeva l'uguaglianza e andava contro il "principio civile dell'utile comune" (15), facendo passare gli uomini da una necessaria e libera sottomissione all'autorità delle leggi, all'arbitraria dipendenza dei possessori.

Anche l'idea del lusso come causa di depravazione dei costumi (16) trova corrispondenza negli scritti delficini. Diversamente dal suo maestro Genovesi, che aveva dato del fenomeno una valutazione sostanzialmente positiva (17), Delfico, al pari di Doria, Longano, Palmieri, Galanti ed altri riformatori meridionali (18), non attribuisce al lusso alcuna valenza positiva sia dal punto di vista economico, come generatore di ricchezza, sia da quello politico, come fattore di riequilibrio e di trasformazione della società feudale. Anzi, riecheggiando motivi roussoiani del Discours sur les sciences et les arts, egli esclude che il lusso sortisca altri effetti se non quelli di "moltiplicare gli oziosi", "rendere frivoli" gli uomini, "corrompere il gusto" e aprire la strada alla corruzione (19).

Come l'anonimo scrittore poi anche Delfico nutre ammirazione non solo per Montesquieu, che definisce, nonostante qualche dissenso sulla teoria della divisione dei poteri, "immortale Autore" (20), e che considera, assieme a Rousseau e a Sieyès, "il più grande filosofo politico del secolo" (21), ma anche per Beccaria e Verri, conosciuti durante il suo soggiorno in Lombardia tra la fine del 1788 e l'inizio dell'anno successivo, come pure per l'amico Filangieri, a cui era stato legato dall'impegno antifeudale e da comuni interessi e amicizie, e a cui aveva dedicato un suo scritto (22).

Comune è altresì l'elogio della Repubblica di San Marino. Per Delfico, proprio il piccolo Stato di San Marino rappresentava, specie dopo la profonda crisi di fine secolo, un modello politico reale, che mostrava la possibilità, non utopistica, di dar vita ad una forma di civile associazione più adatta e conveniente alla specie umana. In particolare, nelle Memorie storiche di San Marino, pubblicate a Milano nel 1804, egli indaga su come la piccola repubblica sia riuscita a conservare intatta nei secoli la sua indipendenza, a fronte di tanti sconvolgimenti di repubbliche e di imperi ed abbia felicemente adombrato, riprendendo una definizione vichiana (23), "un tipo dei veramente umani governi" (24). Ricerca, in altri termini, nella storia le ragioni del mito di San Marino (25), di come cioè un piccolo stato abbia mantenuto nel tempo la propria libertas (26) e serbata l'antica e prediletta forma repubblicana, tanto da assurgere a modello politico agli inizi del Seicento con Traiano Boccalini (27), Ludovico Zuccolo (28) e Matteo Valli (29). Ed è proprio il fatto di scorgervi un modello, una delle ragioni che spingerà Delfico a scegliere San Marino come luogo di esilio nel 1799 per sottrarsi alla reazione borbonica e a rimanervi per sette anni, fino al giugno del 1806 (30), quando verrà richiamato a Napoli da Giuseppe Bonaparte a far parte del nuovo governo.

Perfino la positiva considerazione, presente nell'opuscolo, degli antichi popoli italici per la loro "passione" per la libertà e l'indipendenza (31) trova riscontro in Delfico, per il quale gli esempi di "virtù" dei Piceni, dei Sanniti, dei Marsi costituivano la migliore tradizione di un modello italico (32), meritevole di essere riscoperto. Antichi sentimenti ed ideali, da tempo trascurati o abbandonati, che egli avrebbe voluto far rivivere e innestare nella società contemporanea.

Ma accanto a queste, e forse ad altre ancora, affinità esistenti tra la dissertazione e alcune tesi delficine è possibile cogliere tra l'anonimo scrittore e il Teramano profonde divergenze dovute ad una diversità di vedute e di valutazioni.

Un primo elemento di discordanza emerge a proposito del giudizio sulla Francia rivoluzionaria all'indomani dell'abolizione della monarchia. Diversamente dall'autore della dissertazione, infatti, Delfico valuta positivamente della Rivoluzione francese solo la fase monarchico-costituzionale, quella da Cuoco definita "legale" (33). Condannerà, invece, la fase giacobina, avversandone non soltanto il metodo "distruttivo" e le idee politiche "astratte" e "mostruose" (34) ma anche i progetti universalistici, anticipando così un modulo storiografico che avrà fortuna negli anni successivi, basato sulla contrapposizione tra l'89, con le sue idee di libertà e di uguaglianza, ed il '93, caratterizzata da tanti orrori. Sin dall'inizio del 1792 egli non nasconde la propria "trepidazione" per la situazione interna della Francia né una certa apprensione per la sua politica estera, specie all'indomani della dichiarazione di guerra all'Austria, nell'aprile di quell'anno. Lo preoccupa il destino dell'Italia e il timore che i Francesi possano da un momento all'altro invadere il Piemonte (35). Condanna gli eccessi rivoluzionari all'indomani del 1792 più fermamente di quanto non faccia l'anonimo scrittore, per il quale quei "funesti" avvenimenti non sarebbero che "avanzi del moribondo dispotismo" (36), il prezzo della democrazia così fortemente osteggiata, la inevitabile conseguenza di quella assoluta inconciliabilità - ricordata anche da Machiavelli nel Principe (37) - tra gli interessi del popolo (che "vuole la libertà") e quelli dei nobili (che "tentano d'introdurre l'aristocrazia o di far risorgere il realismo" (38)). Non per questo tuttavia Delfico è dalla parte dell'amico Francesco Soave il quale, nel tentativo di denunciare i mali della "popolare licenza" faceva proprie le tesi più retrive del conservatorismo italiano ed europeo e finiva per condannare in blocco la rivoluzione considerando il 14 luglio nient'altro che una "giornata d'orrore", i rappresentanti dell'Assemblea Nazionale "tiranni", quelli del Terzo Stato "faziosi", i decreti dell'agosto '89 "sediziosi" e la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino una "promulgazione sediziosa" e un "edificio informe e mostruoso" (39) di cui chiedeva la completa soppressione.

