Tra i 57
partecipanti al concorso indetto dall'Amministrazione della Lombardia
nel 1796 il nome di Melchiorre Delfico non figura.
È questa, forse,
la ragione per cui gli studiosi di Delfico non si sono mai posti il
problema circa una possibile partecipazione dello scrittore teramano a
quel concorso. Eppure, in quella che ancora oggi resta una valida fonte
di notizie biografiche (1), Gregorio De Filippis-Delfico, nipote di
Melchiorre, riporta tra le opere delficine "non-terminate" un opuscolo
di 26 pagine privo di intestazione e da lui intitolato Sul quesito:
Quale sia il miglior de' governi per l'Italia?, anche se poi nessuna
notizia, sia in merito a questo testo sia relativa al concorso, fornisce
nella ricostruzione biografica dell'Autore.
In un articolo del
1931, dal titolo Il ceto dei Patrioti e l'idea italiana dal 14 maggio
1796 al 12 giugno del 1797, Renato Soriga si rammaricava di non aver
potuto ancora prendere diretta visione di una "certa scrittura" di
Melchiorre Delfico, redatta in vista del celebre concorso e rimasta
sconosciuta. Ma ancora dieci anni dopo, nel 1941, quando raccoglieva
l'articolo nel volume L'idea nazionale italiana dal secolo XVIII
all'unificazione
(2), nulla
egli aggiungeva circa l'esistenza di una presunta dissertazione
delficina.
L'indicazione di
Soriga ha in seguito attirato l'attenzione di Armando Saitta in
occasione della pubblicazione nel 1964 dei testi del concorso. Ma il
noto studioso, dopo accurate ricerche, ha manifestato qualche dubbio
sulla effettiva partecipazione del Teramano al concorso del '96, pur
lasciando aperto il campo a ipotesi diverse. Non ha escluso la
possibilità che Delfico abbia davvero iniziato a scrivere una
dissertazione per il concorso, senza tuttavia portarla a termine, e che
il suo testo sia andato irrimediabilmente perduto nel corso degli anni.
Assai più
suggestiva e meritevole di maggior considerazione ci appare l'altra
ipotesi saittiana, secondo cui Delfico non solo avrebbe scritto, ma
portato a termine e inviato all'Amministrazione generale della Lombardia
una dissertazione la quale, forse, sarebbe stata anche pubblicata e di
cui lo scritto menzionato dal De Filippis tra le opere "non-terminate"
rappresenterebbe un abbozzo o soltanto una parte del testo definitivo.
In tal caso Saitta non esclude che proprio Delfico possa essere l'autore
che si cela dietro l'anonimo opuscolo dal titolo Sul governo che
conviene all'Italia, stampato a Venezia dal tipografo Palese e da
lui ripubblicato nel II volume
(3). Una
tesi, questa, che troverebbe giustificazione in una certa affinità
concettuale del testo con alcune idee espresse da Delfico in altre
opere; nell'ammirazione che in esso viene manifestata per la Repubblica
di San Marino e nella profonda cultura mostrata dal suo autore.
Nostro obiettivo è
quello di accertare la veridicità dell'ipotesi saittiana, mettendo a
confronto alcuni concetti contenuti nell'opuscolo con altri presenti
negli scritti delficini.
Comune è
l'atteggiamento nei confronti della "memorabile" rivoluzione dell'89,
che aveva decretato i sacri e inviolabili diritti dell'uomo e del
cittadino (4).
Sin dall'inizio Delfico aveva ritenuto, così come Verri
(5) e molti
altri illuministi, che i "fatti" di Francia servissero di modello agli
altri popoli. "La Rivoluzione della Gallia" - aveva scritto - non solo
non rappresentava una minaccia, ma costituiva "un esempio favorevole per
i Principi savj, che non dovevano aspettare gli eccessi de' disordini
pubblici, ma ristabilire in tutti i rami dell'Amministrazione la
Giustizia relativa ai diversi aspetti di essa"
(6). Merito
della rivoluzione era stato quello di aver definitivamente sancito il
principio della rappresentanza politica, concetto questo più volte
ribadito anche nell'opuscolo come condizione di "prosperità nazionale",
nonché quello di aver affermato l'idea che "la facoltà di far le leggi
appartiene al corpo della Nazione"
(7).
