(1) Vedi G. Pannella, Guida illustrata di Teramo,
Teramo 1888, p. 47
(2) In una lettera inviata da Melchiorre Delfico al suo
amico Berardo Quartapelle del 23 marzo 1790 si legge: "La casa di nostra
abitazione, essendo finita, sarà decorosa per ogni nobile abitatore" (cfr.
Melchiorre Delfico, Opere Complete, Teramo 1904, vol. IV, pp.
9-10) e in una lettera autografa di Melchiorre Delfico a Michele
Genovesi del 1824 "la nostra fabbrica comincia a far buona figura, ed io
spero che alla fine dell'anno essendo finita la facciata, potrà meritare
un vostro sguardo". Ma da quanto si desume da altre fonti bibliografiche
(vedi L Savorini, Introduzione storico-artistica agli studi del Piano
Regolatore della città di Teramo, in "Teramo", bollettino mensile,
Teramo, anno III, 1934, p. 38) e da alcune annotazioni concernenti
lavori eseguiti tra il 1820 e il 1851 tratte dall'Archivio Delfico e
passatemi dalla dott.ssa Luciana D'Annunzio dell'Archivio di Stato di
Teramo, che si coglie l'occasione per ringraziare per la sua cortese
disponibilità, la costruzione del palazzo è definitivamente compiuta
solo dopo il 1851.
(3) Cfr. F. Savini, Il Comune Teramano nella sua vita
intima e pubblica dai più antichi tempi ai moderni, Roma 1895, pp.
429-430.
(4) L. Savorini, op. cit., p. 38.
(5) Vedi A. Scarselli, Il Palazzo, i Giardini e la
Biblioteca della Famiglia Delfico alla Città di Teramo, sta in
"Giornale d'Italia", marzo 1939, XVII, pp. 5-6.
(6) Di tendenze conservatrici o con aperture di moderato
liberalismo, questo ceto dell'Italia negli anni a cavallo dell'Unità, dà
forma soprattutto nelle dimore alla propria ricerca di identificazione
sociale, in termini di rappresentatività estetica, tramite l'utilizzo di
schemi decorativi anche superati ma tendenti a confrontarsi con la più
vecchia aristocrazia seicentesca e settecentesca.
(7) Le immagini, in un contesto tanto lontano dalla
nascita dei miti stessi, se si pongono alla nostra percettività in forma
puramente illustrativa, lo fanno solo in apparenza giacchè, come scrive
Marzaduri, "I miti, sono testi dell'attività semiotica dell'uomo che
modellizzano la struttura sociale di una comunità e, nello stesso tempo,
le forniscono i programmi, cioè l'informazione simbolica essenziale che
deve guidare i comportamenti" (cfr. B.A. Uspenskij, Sul meccanismo
semiotico della cultura in Semiotica e Cultura, Napoli 1975, p. 66).
(8) L'impianto architettonico doveva presentarsi con una
differente spazialità grazie anche alla copertura originale che, secondo
quanto si evince dal capitolato speciale di appalto negli anni 1952-54
della ditta Cingoli, incaricata della demolizione della volta dello
scalone principale perché gravemente lesionata (vedi Archivio di Stato
di Teramo d'ora in poi A.S.Te, Amministrazione Provinciale, Tit. III,
Classe II, b. 104, fascc. 3 e 104 bis) culminava con una cupola (per la
fotografie della volta originale cfr. A.S.Te, Atti della Direzione,
b. 46, f. 2).
(9) Il legame passionale che Goethe confessava di avere
con le sculture era comune alla stragrande maggioranza degli
intellettuali della fine del '700: "Circondati di statue ci sentiamo di
vivere in mezzo ad una natura animata…" cfr. J.W. Goethe, Viaggio in
Italia, Firenze 1948, III, p. 229 ss.
(10) La statua si ispira ad un tipo di Dioniso giovane
creato nella cerchia prassitelica del IV sec. A. C. (vedi a tal
proposito A. Nava Cellini, La scultura italiana del 1600, Torino
1982).
(11) Cfr. Le statue di Dioniso a Villa Doria Pamphilj in
Aa. VV., Antichità di Villa Doria Pamphilj, Roma 1977, nn.
42,43,45,46 e la creazione seicentesca eseguita come péndant di un altro
Dioniso antico, conservato nel Museo Ludovisi di Roma in Il Museo
Nazionale Romano, Roma 1981, vol.I / 5, p. 69, n. 27 e in C. L.
Visconti, Il Museo Ludovisi, Roma 1981, n. 22.
(12) Cfr. R. Paribeni, Le Terme di Diocleziano e il
Museo Nazionale Romano, Roma 1932, p. 264 e Il Museo Nazionale
Romano, Roma 1981, Le sculture, Vol. I / 2, n. 31.
(13) Si tratta di Glykon, l'unico serpente della
ricchissima tradizione figurata del mondo greco-romano con aspetto
ibrido di monstrum nel senso classico della parola, cioè un immenso
corpo serpentino e una testa quasi umana. Ebbe area di massima
diffusione nelle contrade poetiche dalle quali si irradiò per il resto
del mondo antico. Cfr. Il Museo Archeologico di Costanza in "Colloqui
del sodalizio", Roma, n. 2, 1972, tav. VIII. fig. n. 6.