Non poche riserve inoltre Delfico avrebbe espresso su quelli che l'autore della dissertazione definisce " i gloriosi conquistatori del 1796" e su "l'immortal genio che li guida" i quali spargendo dappertutto "la benefica luce della verità" rendono il popolo "ogni giorno più libero" e "rianimano da un estremo all'altro lo spirito d'indipendenza" (40). Se da un lato si riaccende nel Teramano nella seconda metà del 1796 l'interesse per la Grande Nation e cresce l'entusiasmo per i suoi progressi interni, nonostante tema una recrudescenza degli eccessi rivoluzionari e speri come il suo amico Fortis che "le male arti de' giacobini" (41) non abbiano il sopravvento, dall'altro Delfico condanna la politica espansionistica della Francia, tanto da biasimare quanti in Italia continuano a riporre nell'occupazione francese le proprie illusioni rivoluzionarie: "Io compatisco quei luoghi - afferma - ne' quali si è danzato intorno all'albero della libertà, e dovranno ritornare allo stato antico" (42). Resta difficile pertanto credere che egli abbia potuto incitare gli Italiani a sopportare - come si legge nella dissertazione - "intrepidamente i mali di una guerra momentanea" e a sacrificarsi "generosamente" (43) in vista di un prossimo riscatto politico.

Non solo, ma nessun dubbio Delfico nutre sulle mire politiche di Napoleone, di cui disapprova oltre alle condizioni gravose imposte alle città occupate anche le innumerevoli requisizioni, ruberie e saccheggi dei suoi soldati (44), che egli, diversamente dall'anonimo autore, si guarda bene dal considerare "gli amici più sinceri e più utili" (45) dei popoli oppressi. Negli accordi di pace che i Francesi stipulano con i Piemontesi prima e con la Santa Sede poi egli non vede né "la morale repubblicana, né la vantata amicizia per le Nazioni" (46). Ed è pertanto con sollievo che alla fine di luglio del 1796 vede allontanarsi il pericolo di un'incursione in Abruzzo (47), dato che i Francesi avevano del tutto evacuato la Romagna in previsione dell'offensiva austriaca del Trentino. Ma poco importa il motivo, ciò che conta - scrive a Fortis - è che comunque "i Repubblicani non si rivolgeranno per ora da questa parte" (48).

Opposti sono poi i giudizi che i due autori esprimono sulla monarchia. Contrariamente all'anonimo scrittore il quale si dichiara "sorpreso che insigni politici abbiano collocato la monarchia fra i governi liberi" in quanto essa "ha inerente il dispotismo" (49), Delfico non nasconde la propria simpatia per essa. Le allusioni alla repubblica restano nelle sue opere vaghe, sottintese e comunque prive di un reale contenuto politico-istituzionale (50). È convinto che la legge universale del bene pubblico è "adattabile ed eseguibile sotto qualunque specie di governo", e che "la regolare monarchia" non toglie nulla alla migliore forma di governo possibile, che "anzi è forse la sola che possa lungamente sostenerlo" (51). Nelle "reggie", come nei "senati" e nelle "popolari adunanze", possono dunque sorgere e regnare "le più nobili idee della ragione" e "tutti i più sublimi sentimenti di virtù" (52). Ed egli non esclude che si possa creare un "modello di monarchia virtuosa" (53), fondato sul superamento della rigida contrapposizione tra monarchia e repubblica e sulla necessità di estendere, in contrasto con Montesquieu e con lo stesso anonimo autore (54), la pratica della virtù alla stessa monarchia. 

Anche dopo la fuga e l'arresto di Luigi XVI a Varennes nel giugno del 1791, di fronte al problema, assai discusso in Francia, della forma costituzionale da preferire, se erigersi in Repubblica o mantenere il Re "coll'assegnargli un Consiglio permanente", lo scrittore abruzzese manifesta le proprie simpatie politiche pronunciandosi a favore della seconda soluzione e dichiarando di essere stato "sempre monarchico" e di ritenere la "vera Monarchia quella che ammette più diverse libertà" (55).

Né tale convinzione il Teramano sembra mutare all'indomani dell'ingresso delle truppe francesi in Abruzzo (56), quando verrà dapprima chiamato, il 12 gennaio 1799, a presiedere a Pescara il Supremo Consiglio (57), l'organo politico più importante esistente nella regione, e successivamente nominato, il 23 gennaio dello stesso anno, membro del Governo Provvisorio della Repubblica partenopea. Non vi è dubbio che la collaborazione di Delfico con i Francesi, per quanto "piena e convinta" (58), vada vista come il tentativo di reinserirsi nel giro di quella politica attiva, nella quale egli da sempre confida. Non crediamo invece che tale partecipazione  segni  il passaggio dello scrittore teramano dalla prospettiva monarchico-riformistica a quella repubblicano-giacobina (59). Egli non tiene presente, infatti, quello che può definirsi il momento "eroico" della rivoluzione francese, le idee e la prassi dei jacobins, che Saitta ha identificato "con il modello e il momento robespierrista" (60); né l'esperienza provoca quella vera e propria "lacerazione" e "rottura" nella sua biografia intellettuale che Galasso ha riscontrato invece nei riformisti meridionali passati alla rivoluzione (61). Tensioni ideali e finalità pratiche continuano ad essere, anche durante la parentesi repubblicana, le stesse che lo hanno animato in tante battaglie del passato. Persino il Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia pei Tribunali dei Dipartimenti e Giudici dei Cantoni (62) del 24 piovoso anno VII [12 febbraio 1799], l'atto legislativo più importante del Consiglio Supremo pescarese col quale viene introdotto un nuovo ordinamento giudiziario e in cui maggiore è l'istanza egualitaria (63), non sembra discostarsi da certi suoi principi e aspirazioni precedentemente espressi (64).

