Nel Saggio filosofico sul matrimonio, pubblicato anonimo e senza
indicazione di luogo nel 1774, Melchiorre Delfico rivela la sua
formazione culturale che affonda le radici nel giusnaturalismo, nel
sensismo, nel culto per la ragione che lo portano a parlare dell'amore,
inteso come piacere soprattutto morale, in una prospettiva,
inequivocabilmente laica e naturalistica, tale da indurre la
Congregazione del Santo Uffizio a inserire il trattato nell' Index
librorum prohibitorum . A nulla valse che egli rivendicasse la
"moralità" dell’opera chiaramente celebrativa dell’istituto
matrimoniale contro ogni pratica di libertinaggio.
La lettura del saggio, soprattutto inizialmente, ha lasciato in me una
sensazione complessa da descrivere per l’indubbia difficoltà che ho
incontrato nell’affrontare un testo così attuale nella tematica, ma al
tempo stesso così lontano per l’analisi effettuata e le soluzioni cui
giunge.
Nelle opere classiche ho trovato quasi sempre risposte adeguate ai
quesiti e ai problemi che ieri, come oggi, tormentano l’uomo, non sono
riuscita, invece, a reperire nel saggio un qualcosa
che possa essere adeguato e condiviso dall’uomo del terzo
millennio che pur vive drammaticamente la crisi della coppia e della
famiglia.
Proverò ad analizzare il testo sinteticamente per illustrare quanto ho
sopra detto, alla luce, anche, di quanto il papa Benedetto XVI ha
teorizzato nell’Enciclica "Deus caritas est".
Innanzitutto M. Delfico chiarisce che lo scopo della trattazione,
scritta per il bene dell’umanità, si prefigge di allontanare dal vizio e
dall’errore. L’amore viene analizzato, perciò, non in se stesso, "ma
negli effetti" che ne derivano.
Asserisce l’autore che gli uomini prediligono i sentimenti in cui è
insito un piacere ed evitano quelli dolorosi, i quali ultimi, per la
loro intensità e prorompenza, sono di breve durata e producono "i
mali maggiori". Glissa, il filosofo, sui "bisogni fisici
maggiori o minori secondo i temperamenti", cioè sull’aspetto fisico
dell’amore, incentrando il suo studio sui "bisogni morali".
L'amore tra uomo e donna, in cui corpo e anima
concorrono inscindibilmente, e per il quale
all'essere umano si schiude una promessa di
felicità che sembra irresistibile e che oggi per noi
emerge come archetipo di amore per eccellenza,
esula, dunque, dalla trattazione.
Alla passione, che non nasce dal pensare e dal
volere, ma in certo qual modo s'impone all'essere umano,
l'antica Grecia aveva dato il nome di eros includendo in questo
termine l'ebbrezza, la sopraffazione della ragione da parte di una «
pazzia divina » che strappava l'uomo alla limitatezza della sua
esistenza in ciò facendogli sperimentare la più alta beatitudine.
« Omnia vincit amor », affermava
Virgilio nelle Bucoliche, « et nos cedamus amori ».
Melchiorre Delfico, nel far cenno alle pulsioni che sono insite
nell’uomo, teorizza la necessità non di disciplinarle ma di soffocarle,
come se il reprimerle e l’annullarle possa essere garanzia di un
connubio, non dico felice, ma accettabile.
Freud ne inorridirebbe… la libido non
soddisfatta adeguatamente, infatti, secondo lo psicanalista austriaco,
si accumula a livello intrapsichico costituendo una sorta di serbatoio
da cui i sintomi nevrotici o psicotici attingono la loro energia.
Un buon presupposto per iniziare una "serena"
vita a due fondata sull’insoddisfazione e la patologia…
Il bisogno d’amore, afferma il Delfico, è insito in ciascuno fin dalla
più tenera età, strettamente connesso con un piacere che deriva da una
circolarità di dare-avere…ma, nel tempo"arrivando alla stagione
dell’amore" l’uomo impara a vivere sentimenti diversi sperimentando,
anche, il tormento e l’inquietudine…
E’ l’ Odi et amo.
Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.
di Caio Valerio Catullo, (Carmina, LXXXV).
Certo l’amore reca in sé la sofferenza e gli amanti tendono ad isolarsi
dal mondo che li circonda ma perché evitare ciò che è naturalmente
insito in ognuno di noi facendo tacere il cuore? Perché considerare la
libido solo come un male, come un qualcosa di peccaminoso che
impedisce di raggiungere la virtù?
E’ chiaro che, secondo l’autore teramano, la passione allontana tutti
gli altri sentimenti,ignora doveri e virtù, chiude la coppia in se
stessa e se è vero che non è in grado di donare il " ben essere"
è pur vero che è capace, però, di offrire quelle sublimi sensazioni che
equivalgono a vivere.
Sostiene il filosofo: "la natura dandoci dei bisogni vuole, che li
soddisfacciamo…Il privarcene "
è distruggere una parte della sensibilità, è il rendersi meno uomo, è
il rinunciare a quella quantità d’azione, che…
distingue gli esseri viventi". Il concetto è propedeutico
all’introduzione dell’idea di libertà, al potere cioè di
autodeterminarsi, potere che il
filosofo asserisce è necessario perdere per essere felici.
