Al Direttore della «Rivista Abruzzese».
E’ questa, che scrivo, una nota, ma in forma di lettera. E mi compiaccio innanzi
tutto con la Rivista della pubblicazione delle lettere di M. Delfico
all’Arcidiacono G. Giovene di Molfetta. E’ la seconda pubblicazione del genere,
dopo il volume, edito nel 1886, con cui il Marchese Giulio Dragonetti affidava
al pubblico la numerosa corrispondenza epistolare passata tra suo padre Luigi
Dragonetti e M. Delfico. Fu benemerito della cultura abruzzese. Giulio
Dragonetti, eguale benemerenza ha acquistato ora A. Tripepi. Archivista di
Potenza, col pubblicare le sei lettere, che gli assidui lettori della Rivista
già conoscono. Si, dico benemeriti della cultura nostra, perché in queste
lettere apprendiamo noi qualcosa di più, che la storia del tempo non dice, e
forse non poteva, circa le ardenti questioni scientifiche e politiche, che
allora affaticavano le menti. Così fosse dato di poter raccogliere per intero
questi carteggi dei migliori uomini nostri di tempi, ne’ quali, interdetta ogni
pubblicità, non rimaneva ad essi che l’animo degli amici per aprirsi ed esporre
quello che pensavano e facevano.
Che l’Arcidiacono Giovene fosse uomo di gran valore ce lo dicono le lettere del
Delfico e le parole, che di lui scrive il Tripepi; ma se vuoi averne un breve
ritratto letterario, eccolo qua, come lo estraggo dall’Armonia Universale
del compianto Vito Fornari (1) di Molfetta anche lui.
In questo libro, il terzo ed ultimo dialogo, che è dell’Armonia della Natura,
s’intitola proprio dal Giovene, e si svolge tra questo, il Leopardi e lo
Zingarelli. Ecco come lo descrive il Fornari con quel colorito classico, che gli
era proprio. E’ Zingarelli che parla:«Voi già sapete, egli dice, quanto
quell’uomo era dotto quasi in ogni ramo delle scienze naturali; di cui non è
alcuna che non sia stata da lui o di qualche nuova osservazione, o di fine e
diligentissime esperienze arricchita. Ma quello che è più ammirabile, e forse
ignorato da’ più, è che insino all’ultima vecchiezza serbò fresco ed intero il
vigor della mente, né il fascio degli anni, né il vivere oscuro nella sua
piccola Molfetta, gl’impedivano che egli non seguisse assiduamente e
accompagnasse co’ suoi studii questo moto meraviglioso e fortunato, onde tutta
l’Europa civile va ogni di più con la scienza conquistando la natura. Così egli
veniva ad essere quasi testimone oculare delle scoperte fatte durante lo spazio
di due terzi di un secolo, e a misurare con la sua vita poco meno che una metà
di tutta la storia delle naturali scienze; onde avendole coltivate presso che
tutte con eguale felicità e ardore, agevolmente scorgeva le attinenze che tra
quelle intervengono. E da questo nasceva che, quante volte gli accedesse il
farlo, e’ parlava della natura in un certo modo alto e pellegrino, che non
saprei risolvermi se io mel debba chiamar filosofico o poetico. Certo egli
teneva dell’uno e dell’altro».
Non credo che i lettori della Rivista vogliano rimproverare te e me per averli
trattenuti a leggere uno squarcio di prosa italiana, scritta in quel certo modo,
del quale oggi non si ha più il gusto e quasi spenta la memoria; come che sia,
conveniva riportarlo per mostrare che qui si conosceva questo Giovene che era
noto tra noi anche per un’altra cagione.
Tu non lo ricordi Angelo Giovene, che fu Prof. di Filosofia nel nostro Collegio
dal 1841, mi pare, al ’45 del passato secolo. E, lasciamelo ricordare,
successore suo nell’istesso insegnamento fu il nostro Luigi Michitelli; non per
niente noi siamo Teramani e questa Rivista si pubblica in Teramo. Nella fine del
’49, il Michitelli fu esonerato dall’ufficio di Professore. Questo Angelo
Giovene, adunque, era lodato come persona di molto ingegno, di varia cultura ed
amato moltissimo da’ suoi scolari, ora finiti tutti. Ma da quello che mi
dicevano, pare che la facoltà predominante fosse in lui la memoria; perché
riteneva e sapeva ripetere con felicità singolare tutto quello che aveva letto.