Più tardi, durante il ripensamento della vicenda rivoluzionaria di fine secolo Delfico auspicherà un recupero della tradizione storica nazionale: "Se si fosse consultata la storia d'Italia con qualche diligenza, si sarebbe trovato, che lo spirito di ragione e di moderazione fece dell'Italia il soggiorno o la sede della libertà nei secoli più remoti" (65). A questo senso di moderazione (piuttosto che allo "spirito repubblicano" (66) suggerito dall'autore della dissertazione) l'Italia avrebbe dovuto continuamente richiamarsi e "gli esempli recenti ed i fatti antichi" dovevano persuaderla che non vi era "altro mezzo alla sua tranquillità, alla sua felicità" (67). La critica delficina dell'esperienza rivoluzionaria si risolve in definitiva nella ricerca di una linea politica "saggia" e realistica, che non miri alle "magiche trasformazioni" ma proceda per "proporzionate graduazioni" alla realizzazione di un programma costituzionale (antifeudale e anticuriale), "cui è lecito di aspirare" (68).

Un ulteriore elemento di differenziazione è dato dalla diversa considerazione che i due autori hanno del problema costituzionale. Se per l'anonimo scrittore l'elaborazione di una carta costituzionale non sembra affatto prioritario, sia perché non immediatamente legata alla scelta del governo più conveniente all'Italia, sia perché essa non avrebbe dovuto far altro che ricalcare quella francese del 1795, per Delfico l'emanazione di una costituzione è un atto assolutamente improrogabile. È, quello costituzionale, un problema politico che si presenta in tutta la sua importanza agli occhi del Teramano sin dai tempi dell'Assemblea Costituente, quando aveva considerato la costituzione "il maggior riparo" (69) contro il pericolo controrivoluzionario e avvertito la necessità di una connessione tra la "libertà civile", il diritto cioè di disporre delle "proprietà personali e reali", e le "costituzioni regolari" che quella libertà doveva riconoscere e custodire. Sull'esempio di quanto accadeva oltralpe, lo scrittore abruzzese rivendica, accanto ad una legislazione stabile e regolare, una legittima costituzione "che ne sia il presupposto e ne costituisca il necessario fondamento" (70). Anche in futuro, le costituzioni rappresenteranno per lo scrittore abruzzese "le condizioni necessarie per la buona esistenza delle civili società" (71), poiché impediscono qualsiasi abuso di  potere e permettono di assicurare i diritti individuali e la tutela dei cittadini e dei loro beni sotto la legge.

Le sue idee costituzionali, tuttavia, non hanno nulla di eccessivo, non la pretesa di una "perfezione astratta", bensì la ricerca di una soluzione conveniente e proporzionata alle circostanze. Lo stato che egli predilige è di tipo costituzionale e rappresentativo, basato sull'uguaglianza delle leggi, sulla divisione dei poteri, sul conferimento dell'autorità legislativa al popolo, sulla rappresentanza politica senza restrizioni di rango o di censo e sul decentramento dell'amministrazione della giustizia attraverso lo stabilimento di magistrature locali e provinciali. Delfico mira ad un governo moderato, monarchico più che repubblicano: "Prima di dire qualche cosa di positivo - scrive in occasione  dell'incarico affidatogli l'8 luglio 1820 da re Ferdinando I di tradurre la Costituzione di Cadice del 1812 (72) -, stimo dovermi liberare da una prevenzione che può esservi su la mia persona, cioè di aver nell'animo una preferenza per le forme repubblicane, mentre le mie idee sono state sempre per le monarchie pure, avendole giudicate le più convenienti all'umanità ed ai veri bisogni sociali" (73).

Definita "la più vera forma di governi umani", fra tutte "la più adatta", "la più comoda", "la più decente" (74), la monarchia prediletta da Delfico si fonda più che sul principio della divisione e dell'equilibrio tra i poteri, che presupporrebbe un contrasto di forze, sull'idea di una "combinazione di forze" di cui il "solo vero potere" è quello esecutivo, i cui limiti però dovrebbero essere imposti più da una legge che da "un corpo resistente" (75). Al legislativo, composto di una sola camera in cui venga lasciato spazio ai proprietari che costituiscono "i veri rappresentanti della Nazione", egli assegna la prerogativa non di "formare e dettar le leggi" (operazione questa che sarebbe "più agevolmente" svolta da un individuo che da molti), ma di esaminarle ed approvarle per cui esso appare come un corpo destinato più "a dar de' lumi a chi siede sul trono, che ad assumere un'autorità di opposizione" (76). Né deve in alcun modo mescolarsi nell'attività del governo per non cadere nello stesso "abuso" che si era verificato nella Francia rivoluzionaria. In un'epoca come quella moderna, in cui gli Stati hanno già i loro codici, l'attività di un corpo legislativo si ridurrebbe essenzialmente a formulare al sovrano proposte volte al miglioramento delle leggi e dell'amministrazione. Il giudiziario, infine, più che un potere gli appare l'esercizio di una funzione necessaria alla società, la cui azione non deve assolutamente interferire nella sfera amministrativa (77). Amministrazione giudiziaria e amministrazione economica rappresentano i due modi attraverso i quali viene assicurata l'esecuzione delle leggi. Ugualmente appartenenti all'attività del governo, le due amministrazioni svolgono tuttavia "attribuzioni distinte", riguardando, quella economica, i rapporti dei cittadini con lo Stato, quella giudiziaria, i rapporti dei cittadini fra loro. Di qui la necessità di una costituzione che fissi le competenze e i limiti di ciascuna parte componente il governo.

Perfino la stessa prospettiva unitaria dello stato, ribadita con forza dall'anonimo scrittore, che polemizza in più di un'occasione contro l'assetto federale di Ranza (78), non trova un eguale riscontro in Delfico, sebbene egli stesso si rammarichi che l'Italia non abbia mai potuto elevare i suoi desideri all'unione e all'unità di un governo e ritenga che abbia tutti gli elementi necessari per formarla e potervi riuscire. 