Riconducibili a
Delfico potrebbero essere anche alcuni giudizi nei confronti
dell'aristocrazia feudale. L'impegno attivo dello scrittore teramano in
favore di un rinnovamento giuridico ed economico del Regno napoletano
durante i decenni del riformismo meridionale
(8) aveva
preso le mosse da una ferma e decisa condanna del regime feudale,
responsabile di profonde divisioni e di "mostruose" sperequazioni e
difformità all'interno del corpo sociale. E soprattutto contro
l'aristocrazia feudale, giudicata "la più impropria forma di governo,
che siasi mai conosciuta", e la giurisdizione baronale, definita "nuova
mostruosità politica e stranissima usurpazione dei diritti de' Popoli, e
de' Sovrani" (9),
egli aveva condotto un duro attacco con una foga, un vigore e degli
argomenti che - come ha scritto Villani - nulla avevano da invidiare
"alla chiarezza ed all'eloquenza del Filangieri"
(10).
Una certa
corrispondenza di valutazione si coglie poi a proposito degli "orrori"
commessi dal governo dei papi, responsabile, per l'anonimo autore, di
essersi opposto all'indipendenza nazionale e di aver cercato
costantemente, attraverso "usurpazioni", "intrighi" e un "simulato
dispotismo", di assoggettare al proprio volere l'intera penisola
(11). Non
dissimilmente, Delfico, che sin da giovane aveva manifestato un
atteggiamento anticuriale e giurisdizionalistico, di ascendenza
giannoniana e di eredità genovesiana
(12),
indica nella condotta politica della Corte di Roma la vera causa della
rovina degli Stati e accusa i ministri del culto di essere gli artefici
di "miserabili astuzie" delle quali i governi si sarebbero avvalsi e
continuerebbero ad avvalersi "per ingannar i popoli e gravarli di nuovo
giogo" ed "indurli ai loro voleri"
(13).
La stessa affermazione che "l'uomo non
dipende che dalle leggi"
(14) sarebbe stata condivisa da
Delfico, che aveva a lungo criticato l'ingiusto "addensamento" delle
ricchezze nelle mani di pochi perché distruggeva l'uguaglianza e andava
contro il "principio civile dell'utile comune"
(15), facendo passare gli uomini da
una necessaria e libera sottomissione all'autorità delle leggi,
all'arbitraria dipendenza dei possessori.
Anche l'idea del
lusso come causa di depravazione dei costumi
(16) trova
corrispondenza negli scritti delficini. Diversamente dal suo maestro
Genovesi, che aveva dato del fenomeno una valutazione sostanzialmente
positiva (17),
Delfico, al pari di Doria, Longano, Palmieri, Galanti ed altri
riformatori meridionali
(18), non
attribuisce al lusso alcuna valenza positiva sia dal punto di vista
economico, come generatore di ricchezza, sia da quello politico, come
fattore di riequilibrio e di trasformazione della società feudale. Anzi,
riecheggiando motivi roussoiani del Discours sur les sciences et les
arts, egli esclude che il lusso sortisca altri effetti se non quelli
di "moltiplicare gli oziosi", "rendere frivoli" gli uomini, "corrompere
il gusto" e aprire la strada alla corruzione
(19).