In questo modo, quasi paradossale, viene introdotto l’istituto del
matrimonio che il Delfico vede funzionale al " darsi gli ostacoli al
male, al moderare gli eccessi…".
Rifuggire dal matrimonio per lo scrittore porterebbe a ricadute
devastanti: per una donna solo "pallore della virginità, mancanza di
libertà, perpetua dipendenza, servitù domestica, …inazione forzata ed,
infine il pentimento", per l’uomo un’ ineluttabile caduta verso la "corruzione".
D’altra parte, secondo il filosofo, la dipendenza reciproca "dell’un
sesso per l’altro" non è uno status contrario alla natura ,
perché non si può negare che "nella continuità di questo sentimento
non sia collocato il piacere". Il tumulto delle passioni, infatti,
finisce e, in tarda età, l’uomo, che fuggendo dal libertinaggio e dalla
galanteria è riuscito a costruirsi un legame di coppia e una famiglia
numerosa, certo trascorrerà meglio, nella gioia derivante da affetti
stabili, i suoi giorni rispetto a chi ha sempre e solo inseguito il
piacere.
La felicità risiede, secondo il Delfico, in
"una pacata successione di sentimenti, scevra dai profondi
turbamenti e dagli slanci propri della passione che lasciano dietro di
sé "le pene più amare e velenose".
Ragione e virtù non sono elementi sufficienti, però, per rendere felice
un’unione, ma per renderla solamente stabile infatti : "Appartiene
alla sensibilità unire i cuori, se la sensibilità perde in qualunque
momento della sua forza, se il cuore resta qualunque volta insensibile,
allora la ragione presterà il suo ajuto… la ragione è sempre vera, ma
uniforme, e la virtù un gran piacere che costa caro; la sensibilità
rompe la monotonia della ragione, rende più dolce e più bella la virtù,
ed uno stato che partecipasse di questi tre sentimenti, che tutti
agissero di concerto, sarebbe senza fallo il più vicino a quella
felicità, che gli uomini possono acquistare"."
Teorizzato ampliamente il fallimento di un vincolo che si fonda su
ragione+virtù+sensibilità, che costringe l’uomo nel più totale grigiore
dei suoi giorni, privandolo di quella vis che gli appartiene per
natura, lo scrittore imperterrito afferma che, in ogni caso è
preferibile ad: " un vizioso ed inutile celibato".…
Dalla lettura di questo saggio si evidenzia, inoltre, come il Delfico,
nella disperata e non sempre, a mio avviso, critica e obiettiva
valutazione della donna, si dimostri un femminista ante litteram,
una posizione certamente di assoluta rottura con i canoni del passato:
"…A voler parlare ragionevolmente, quello che le donne sono, non è
che un effetto di quello che gli uomini sono la causa. Sono essi gli
autori delle leggi e delle opinioni, sono essi che hanno in mano il
potere e non è che per l'abuso che ne hanno fatto che si hanno comperata
la loro infelicità…".
Le parole non hanno bisogno di ulteriori commenti,vi è, poi, una
connotazione del maschilismo che non lascia margini di difesa:
"Gli uomini, per usare la loro superiorità… non
mancano di imporre alle donne, sin dalla loro infanzia, inutili e
superflui doveri… ".
Sottolinea il Delfico che la causa dell’infelicità delle unioni
coniugali deve essere imputata all’ uomo che con spregiudicatezza,
disincanto e con un cuore indegno per le pregresse esperienze si accosta
al matrimonio.
Anche i difetti del "bel sesso" sono imputabili all’uomo: la "vanità
" è, infatti, alimentata "dalle sciocche adulazioni dei galanti"
e l’infedeltà deriva "dall’esempio ed è alimentata dal libertinaggio".
D’altro canto il sesso forte, su cui non gravano che in minima parte i
pesi di un vincolo matrimoniale, non è neppure in grado di rendere "alle
donne amabili e cari i loro doveri, …
così cambiando i dolori in piaceri, …" .
Concludendo, senza aver la capacità di scandagliare nel profondo il
cuore dell’autore, ma per quel po’ di conoscenza spicciola di psicologia
che mi deriva da qualche lettura e dall’ascolto di programmi televisivi
che sono ricchi di trattazioni in materia, potrei affermare che, aldilà
della sua posizione laica e naturalistica, l’autore è stato
pesantemente condizionato, nello scrivere il saggio, dall’educazione
confessionale ricevuta, dall’aver vestito l’abito talare, dall’essere
stato, insomma, abituato a "sentire" la donna come tentazione e la
passione come mezzo per allontanarsi dalla virtù. Se l’amore, invece,
viene incardinato nei rigidi limiti di un matrimonio senza passione lo
scrittore vede risolto il problema con la conquista, forse, anche di un
premio nell’aldilà…
Per quanto attiene, infine, all’idealizzazione, tenera quanto ingenua,
della figura femminile penso che sia il frutto delle pesante situazione
di vita del Delfico fortemente segnata dalla prematura perdita delle
figure femminili di riferimento a lui più care. |