Dissenso il Teramano avrebbe probabilmente manifestato anche di fronte all'affermazione   che   la   natura    accorda   a   tutti   gli  uomini,  sin   dalla   nascita,

l'uguaglianza  fisica, la quale "si conserva egualmente nei diritti del cittadino democratico" (79). Alcuni anni prima, infatti, egli si era mostrato pienamente d'accordo con l'amico Francescantonio Grimaldi che aveva confutato le tesi roussoiane sull'uguaglianza  tra  gli uomini,  correggendo quei "paradossi" che "fra molte vere e nobili osservazioni" (80) erano racchiusi nel Discours sur l'origine de l'inégalité. Contrariamente al Ginevrino, che riteneva l'ineguaglianza essere "presque nulle dans l'Etat de Nature" (81), Grimaldi ne affermava il principio dell'origine naturale, smentendo quanti sostenevano che gli uomini nascono eguali. Pur essendo in potenza eguali, avendo tutti un "diritto a vivere e vivere felicemente" (82), riconosceva che tale "diritto generale" si realizzava  per ciascun individuo in maniera peculiare. Vi è fra gli uomini una diversità nella forza, nel temperamento, nelle passioni, nella sensibilità, che deriva direttamente dalla natura. Ad accentuare poi tale differenza concorrono i fattori fisico-ambientali, che determinano a loro volta un differente modo di vivere. Ancora più manifesta, anche se "meno fastidiosa", è la diseguaglianza morale, conseguenza diretta di quella fisica, generata da uno sviluppo difforme delle facoltà intellettive degli uomini. Sebbene infatti egualmente sensibili e suscettibili d'infiniti bisogni, essi modificano profondamente il loro carattere in ragione della loro capacità di sentire, di pensare e di volere e delle differenti circostanze in cui vengono a trovarsi. Vi è infine la diseguaglianza politica stabilita dalla società, nonostante il suo grado di civilizzazione.

La tesi grimaldiana della naturalità della disuguaglianza, inizialmente accolta anche da Pagano (83), non presenta per Delfico alcun carattere di legittimazione dell'esistente o di smentita del processo di rinnovamento (84). Egli interpreta le Riflessioni grimaldiane in chiave riformistica e antifeudale, soprattutto la terza parte, quella relativa all'ineguaglianza politica. La società, pur non essendo in grado di annullare questa diversità, può tuttavia limitarla sensibilmente e offrire ai suoi componenti "inimmaginabili gradi di perfettibilità" (85).

Vi è infine nella dissertazione un continuo richiamo a Machiavelli, autore assai noto al Teramano (86). Ma diversamente dall'anonimo scrittore, Delfico non condivide l'interpretazione repubblicana che viene data del Segretario fiorentino, secondo un costume assai diffuso in quegli anni, né tantomeno la tesi di un Machiavelli fautore della democrazia. Perfino il Discursus florentinarum rerum, scritto tra il 1520 e il 1521 (87), ma pubblicato la prima volta nel 1760 col titolo Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze ad istanza di Leone X (88), da molti considerato, alla sua uscita, l'Antiprincipe per antonomasia, il testo che più di tutti rivelava l'animo repubblicano di Machiavelli (89), non sembra invece conquistare pienamente Delfico. Il progetto di realizzare "una Repubblica perfetta" gli appare infatti lacunoso e perfino discutibile. Lacunoso perché in esso il Fiorentino passerebbe sotto silenzio tutta una serie di problemi relativi alla formazione, all'organizzazione e alla durata del corpo sociale. Criticabile, invece, perché nel Discursus Machiavelli non porrebbe i cittadini tutti sullo stesso piano, per distinguerli successivamente secondo funzioni e ruoli necessari per il buon funzionamento dello Stato, ma li dividerebbe in tre classi permanenti ("primi, mezzani   ed   ultimi" (90)), legittimando così una politica costituzionale fondata sull'ineguaglianza "legale", che precluderebbe la possibilità di trasformare Firenze in "un vero corpo politico", per piantarvi invece il germe malefico "della disunione, della discordia, della distruzione" (91)

Ugualmente estranea a Delfico è poi la convinzione che Montesquieu accordi alla democrazia "tutta la preferenza, fissando la virtù per suo principio" (92). Egli ritiene, infatti, che il celebre autore dell'Esprit des lois mostri simpatia proprio nei confronti della monarchia, rimproverandogli peraltro di aver creduto che la virtù fosse un principio necessario al governo popolare e non anche alla monarchia e di aver sostenuto che "i corpi intermedj" possano impedire "gli eccessi del potere assoluto, ed indipendente" (93).

Sono, queste, alcune discordanze esistenti tra i due scrittori che inducono a ritenere alquanto inverosimile l'ipotesi che possa essere Delfico l'autore dell'anonima dissertazione Sul governo che conviene all'Italia. Assai più probabile sembra essere invece la conclusione che lo scrittore teramano difficilmente abbia partecipato al concorso del '96, non solo per le divergenze ricordate, ma anche perché non vi è, allo stato attuale, alcuna traccia nell'opera delficina, né dello scritto né di una sua eventuale partecipazione né di qualsiasi riferimento concernente il concorso, diversamente da quanto avviene a proposito di un altro concorso, bandito dall'Accademia di Padova sul problema della libertà di commercio, a cui Delfico partecipa con la Memoria sulla libertà di commercio (94), della quale rimangono invece non poche testimonianze nel suo epistolario.

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(1) G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico. Libri due, Angeletti, Teramo 1836, arricchita di un'elencazione degli scritti editi ed inediti di Delfico (alcuni dei quali successivamente pubblicati), nonché di quelli non terminati e dei frammenti. Rimasta incompiuta, l'opera continuò sul "Giornale abruzzese di scienze lettere e arti", a. VI, 1841, vol. XVIII, n. LIV, pp. 147-73 e a. VII, 1843, vol. XXI, n. LXIII, pp. 129-53, col titolo Notizie intorno alle opinioni filosofiche ed alle opere di Melchiorre Delfico e, sempre sulla stessa rivista, a. VII, 1843, vol. XXII, n. LXVI, pp. 163-71, col titolo Notizie sulla vita e sulle opere di Melchiorre Delfico.