Come l'anonimo
scrittore poi anche Delfico nutre ammirazione non solo per Montesquieu,
che definisce, nonostante qualche dissenso sulla teoria della divisione
dei poteri, "immortale Autore"
(20), e che
considera, assieme a Rousseau e a Sieyès, "il più grande filosofo
politico del secolo"
(21), ma
anche per Beccaria e Verri, conosciuti durante il suo soggiorno in
Lombardia tra la fine del 1788 e l'inizio dell'anno successivo, come
pure per l'amico Filangieri, a cui era stato legato dall'impegno
antifeudale e da comuni interessi e amicizie, e a cui aveva dedicato un
suo scritto (22).
Comune è altresì
l'elogio della Repubblica di San Marino. Per Delfico, proprio il piccolo
Stato di San Marino rappresentava, specie dopo la profonda crisi di fine
secolo, un modello politico reale, che mostrava la possibilità, non
utopistica, di dar vita ad una forma di civile associazione più adatta e
conveniente alla specie umana. In particolare, nelle Memorie storiche
di San Marino, pubblicate a Milano nel 1804, egli indaga su come la
piccola repubblica sia riuscita a conservare intatta nei secoli la sua
indipendenza, a fronte di tanti sconvolgimenti di repubbliche e di
imperi ed abbia felicemente adombrato, riprendendo una definizione
vichiana (23),
"un tipo dei veramente umani governi"
(24).
Ricerca, in altri termini, nella storia le ragioni del mito di
San Marino (25),
di come cioè un piccolo stato abbia mantenuto nel tempo la propria
libertas (26)
e serbata l'antica e prediletta forma repubblicana, tanto da assurgere a
modello politico agli inizi del Seicento con Traiano Boccalini
(27),
Ludovico Zuccolo (28)
e Matteo Valli (29).
Ed è proprio il fatto di scorgervi un modello, una delle ragioni che
spingerà Delfico a scegliere San Marino come luogo di esilio nel 1799
per sottrarsi alla reazione borbonica e a rimanervi per sette anni, fino
al giugno del 1806
(30),
quando verrà richiamato a Napoli da Giuseppe Bonaparte a far parte del
nuovo governo.
Perfino la
positiva considerazione, presente nell'opuscolo, degli antichi popoli
italici per la loro "passione" per la libertà e l'indipendenza
(31) trova
riscontro in Delfico, per il quale gli esempi di "virtù" dei Piceni, dei
Sanniti, dei Marsi costituivano la migliore tradizione di un modello
italico (32),
meritevole di essere riscoperto. Antichi sentimenti ed ideali, da tempo
trascurati o abbandonati, che egli avrebbe voluto far rivivere e
innestare nella società contemporanea.
Ma accanto a
queste, e forse ad altre ancora, affinità esistenti tra la dissertazione
e alcune tesi delficine è possibile cogliere tra l'anonimo scrittore e
il Teramano profonde divergenze dovute ad una diversità di vedute e di
valutazioni.
Un primo elemento
di discordanza emerge a proposito del giudizio sulla Francia
rivoluzionaria all'indomani dell'abolizione della monarchia.
Diversamente dall'autore della dissertazione, infatti, Delfico valuta
positivamente della Rivoluzione francese solo la fase
monarchico-costituzionale, quella da Cuoco definita "legale"
(33).
Condannerà, invece, la fase giacobina, avversandone non soltanto il
metodo "distruttivo" e le idee politiche "astratte" e "mostruose"
(34) ma
anche i progetti universalistici, anticipando così un modulo
storiografico che avrà fortuna negli anni successivi, basato sulla
contrapposizione tra l'89, con le sue idee di libertà e di uguaglianza,
ed il '93, caratterizzata da tanti orrori. Sin dall'inizio del 1792 egli
non nasconde la propria "trepidazione" per la situazione interna della
Francia né una certa apprensione per la sua politica estera, specie
all'indomani della dichiarazione di guerra all'Austria, nell'aprile di
quell'anno. Lo preoccupa il destino dell'Italia e il timore che i
Francesi possano da un momento all'altro invadere il Piemonte
(35).