Datosi allo studio delle cose canoniche, forse per l’amore, che glie ne seppe
infondere questo suo zio D. Giuseppe, non c’era opinione di canonisti, non casi
di sacre congregazioni, non disposizione di concordati, che egli non sapesse e
citasse con quella sicurezza e precisione di chi esce allora allora dal loro
studio. E, per seguitare in queste notizie, ricordo che il Giovene sposò la
signora Rosa di Castelli, e dal Collegio di Teramo andò capo sezione del
Ministero dei Culti in Napoli. Nel ’60 fu mandato a Torino, dove al nuovo
Governo fu di grande utilità per raccapezzarsi in quella farragine di leggi, con
le quali nei governi caduti si regolavano le relazioni tra lo Stato e la Chiesa.
Non mi pento di questo richiamo alla memoria dei presenti del Giovene juniore,
di cui mi è stata cagione l’Arcidiacono Giovene. Il presente c’incalza troppo e
ci stanca; sia almeno lecito, come riposo della mente, il farle cambiare materia
di lavoro col richiamarla a tempi e uomini passati, a ripresentarsi i quali non
si occupa tanto l’intelligenza, quanto la fantasia..
Il Tripepi asserisce che nella Biblioteca Sagarrica Visconti di Bari è una
preziosa serie, non breve di lettere del Conte Delfico all’Arciprete
Giovene. Auguriamogli che l’ufficio gli dia agio ripubblicarla tutta cotesta
serie, o mandarla a questa Rivista, perché la pubblichi; l’Abruzzo glie
ne sarebbe gratissimo. Il Tripepi dà del Conte a M. Delfico. Noi abbiamo
il dovere di correggere questa inesattezza, nella quale si può facilmente
incorrere oggi dal sentire che i presenti Delfico hanno questo titolo. Ma, come
sai meglio di me, in questa famiglia il titolo entrò per le nozze di
Giambernardino (2), fratello maggiore di Melchiorre, con Da Caterina
Mazzocchi; essa portò patrimonio e titol suo nella nuova famiglia. Anzi il
titolo dei Mazzocchi era di Marchese; Gregorio de Filippis di Napoli, che sposò
Da Marina Delfico vi portò quello di Conte. Teramo non fu città
feudale mai, ma demaniale: lo ricordi chi lo sa, l’apprenda chi lo ignora.
L’egregia famiglia teramana fu illustre non pel titolo, ma per una fortunata
serie di uomini colti e onorati di alti ufficii nel’ex Regno di Napoli: essa
appartiene a quella nobiltà paesana, che dovè nome e durata alla cultura, al
senno, all’onesta operosità. Ed ora una coda alla lettera.
Giuseppe Ma Giovene fu Arcidiacono di Molfetta; devi comprendere che
è gran consolazione per me il trovarmi in sì eletta compagnia, per ragione del
solo ufficio ecclesiastico. Ma egli non è il solo che l’onori; potrei ricordare
e Michitelli e Tamburini e Giacinto Tullii e Giacinto Ciotti, per non andare più
oltre, dove il tempo rode i profili degli uomini, e coevi del Giovene e del
Delfico; ma non posso non rievocare un bel nome quantunque non nostro, quello di
Samuele Cagnazzi di Ruvo di Puglie, assai dotto nelle scienze economiche, che
nel 1848 fu Vicepresidente del Parlamento Napoletano, cosa che oggi sarebbe
cagione di grave scandalo iliacos intra muros et extra. Di lui, e tu devi
ricordarlo, ci parlava spesso il nostro Senatore Devincenzi, che così
volentieri s’intratteneva sugli uomini della generazione, che lo precedè, di cui
la sua fu continuatrice, nei pensieri, nei desiderii, nei propositi e in ogni
più alta idealità. Ed altro e altro potrei aggiungere, se la libertà di una
lettera, non avesse anche lei dei limiti, che non è lecito varcare. Del resto
fanno bene all’animo queste rievocazioni di uomini e di atti, perché gli ridanno
la fede nell’avvenire e ridestano speranze, che si temevano dileguate. Haec
habui quae dicerem; esterum, cura ut valeas.
6 febbraio [1904]
BERARDO MEZUCELLI |