(2) Cfr. R. Soriga, L'idea nazionale italiana dal secolo XVIII all'unificazione, Tipografica Modenese, Modena 1941, p. 61.

(3) Cfr. A. Saitta, Alle origini del risorgimento: i testi di un "celebre" concorso (1796), Istituto Storico Italiano per l'età moderna e contemporanea, Roma 1964, vol. I, Introduzione, p. XXVI. La dissertazione è stata rintracciata da Renato Soriga presso la Biblioteca del Museo del Risorgimento di Milano.

(4) Cfr. Sul governo che conviene all'Italia, in Saitta, Alle origini del risorgimento, cit., vol. II, p. 237.

(5) Cfr. P. Verri, Alcuni pensieri sulla rivoluzione accaduta in Francia, pubblicati in C. Morandi, Pietro Verri e la Rivoluzione francese, in "Archivio storico lombardo", a. LV, 1928, fasc. IV, p. 536.

(6) Memoria delficina, rimasta interrotta e tuttora inedita, databile intorno alla metà del 1790, conservata presso la Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo "Manoscritti Delfico", Ined., n. 402.

(7) M. Delfico, Viste politiche e morali sugli effetti della rivoluzione, appunti pubblicati da A. Marino, Scritti inediti di Melchiorre Delfico, Solfanelli, Chieti 1986, p. 112.

(8) Sul riformismo delficino, cfr. V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano (1777-1798). L'attività di Melchiorre Delfico presso il Consiglio delle Finanze, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1981.

(9) M. Delfico, Riflessioni su la vendita dei feudi [Porcelli, Napoli 1790], ora in Opere complete, a cura di G. Pannella e L. Savorini, vol. III, Fabbri, Teramo 1903, pp. 423 e 424. La stessa tesi Delfico aveva espresso nella Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri del 1788, in a. M. Rao, L'"amaro della feudalità". La devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli alla fine del '700, Guida, Napoli 1984, pp. 349 e 351.

(10) P. Villani, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Laterza, Bari 1973, p. 177.

(11) Cfr. Sul governo che conviene all'Italia, cit., pp. 231-2.

(12) Cfr. M. Delfico, Intorno a' dritti sovrani di Napoli sulla città di Benevento (tuttora inedita, esiste una copia autografa presso l'Archivio di Stato di Teramo, Fondo Delfico, b. 16, fasc. 178, dal titolo Del territorio beneventano) e Saggio storico delle ragioni dei Sovrani di Napoli sopra la città d'Ascoli d'Abruzzo oggi nella Marca, ora in Opere complete, vol. III, cit., pp. 9-80. Nelle due Memorie, entrambe del 1768, l'Autore difende i diritti del Regno di Napoli sui territori di Benevento e di Ascoli contro le "false o insussistenti" pretese giurisdizionali del pontefice su quei possedimenti, ottenuti non già per legittimi diritti di sovranità, ma con l'usurpazione.

(13) Cfr. M. Delfico, Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino, in Marino, Scritti inediti di Melchiorre Delfico, cit., pp. 22 e 62.

(14) Sul governo che conviene all'Italia, cit., p. 243.

(15) M. Delfico, Indizi di morale [1775], in Opere complete, vol. I, Fabbri, Teramo 1901, p. 47.

(16) Cfr. Sul governo che conviene all'Italia, cit., p. 225.

(17) Cfr. A. Genovesi, Delle lezioni di commercio o sia d'economia civile, Stamperia Simoniana, Napoli 17682, pp. 194 sgg. Sulla distinzione che l'abate salernitano opera tra un lusso "utile" e un lusso "nocivo" cfr. E. Pii, Antonio Genovesi. Dalla politica economica alla "politica civile", Olschki, Firenze 1984, pp. 196-203.

(18) Per un esame delle posizioni di questi autori nei confronti del lusso, cfr. P. Frascani, Il dibattito sul lusso nella cultura napoletana del '700, in "Critica storica", a. XI, 1974, n. 3, pp. 400 sgg.

(19) Cfr. M. Delfico, Saggio filosofico sul matrimonio [1774], in Opere complete, vol. III, cit., p. 105 e Memoria contro l'aumento dei soldi ai Magistrati [databile tra la seconda metà del 1790 e la prima metà del 1791], in Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., p. 395.

(20) Delfico, Indizi di morale, cit., p. 35.

(21) M. Delfico, Memorie storiche della Repubblica di S. Marino [Sonzogno, Milano 1804], in Opere complete, vol. I, cit., p. 472.

(22) Cfr. M. Delfico, Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, Teramo 1782, ora in Opere complete, vol. III, cit., pp. 151-75.

(23) Cfr. G. Vico, Principj di Scienza nuova [1744], in Opere di Giambattista Vico, a cura di F. Nicolini,  Ricciardi, Milano-Napoli 1953, lib. IV, p. 772.

(24) Delfico, Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, cit., p. 250.

(25) Per un approfondimento di questo tema, cfr. A. Garosci, La formazione del mito di San Marino, in "Rivista storica italiana", a. LXXI, 1959, fasc. I, pp. 21-47; Id., Il mito di San Marino, in "Rassegna storica toscana", a. XIV, 1968, n. 1, pp. 5-31, nonché il volume San Marino. Mito e storiografia tra i libertini e il Carducci, Comunità, Milano 1967; N. Bobbio, La leggenda di San Marino, in "Nuova Antologia", a. CXXII, 1987, fasc. 2162, pp. 65-81; R. Montuoro, Come se non fosse nel mondo. La Repubblica di San Marino dal mito alla storia, Edizioni del Titano, Repubblica di San Marino 1992, il quale, come gli altri autori, si sofferma a lungo sulle Memorie storiche delficine.

(26) Cfr. P. Aebischer, Les plus ancien témoignage relatif au mythe Saint-Marinais de la "libertas perpetua", in "Anuario de estudios medievales", Barcelona, 5, 1968, pp. 223-35.

(27) Cfr. De' Ragguagli di Parnaso, Centuria Seconda, Ragguaglio VIII, appresso Barezzo Barezzi, Venetia 1613.