Condanna gli eccessi rivoluzionari all'indomani del 1792 più fermamente
di quanto non faccia l'anonimo scrittore, per il quale quei "funesti"
avvenimenti non sarebbero che "avanzi del moribondo dispotismo"
(36), il
prezzo della democrazia così fortemente osteggiata, la inevitabile
conseguenza di quella assoluta inconciliabilità - ricordata anche da
Machiavelli nel Principe
(37) - tra
gli interessi del popolo (che "vuole la libertà") e quelli dei nobili
(che "tentano d'introdurre l'aristocrazia o di far risorgere il
realismo" (38)).
Non per questo tuttavia Delfico è dalla parte dell'amico Francesco Soave
il quale, nel tentativo di denunciare i mali della "popolare licenza"
faceva proprie le tesi più retrive del conservatorismo italiano ed
europeo e finiva per condannare in blocco la rivoluzione considerando il
14 luglio nient'altro che una "giornata d'orrore", i rappresentanti
dell'Assemblea Nazionale "tiranni", quelli del Terzo Stato "faziosi", i
decreti dell'agosto '89 "sediziosi" e la Dichiarazione dei diritti
dell'uomo e del cittadino una "promulgazione sediziosa" e un
"edificio informe e mostruoso"
(39) di cui
chiedeva la completa soppressione.
Non poche riserve
inoltre Delfico avrebbe espresso su quelli che l'autore della
dissertazione definisce " i gloriosi conquistatori del 1796" e su "l'immortal
genio che li guida" i quali spargendo dappertutto "la benefica luce
della verità" rendono il popolo "ogni giorno più libero" e "rianimano da
un estremo all'altro lo spirito d'indipendenza"
(40). Se da
un lato si riaccende nel Teramano nella seconda metà del 1796
l'interesse per la Grande Nation e cresce l'entusiasmo per i suoi
progressi interni, nonostante tema una recrudescenza degli eccessi
rivoluzionari e speri come il suo amico Fortis che "le male arti de'
giacobini" (41)
non abbiano il sopravvento, dall'altro Delfico condanna la politica
espansionistica della Francia, tanto da biasimare quanti in Italia
continuano a riporre nell'occupazione francese le proprie illusioni
rivoluzionarie: "Io compatisco quei luoghi - afferma - ne' quali si è
danzato intorno all'albero della libertà, e dovranno ritornare allo
stato antico" (42).
Resta difficile pertanto credere che egli abbia potuto incitare gli
Italiani a sopportare - come si legge nella dissertazione -
"intrepidamente i mali di una guerra momentanea" e a sacrificarsi
"generosamente" (43)
in vista di un prossimo riscatto politico.
Non solo, ma
nessun dubbio Delfico nutre sulle mire politiche di Napoleone, di cui
disapprova oltre alle condizioni gravose imposte alle città occupate
anche le innumerevoli requisizioni, ruberie e saccheggi dei suoi soldati
(44), che
egli, diversamente dall'anonimo autore, si guarda bene dal considerare
"gli amici più sinceri e più utili"
(45) dei
popoli oppressi. Negli accordi di pace che i Francesi stipulano con i
Piemontesi prima e con la Santa Sede poi egli non vede né "la morale
repubblicana, né la vantata amicizia per le Nazioni"
(46). Ed è
pertanto con sollievo che alla fine di luglio del 1796 vede allontanarsi
il pericolo di un'incursione in Abruzzo
(47), dato
che i Francesi avevano del tutto evacuato la Romagna in previsione
dell'offensiva austriaca del Trentino. Ma poco importa il motivo, ciò
che conta - scrive a Fortis - è che comunque "i Repubblicani non si
rivolgeranno per ora da questa parte"
(48).