(28) Cfr. Il Belluzzi, o vero Della Città felice, in Dialoghi, appresso Marco Ginammi, Venetia 1625, pp. 160-73.

(29) Cfr. Dell'origine et governo della Repubblica di S. Marino, Crivellari, Padova 1633.

(30) Sulla permanenza del Teramano nella Repubblica sammarinese, cfr. F. Balsimelli, Melchiorre Delfico e la Repubblica di San Marino, Arti Grafiche Della Balda, San Marino 1935; Garosci, San Marino, cit., pp. 165-226.

(31) Cfr. Sul governo che conviene all'Italia, cit., pp. 223-4.

(32) Sulla fortuna del "modello italico" tra i riformatori napoletani della seconda metà del Settecento, cfr. G. Giarrizzo, Vico, la politica e la storia, Guida, Napoli 1981, pp. 198 sgg.

(33) Cfr. V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 [Milano 1801], IIa edizione con aggiunte dell'Autore, tip. Francesco Sonzogno, Milano 1806, p. 112.

(34) Si veda l'ormai nota Prefazione di Delfico alle Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, cit., pp. 249-50.

(35) Delfico aveva temuto che potesse essere "repubblichizzato il Piemonte" sin dall'agosto del 1794 quando aveva sentito delle "nuove veramente desolanti", che i Francesi "avevano già introdotto [in Italia] un esercito di sopra a centomila uomini, e che stavano bombardando Cuneo, ed avevano di più presi quattro posti avanzati innanzi a Turino, dove il Re e tutta la famiglia reale erano intanto obbligati a rimanere per non mettere in bisbiglio il popolo; (…) che il Re di Sardegna aveva chiesto pace per sé e per l'Italia, e che aveva avute risposte negative. Vedete, dunque, che se queste notizie sono vere, l'agitazione non dev'essere piccola" (lettera da Napoli al fratello Giamberardino del 2 agosto 1794, in Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo "Manoscritti Delfico", Misc. 4, n. 934). In effetti, il piano d'invasione francese del Piemonte, attraverso Cuneo, era pronto dalla fine di giugno e avrebbe dovuto attuarsi ai primi di agosto, ma già in luglio l'armata d'Italia ne sollecitò l'esecuzione, facendo scendere la divisione Macquard sin nelle vicinanze di Cuneo.

(36) Sul governo che conviene all'Italia, cit., p. 245.

(37) Cfr. N. Machiavelli, Il Principe, in Opere di Niccolò Machiavelli Cittadino e Segretario fiorentino, Italia 1813, vol. IV, pp. 33-4. La tesi del conflitto tra le tendenze del popolo e quelle dei grandi si ritrova formulata nelle Istorie fiorentine, in Opere, cit., vol. I, lib. II, XII, p. 79. Sul contrasto tra i due diversi "umori", cfr. A. Bonadeo, Corruption, Conflict, and Power in the Works and Times of Niccolò Machiavelli, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1973, pp. 41-71.

(38) Sul governo che conviene all'Italia, cit., p. 245. Lo stesso concetto è espresso anche a p. 238.

(39) F. Soave, Vera idea della rivoluzione di Francia, presso Luigi Coltellini, Napoli 1793, pp. 17, 35, 41, 49, 59 e 195. Lo scritto fu pubblicato a Milano nel 1793 senza l'indicazione del luogo e della data e con il nome arcadico dell'autore Glice Ceresiano. Sempre nello stesso anno l'opera ebbe un'edizione torinese (ancora con il nome di Glice Ceresiano) ed una napoletana nella quale comparve per la prima volta il nome di Francesco Soave.

(40) Sul governo che conviene all'Italia, cit., p. 250.

(41) Cfr. la lettera di Alberto Fortis a Giuseppe Toaldo del 20 marzo 1797 da Parigi, in Illuministi italiani, t. VII, Riformatori delle antiche repubbliche, dei ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a cura di G. Giarrizzo, G. Torcellan e F. Venturi, Ricciardi, Milano-Napoli 1965,  pp. 389-90.

(42) Lettera  a Fortis  datata Teramo, 7 marzo 1797, in Biblioteca Governativa di San Marino, SM-M76 1, n. 172.

(43) Sul governo che conviene all'Italia, cit., p. 264.

(44) "Chi sa quanti belli quadri e statue costerà a Roma la pace!" si chiede con ironia Delfico alla vigilia dell'occupazione napoleonica delle legazioni pontificie (cfr. la lettera di Delfico a Luigi Angiolini, da Ascoli per Teramo, del 5 giugno 1796, in Biblioteca del Museo del Risorgimento di Milano, Busta I, plico II, n. 32885).

(45) Sul governo che conviene all'Italia, cit., p. 235.

(46) Lettera di Delfico ad Angiolini del 28 giugno 1796 da Teramo, in Biblioteca del Museo del Risorgimento di Milano, cit.

(47) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del 26 luglio 1796, in Biblioteca Governativa di San Marino, cit., n. 169. Come è noto, alla fine di luglio 1796 Napoleone Bonaparte concentrò le sue divisioni lungo una linea che dalle valli bresciane andava sino al basso Adige. Iniziava così la seconda fase della campagna d'Italia che si protrasse fino al febbraio successivo e che registrò importanti vittorie del generale francese a Castiglione (30 luglio - 5 agosto) a Bassano (2-8 settembre) ad Arcole (14-17 novembre) e a Rivoli (13-16 gennaio 1797), cui seguì infine la resa di Mantova con la quale i Francesi si assicurarono il dominio dell'Italia settentrionale.

(48) Lettera di Delfico a Fortis del 2 agosto 1796, in Biblioteca Governativa di San Marino, cit., n. 76, parzialmente pubblicata da Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., p 472.

(49) Sul governo che conviene all'Italia, cit., pp. 240 e 241.

(50) Sul mancato sviluppo in Italia di un pensiero repubblicano, cfr. F. Diaz, L'idea repubblicana nel Settecento italiano fino alla rivoluzione francese, in Per una storia illuministica, Guida, Napoli 1973, pp. 423-63.

(51) Delfico, Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, cit., p. 169.

(52) Ibidem.

(53) a. M. Rao, Organizzazione militare e modelli politici a Napoli fra illuminismo e rivoluzione, in Modelli nella storia del pensiero politico, vol. II, La rivoluzione francese e i modelli politici, a cura di V.I. Comparato, Olschki, Firenze 1989, p. 56.

(54) Cfr. Sul governo che conviene all'Italia, cit., p. 241.

(55) Lettera ai fratelli da Napoli,  30 luglio 1791 in Archivio di Stato di Teramo, Fondo Delfico, b. 24, fasc. 453c, n. 8.

(56) I Francesi, al comando del generale Rusca, erano entrati in Abruzzo il 6 dicembre 1798. L'11 dicembre erano arrivati a Teramo dove avevano liberato Melchiorre Delfico, che, accusato di cospirazione antimonarchica, si trovava in arresto nel proprio palazzo, assieme a tutta la famiglia, dal 27 settembre, e lo avevano posto a capo della Municipalità cittadina. Messe in fuga dai rivoltosi, le truppe francesi avevano riconquistato la città il 23 dicembre, per poi occupare Pescara, Sulmona e Penne il 24 e Chieti il 25. Per una ricostruzione di queste vicende, fondamentale resta l'opera di L. Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli Abruzzi (1798-1810), voll. I e II, Vecchioni, L'Aquila 1928, voll. III e IV, tip. Consorzio Nazionale, Roma 1939. Cfr., inoltre, V. Moscardi, L'invasione francese nell'Abruzzo teramano nel 1798-99, in "Bollettino della Società di storia patria", L'Aquila, a. XII, 1900, pp. 125-49.

(57) Sull'esperienza pescarese di Delfico, cfr. F. Masciangioli, Melchiorre Delfico e Pescara. Per una storia del rapporto tra intellettuali ed esperienze giacobine in Abruzzo, in "Trimestre", a. XX, 1987, nn. 1-2, pp. 41-69; M. Battaglini, Abruzzo 1798-1799. Una Repubblica giacobina, in "Rassegna storica del Risorgimento", a. LXXV, 1988, fasc. I, pp. 3-18, ora, con alcune integrazioni, in La Repubblica napoletana. Origini, nascita, struttura, Bonacci, Roma 1992, pp. 171-98 e, da ultimo, G. Carletti, La "Pescara" di Melchiorre Delfico, Edizioni Tracce, Pescara 1999, pp. 11 sgg.

(58) C. Petraccone, Rivoluzione e proprietà: i repubblicani abruzzesi e molisani nel 1799, in "Archivio storico per le province napoletane", terza serie, a. XXI, 1982, p. 205.

(59) Sullo spirito di moderazione di Delfico, interessato a trovare una mediazione tra eccessi rivoluzionari e intemperanze reazionarie, cfr. G. Carletti, Melchiorre Delfico. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale, ETS, Pisa 1996, pp. 135 sgg.

(60) A. Saitta, Giacobini italiani, in "Cultura moderna", giugno 1956, n. 26, p. 6. Cfr. inoltre D. Cantimori (a cura di), Giacobini italiani, vol. I, Laterza, Bari 1956, p. 412. Sull'argomento cfr., da ultimo, Il giacobinismo italiano nella storiografia, saggio introduttivo di Francesco Perfetti al volume di R. De Felice, Il triennio giacobino in Italia (1796-1799), Bonacci, Roma 1990, pp. 7-56. Spunti critici anche in Il mondo contemporaneo, vol. XI: Il modello politico giacobino e le rivoluzioni, a cura di M.L. Salvadori e N. Tranfaglia, La Nuova Italia, Firenze 1984, in particolare i saggi di Stefano Nutini, Claudia Petraccone e Salvo Mastellone.

(61) Cfr. G. Galasso, I giacobini meridionali, in "Rivista storica italiana", a XCVI, 1984, fasc. I, pp. 78 sgg., ora in La filosofia in soccorso de' governi. La cultura napoletana del Settecento, Guida, Napoli 1989, pp. 519  sgg.

(62) Il testo è stato pubblicato da R. Persiani, Alcuni ricordi politici nella massima parte abruzzesi al cadere del XVIII e principio del XIX secolo con documenti e note, in "Rivista abruzzese di scienze, lettere ed arti", a. XVII, 1902, fasc. VII-VIII, pp. 435-9. Senz'altro meno importante è l'altro atto a firma di Melchiorre Delfico, Proclama sulla sicurezza pubblica del 15 ventoso anno VII [5 marzo 1799] con il quale venivano fissate alcune disposizioni per combattere il vagabondaggio (ivi, pp. 441-2). Sia il Piano che il Proclama sono stati recentemente riediti da Carletti, La "Pescara" di Melchiorre Delfico, cit., rispettivamente pp. 51-5 e 57-8.  

(63) Masciangioli, Melchiorre Delfico e Pescara, cit., pp. 51 sgg.

(64) Il Piano, che si inserisce fra i provvedimenti di riforma del sistema giudiziario adottati dalla Repubblica napoletana, sanciva, in nome delle idee di libertà e di eguaglianza, il decentramento dell'autorità giudiziaria, prevedendo un giudice per ogni capoluogo di cantone e un tribunale per ogni capoluogo di dipartimento; l'amministrazione  gratuita della giustizia e la corresponsione di uno stipendio ai giudici e a tutti coloro che collaboravano all'attività giudiziaria; l'assistenza gratuita ai poveri; la "prontezza" e "l'imparzialità" dei giudici nell'applicazione delle norme; l'abolizione della carcerazione per debiti, a meno che non venisse provata la "frode" del debitore; il controllo dell'attività giudiziaria nonché la possibilità di ricorrere in appello.

(65) Delfico, Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, cit., p. 472.

(66) Cfr. Sul governo che conviene all'Italia, cit., pp. 222-30.

(67) Foglio di appunti di Delfico pubblicato da Saitta, Alle origini del risorgimento, cit., vol. I, p. XXV, la cui stesura più che al 1796 risale probabilmente al periodo sammarinese per una sua certa affinità con alcuni concetti espressi nelle Memorie storiche.