Opposti sono poi i
giudizi che i due autori esprimono sulla monarchia. Contrariamente
all'anonimo scrittore il quale si dichiara "sorpreso che insigni
politici abbiano collocato la monarchia fra i governi liberi" in quanto
essa "ha inerente il dispotismo"
(49),
Delfico non nasconde la propria simpatia per essa. Le allusioni alla
repubblica restano nelle sue opere vaghe, sottintese e comunque prive di
un reale contenuto politico-istituzionale
(50). È
convinto che la legge universale del bene pubblico è "adattabile ed
eseguibile sotto qualunque specie di governo", e che "la regolare
monarchia" non toglie nulla alla migliore forma di governo possibile,
che "anzi è forse la sola che possa lungamente sostenerlo"
(51). Nelle
"reggie", come nei "senati" e nelle "popolari adunanze", possono dunque
sorgere e regnare "le più nobili idee della ragione" e "tutti i più
sublimi sentimenti di virtù"
(52). Ed
egli non esclude che si possa creare un "modello di monarchia virtuosa"
(53),
fondato sul superamento della rigida contrapposizione tra monarchia e
repubblica e sulla necessità di estendere, in contrasto con Montesquieu
e con lo stesso anonimo autore
(54), la
pratica della virtù alla stessa monarchia.
Anche dopo la fuga
e l'arresto di Luigi XVI a Varennes nel giugno del 1791, di fronte al
problema, assai discusso in Francia, della forma costituzionale da
preferire, se erigersi in Repubblica o mantenere il Re "coll'assegnargli
un Consiglio permanente", lo scrittore abruzzese manifesta le proprie
simpatie politiche pronunciandosi a favore della seconda soluzione e
dichiarando di essere stato "sempre monarchico" e di ritenere la "vera
Monarchia quella che ammette più diverse libertà"
(55).
Né tale convinzione il Teramano sembra
mutare all'indomani dell'ingresso delle truppe francesi in Abruzzo
(56), quando verrà dapprima
chiamato, il 12 gennaio 1799, a presiedere a Pescara il Supremo
Consiglio (57),
l'organo politico più importante esistente nella regione, e
successivamente nominato, il 23 gennaio dello stesso anno, membro del
Governo Provvisorio della Repubblica partenopea. Non vi è dubbio che la
collaborazione di Delfico con i Francesi, per quanto "piena e convinta"
(58), vada vista come il tentativo
di reinserirsi nel giro di quella politica attiva, nella quale egli da
sempre confida. Non crediamo invece che tale partecipazione segni il
passaggio dello scrittore teramano dalla prospettiva
monarchico-riformistica a quella repubblicano-giacobina
(59). Egli non tiene presente,
infatti, quello che può definirsi il momento "eroico" della rivoluzione
francese, le idee e la prassi dei jacobins, che Saitta ha
identificato "con il modello e il momento robespierrista"
(60); né l'esperienza provoca quella
vera e propria "lacerazione" e "rottura" nella sua biografia
intellettuale che Galasso ha riscontrato invece nei riformisti
meridionali passati alla rivoluzione
(61). Tensioni ideali e finalità
pratiche continuano ad essere, anche durante la parentesi repubblicana,
le stesse che lo hanno animato in tante battaglie del passato. Persino
il Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia pei
Tribunali dei Dipartimenti e Giudici dei Cantoni
(62) del 24 piovoso anno VII [12
febbraio 1799], l'atto legislativo più importante del Consiglio Supremo
pescarese col quale viene introdotto un nuovo ordinamento giudiziario e
in cui maggiore è l'istanza egualitaria
(63), non sembra discostarsi da
certi suoi principi e aspirazioni precedentemente espressi
(64).
Più tardi, durante
il ripensamento della vicenda rivoluzionaria di fine secolo Delfico
auspicherà un recupero della tradizione storica nazionale: "Se si fosse
consultata la storia d'Italia con qualche diligenza, si sarebbe trovato,
che lo spirito di ragione e di moderazione fece dell'Italia il soggiorno
o la sede della libertà nei secoli più remoti"
(65). A
questo senso di moderazione (piuttosto che allo "spirito repubblicano"
(66)
suggerito dall'autore della dissertazione) l'Italia avrebbe dovuto
continuamente richiamarsi e "gli esempli recenti ed i fatti antichi"
dovevano persuaderla che non vi era "altro mezzo alla sua tranquillità,
alla sua felicità"
(67). La
critica delficina dell'esperienza rivoluzionaria si risolve in
definitiva nella ricerca di una linea politica "saggia" e realistica,
che non miri alle "magiche trasformazioni" ma proceda per "proporzionate
graduazioni" alla realizzazione di un programma costituzionale
(antifeudale e anticuriale), "cui è lecito di aspirare"
(68).
Un ulteriore
elemento di differenziazione è dato dalla diversa considerazione che i
due autori hanno del problema costituzionale. Se per l'anonimo scrittore
l'elaborazione di una carta costituzionale non sembra affatto
prioritario, sia perché non immediatamente legata alla scelta del
governo più conveniente all'Italia, sia perché essa non avrebbe dovuto
far altro che ricalcare quella francese del 1795, per Delfico
l'emanazione di una costituzione è un atto assolutamente improrogabile.
È, quello costituzionale, un problema politico che si presenta in tutta
la sua importanza agli occhi del Teramano sin dai tempi dell'Assemblea
Costituente, quando aveva considerato la costituzione "il maggior
riparo" (69)
contro il pericolo controrivoluzionario e avvertito la necessità di una
connessione tra la "libertà civile", il diritto cioè di disporre delle
"proprietà personali e reali", e le "costituzioni regolari" che quella
libertà doveva riconoscere e custodire. Sull'esempio di quanto accadeva
oltralpe, lo scrittore abruzzese rivendica, accanto ad una legislazione
stabile e regolare, una legittima costituzione "che ne sia il
presupposto e ne costituisca il necessario fondamento"
(70). Anche
in futuro, le costituzioni rappresenteranno per lo scrittore abruzzese
"le condizioni necessarie per la buona esistenza delle civili società"
(71),
poiché impediscono qualsiasi abuso di potere e permettono di assicurare
i diritti individuali e la tutela dei cittadini e dei loro beni sotto la
legge.
Le sue idee
costituzionali, tuttavia, non hanno nulla di eccessivo, non la pretesa
di una "perfezione astratta", bensì la ricerca di una soluzione
conveniente e proporzionata alle circostanze. Lo stato che egli
predilige è di tipo costituzionale e rappresentativo, basato
sull'uguaglianza delle leggi, sulla divisione dei poteri, sul
conferimento dell'autorità legislativa al popolo, sulla rappresentanza
politica senza restrizioni di rango o di censo e sul decentramento
dell'amministrazione della giustizia attraverso lo stabilimento di
magistrature locali e provinciali. Delfico mira ad un governo moderato,
monarchico più che repubblicano: "Prima di dire qualche cosa di positivo
- scrive in occasione dell'incarico affidatogli l'8 luglio 1820 da re
Ferdinando I di tradurre la Costituzione di Cadice del 1812
(72) -,
stimo dovermi liberare da una prevenzione che può esservi su la mia
persona, cioè di aver nell'animo una preferenza per le forme
repubblicane, mentre le mie idee sono state sempre per le monarchie
pure, avendole giudicate le più convenienti all'umanità ed ai veri
bisogni sociali" (73).