(68) M. Delfico, Memoria su la perfettibilità organica considerata come il principio fisico dell'educazione con alcune vedute sulla medesima [1814], in Opere complete, vol. III, cit., p. 511. 

(69) Lettera da Napoli del 6 novembre 1790, in M.G. Riccobono, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico, in "Rassegna della letteratura italiana", a. LXXXVII, 1983, serie VIII, n. 3, p. 409.

(70) C. Ghisalberti, Le costituzioni "giacobine" (1796-1799), Giuffrè, Milano 1957, p. 43.

(71) Delfico, Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino, cit., p. 77.

(72) Cfr. alcuni frammenti e appunti sparsi di Delfico pubblicati col duplice titolo redazionale Idee per una costituzione e Quale sia la migliore costituzione per l'Italia, in Marino, Scritti inediti di Melchiorre Delfico, cit., rispettivamente pp. 126-30 e 131-4.

(73) Ivi, p. 126.

(74) Ivi, p. 131.

(75) Ivi, pp. 128 e 134.

(76) Ivi, p. 132.

(77) Sui rapporti in Delfico tra autorità giudiziaria e autorità amministrativa, cfr. R. Feola, La monarchia amministrativa. Il sistema del contenzioso nelle Sicilie, Jovene, Napoli 1985, pp. 127 sgg., il quale pubblica sull'argomento un inedito delficino del 1812 (pp. 287-93) e ne riproduce un altro (pp. 293-8) pubblicato da G. De Caesaris, Scritti inediti di Melchiorre Delfico. I conflitti giurisdizionali, in "Teramo", a. V, gennaio-aprile 1936, pp. 20-3, uscito anche in estratto, Cet, Teramo 1936.

(78) Cfr. Sul governo che conviene all'Italia, cit., pp. 251 e 260.

(79) Ivi, p. 243.

(80) M. Delfico, Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi [Napoli 1784], in Opere complete, vol. III, cit., p. 245.

(81) J.-J. Rousseau, Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes, in  Oeuvres complètes, Gallimard, Paris 1961, vol. III, p. 193.

(82) F. Grimaldi, Riflessioni sopra l'ineguaglianza tra gli uomini, presso Vincenzo Mazzola-Vocola, Napoli 1780, parte III, p. 128.

(83) Dopo aver condiviso nella prima edizione dei Saggi politici [1783-85] la tesi dell'"acuto pensatore" delle Riflessioni, Pagano se ne distaccherà, tanto che nell'edizione del 1791-92 l'elogio a Grimaldi non viene riprodotto. Cfr., in proposito, B. Sasso, I "Saggi politici" di F. M. Pagano dalla prima alla seconda edizione, in Atti dell'Accademia di scienze morali e politiche, vol. XCIII, 1982, pp. 134 sgg.

(84) Considerazioni sul carattere conservatore dell'illuminismo di Grimaldi si trovano in V. Ferrone, I profeti dell'Illuminismo. Le metamorfosi della ragione nel tardo settecento italiano, Laterza, Roma-Bari 1989, pp. 312-37.

(85) Delfico, Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p. 249.

(86) Per la lettura delficina del Segretario fiorentino, cfr. Carletti, Osservazioni su Machiavelli, in Melchiorre Delfico, cit. pp. 177-214.

(87) Per la composizione dello scritto, il cui titolo per esteso è Discursus florentinarum rerum post mortem iunioris Laurentii Medices, cfr. R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Sansoni, Firenze 1978, pp. 547-8; G. Inglese, Il "Discursus florentinarum rerum" di N. Machiavelli, in "La Cultura", a. XXIII, 1985, n. 1, pp. 203-13; G. Guidi, Niccolò Machiavelli e i progetti di riforme costituzionali a Firenze nel 1522, in "Il Pensiero politico", a. II, 1969, n. 3, p. 583, nota 14.

(88) Il testo fu incluso in un volume dal titolo Opere inedite di Niccolò Machiavelli, pubblicato a Firenze con la falsa indicazione di Londra, per iniziativa di Giovanni Maria Lampredi.

(89) Sullo sviluppo in Italia nella seconda metà del Settecento di una interpretazione dell'autore del Principe in chiave antitirannica e repubblicana, cfr. G. Procacci, Studi sulla fortuna del Machiavelli, Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea, Roma 1965, pp. 354 sgg.;  M. Rosa, Dispotismo e libertà nel Settecento. Interpretazioni "repubblicane" di Machiavelli, Laterza, Bari 1964, pp. 49 sgg., e, per quanto riguarda il triennio 1796-99,  V. Criscuolo, Appunti sulla fortuna del Machiavelli nel periodo rivoluzionario, in "Critica storica", a. XXVII, 1990, n. 3, pp. 475-92. Sul "repubblicanesimo" del Discursus, cfr. R. De Mattei, Dal premachiavellismo all'antimachiavellismo, Sansoni, Firenze 1969, pp. 77-88, il quale sottolinea l'astrattezza e il carattere "antistorico" della proposta istituzionale di Machiavelli, tutta incentrata sulla mitica figura del "fondatore". Per una diversa lettura, cfr. Guidi, Niccolò Machiavelli e i progetti di riforme costituzionali, cit., pp. 580-90.

(90) N. Machiavelli, Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze fatto ad istanza di papa Leone X, in Opere, cit., vol. IV, p. 113.

(91) Delfico, Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino, cit., p. 69.

(92) Sul governo che conviene all'Italia, cit., p. 244.

(93) M. Delfico, Sull'importanza di abolire la giurisdizione feudale, e sul modo [1790], in Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., p. 355.

(94) Scritta tra il 1789 e il 1790, la Memoria fu stampata la prima volta nel 1805 a Milano, presso Destefanis, nel tomo XXXIX della raccolta Scrittori classici italiani di economia politica, a cura di P. Custodi. L'opuscolo è stato recentemente riedito (De Petris, Teramo 1985) con un'introduzione di Massimo Finoia.