Definita "la più
vera forma di governi umani", fra tutte "la più adatta", "la più
comoda", "la più decente"
(74), la
monarchia prediletta da Delfico si fonda più che sul principio della
divisione e dell'equilibrio tra i poteri, che presupporrebbe un
contrasto di forze, sull'idea di una "combinazione di forze" di cui il
"solo vero potere" è quello esecutivo, i cui limiti però dovrebbero
essere imposti più da una legge che da "un corpo resistente"
(75). Al
legislativo, composto di una sola camera in cui venga lasciato spazio ai
proprietari che costituiscono "i veri rappresentanti della Nazione",
egli assegna la prerogativa non di "formare e dettar le leggi"
(operazione questa che sarebbe "più agevolmente" svolta da un individuo
che da molti), ma di esaminarle ed approvarle per cui esso appare come
un corpo destinato più "a dar de' lumi a chi siede sul trono, che ad
assumere un'autorità di opposizione"
(76). Né
deve in alcun modo mescolarsi nell'attività del governo per non cadere
nello stesso "abuso" che si era verificato nella Francia rivoluzionaria.
In un'epoca come quella moderna, in cui gli Stati hanno già i loro
codici, l'attività di un corpo legislativo si ridurrebbe essenzialmente
a formulare al sovrano proposte volte al miglioramento delle leggi e
dell'amministrazione. Il giudiziario, infine, più che un potere gli
appare l'esercizio di una funzione necessaria alla società, la cui
azione non deve assolutamente interferire nella sfera amministrativa
(77).
Amministrazione giudiziaria e amministrazione economica rappresentano i
due modi attraverso i quali viene assicurata l'esecuzione delle leggi.
Ugualmente appartenenti all'attività del governo, le due amministrazioni
svolgono tuttavia "attribuzioni distinte", riguardando, quella
economica, i rapporti dei cittadini con lo Stato, quella giudiziaria, i
rapporti dei cittadini fra loro. Di qui la necessità di una costituzione
che fissi le competenze e i limiti di ciascuna parte componente il
governo.
Perfino la stessa
prospettiva unitaria dello stato, ribadita con forza dall'anonimo
scrittore, che polemizza in più di un'occasione contro l'assetto
federale di Ranza (78),
non trova un eguale riscontro in Delfico, sebbene egli stesso si
rammarichi che l'Italia non abbia mai potuto elevare i suoi desideri
all'unione e all'unità di un governo e ritenga che abbia tutti gli
elementi necessari per formarla e potervi riuscire.
Dissenso il
Teramano avrebbe probabilmente manifestato anche di fronte
all'affermazione che la natura accorda a tutti gli
uomini, sin dalla nascita,
l'uguaglianza
fisica, la quale "si conserva egualmente nei diritti del cittadino
democratico" (79).
Alcuni anni prima, infatti, egli si era mostrato pienamente d'accordo
con l'amico Francescantonio Grimaldi che aveva confutato le tesi
roussoiane sull'uguaglianza tra gli uomini, correggendo quei
"paradossi" che "fra molte vere e nobili osservazioni"
(80) erano
racchiusi nel Discours sur l'origine de l'inégalité.
Contrariamente al Ginevrino, che riteneva l'ineguaglianza essere "presque
nulle dans l'Etat de Nature"
(81),
Grimaldi ne affermava il principio dell'origine naturale, smentendo
quanti sostenevano che gli uomini nascono eguali. Pur essendo in potenza
eguali, avendo tutti un "diritto a vivere e vivere felicemente"
(82),
riconosceva che tale "diritto generale" si realizzava per ciascun
individuo in maniera peculiare. Vi è fra gli uomini una diversità nella
forza, nel temperamento, nelle passioni, nella sensibilità, che deriva
direttamente dalla natura. Ad accentuare poi tale differenza concorrono
i fattori fisico-ambientali, che determinano a loro volta un differente
modo di vivere. Ancora più manifesta, anche se "meno fastidiosa", è la
diseguaglianza morale, conseguenza diretta di quella fisica, generata da
uno sviluppo difforme delle facoltà intellettive degli uomini. Sebbene
infatti egualmente sensibili e suscettibili d'infiniti bisogni, essi
modificano profondamente il loro carattere in ragione della loro
capacità di sentire, di pensare e di volere e delle differenti
circostanze in cui vengono a trovarsi. Vi è infine la diseguaglianza
politica stabilita dalla società, nonostante il suo grado di
civilizzazione.
La tesi
grimaldiana della naturalità della disuguaglianza, inizialmente accolta
anche da Pagano (83),
non presenta per Delfico alcun carattere di legittimazione
dell'esistente o di smentita del processo di rinnovamento
(84). Egli
interpreta le Riflessioni grimaldiane in chiave riformistica e
antifeudale, soprattutto la terza parte, quella relativa
all'ineguaglianza politica. La società, pur non essendo in grado di
annullare questa diversità, può tuttavia limitarla sensibilmente e
offrire ai suoi componenti "inimmaginabili gradi di perfettibilità"
(85).
Vi è infine nella
dissertazione un continuo richiamo a Machiavelli, autore assai noto al
Teramano (86).
Ma diversamente dall'anonimo scrittore, Delfico non condivide
l'interpretazione repubblicana che viene data del Segretario fiorentino,
secondo un costume assai diffuso in quegli anni, né tantomeno la tesi di
un Machiavelli fautore della democrazia. Perfino il Discursus
florentinarum rerum, scritto tra il 1520 e il 1521
(87), ma
pubblicato la prima volta nel 1760 col titolo Discorso sopra il
riformare lo Stato di Firenze ad istanza di Leone X
(88), da
molti considerato, alla sua uscita, l'Antiprincipe per
antonomasia, il testo che più di tutti rivelava l'animo repubblicano di
Machiavelli (89),
non sembra invece conquistare pienamente Delfico. Il progetto di
realizzare "una Repubblica perfetta" gli appare infatti lacunoso e
perfino discutibile. Lacunoso perché in esso il Fiorentino passerebbe
sotto silenzio tutta una serie di problemi relativi alla formazione,
all'organizzazione e alla durata del corpo sociale. Criticabile, invece,
perché nel Discursus Machiavelli non porrebbe i cittadini tutti
sullo stesso piano, per distinguerli successivamente secondo funzioni e
ruoli necessari per il buon funzionamento dello Stato, ma li dividerebbe
in tre classi permanenti ("primi, mezzani ed ultimi"
(90)),
legittimando così una politica costituzionale fondata sull'ineguaglianza
"legale", che precluderebbe la possibilità di trasformare Firenze
in "un vero corpo politico", per piantarvi invece il germe malefico
"della disunione, della discordia, della distruzione"
(91)
Ugualmente
estranea a Delfico è poi la convinzione che Montesquieu accordi alla
democrazia "tutta la preferenza, fissando la virtù per suo principio"
(92). Egli
ritiene, infatti, che il celebre autore dell'Esprit des lois
mostri simpatia proprio nei confronti della monarchia, rimproverandogli
peraltro di aver creduto che la virtù fosse un principio
necessario al governo popolare e non anche alla monarchia e di aver
sostenuto che "i corpi intermedj" possano impedire "gli eccessi del
potere assoluto, ed indipendente"
(93).
Sono, queste,
alcune discordanze esistenti tra i due scrittori che inducono a ritenere
alquanto inverosimile l'ipotesi che possa essere Delfico l'autore
dell'anonima dissertazione Sul governo che conviene all'Italia.
Assai più probabile sembra essere invece la conclusione che lo scrittore
teramano difficilmente abbia partecipato al concorso del '96, non solo
per le divergenze ricordate, ma anche perché non vi è, allo stato
attuale, alcuna traccia nell'opera delficina, né dello scritto né di una
sua eventuale partecipazione né di qualsiasi riferimento concernente il
concorso, diversamente da quanto avviene a proposito di un altro
concorso, bandito dall'Accademia di Padova sul problema della libertà di
commercio, a cui Delfico partecipa con la Memoria sulla libertà di
commercio (94),
della quale rimangono invece non poche testimonianze nel suo
epistolario. |