(14) Nella plastica greca il tipo dell'Apollo citaredo ha
una lunga tradizione, essendo stato ideato nelle sue lunghe vesti e con
cetra e plettro tra la seconda metà e l'ultimo scorcio del V sec. A. C.
per i confronti vedi R. Paribeni, op. cit., Roma 1932, n. 538; O.
Deibner, Hellenistische Apollogestalten, Athen, 1934, p. 73: G.
Lippold, Handbuch der Archeologie, III, 1 – G.Lippold, Die
griechische Statuen, Munchen 1923, p. 311; W. H. Helbig,
Fuhrerdurch offentlichen Sammlungen klassischer Alterthumer in Rom,
I – IV, Tubingen 1963; S. Aurigemma, Le Terme di Diocleziano e il
Museo Nazionale Romano, Roma 1963, n. 470; Il Museo Nazionale
Romano, Roma 1981, Le sculture, Vol. I / 2, n. 45, p. 342.
(15) Cfr. Il Museo Nazionale Romano, Roma 1983,
Vol. I / 6, n. VII, 32, p. 187; n. VIII, p. 324.
(16) Circa l'origine dell'iconografia fra le posizioni
della critica si è oscillato tra la ricerca di prototipi dell'arte greca
del IV secolo a. C., con particolare insistenza sui modelli policletei,
e l'origine in età romana. Per la bibliografia cfr. E. Braun in
"Archaeologische Zeitung", 1848, disegno p. 87; E. Brunn in "Bull. Inst."
1848, p. 58; J. Overbeck, Griechische Kunstmythologie, II 1,
Leipzig 1871, p. 141 ss., n. 43; R. Paribeni, op. cit., n. 425; Il
Museo Nazionale Romano, Roma 1981, Le sculture, Vol. I / 2,
n. 45, n. 39.
(17) Assai simile alla versione dei Musei Capitolini,
l'opera godette di una indiscussa fortuna lungo tutto il XVIII secolo.
Soprattutto nel XIX secolo se ne ricavarono innumerevoli calchi
secondari, derivati a loro volta da altre copie, che decorarono giardini
e dimore d'Europa. Per i confronti vedi C. Blinkberg, Knidia.
Beitrage zur Kenntn der praxitelischen Aphrodite, Kopenhagen
1933, p. 144, I, 7, tavv. VI-VII; R. Paribeni, op. cit., n. 451;
G. E. Rizzo, Prassitele, Roma-Milano 1932, p. 50, tav. LXXVI, Ch.
Picard, Manuel d'archéologie grecque – La sculture, I-V, Paris
1935; S. Aurigemma, op. cit., Roma 1970, n. 464.
(18) Potrebbe trattarsi della rappresentazione di un
Omero, simbolo della poesia, che rientra, come afferma giustamente
il Courajod (L. Courajod, L'imitation et la contréfaction des objects
d'art antiques au XV et XVI siècle, Paris 1889) in quella moda
ampiamente diffusa, a partire dal XVI secolo, di collezionare teste di
imperatori romani, di personaggi illustri o di teste ideali di poeti e
filosofi o di commissionarne per adornare palazzi e ville.
(19) Cfr. con il cd. Omero conservato nella
Galleria degli Uffizi a Firenze, (E. Berti Toesca, Il cosiddetto
Omero degli Uffizi, in "Bollettino d'Arte", 1953, pp.
307-309, fig. 1-2); la copia nella Galleria Estense a Modena, (E. Berti
Toesca, op. cit., fig. 4); la copia conservata a Roma, nel Museo
Capitolino, (E. Berti Toesca, op. cit., fig. 3).
(20) Dio indigeno molto venerato dai popoli italici
principalmente come protettore di tutte le attività guerresche.
(21) Cfr. Andrén, Architectural
Terracottas from Etrusco-Italic Temples, in Acta Inst. Suec.,
VI, 1940, p. 350 ss., fig. 34, tav. 112. A 4; I. Scott Ryberg, Rites
of the State Religion in Roman Art, in Memoirs of the American
Academy, XXII, 1955, p. 22 s., tav. VI,
fig. 14; G. Lugli, Roma antica. Il centro monumentale, Roma 1946,
pp. 32, 266 s.; Fontes ad Topographiam veteris urbis Romae
pertinentes, I, Roma 1952, p. 48, nn. 1-2; H. Mattingly – E.
Espérandieu, Recueil général des Bas-réliefs, Statues et
Bustes de la Gaule romaine, 7200; G. M. A. Richter, Ancient Italy,
1955, p. 100, fig. 286; p. 100, fig. 285; E. Espérandieu, La scultura
romana da Augusto a Costantino, I, Firenze 1923, p. 80 ss., figg.
53-54; H. S. Jones, The Sculptures of the Museo
Capitolino, Oxford 1912, p. 39 s., n. 40, tav. 7; E. Espérandieu,
op. cit., 7753, 1323, 1832, 3042, 3665, 7039. Vedi pure il
bassorilievo con Marte seduto ma molto simile nella resa iconografica
della testa e dell'armatura nella sala XIX di Elena e Paride a Villa
Borghese in E. Debenedetti, P.A. Paris e la collezione di
antichità della Villa Borghese detta Pinciana in Collezionismo e
ideologia, Roma 1991, fig. 7.
(22) Gli elementi paesaggistici che fanno da sfondo, e
che emergono qua e là nel rilievo, servono a suggerire l'ambiente
idillico pastorale così come gli alberi stanno a simboleggiare il Monte
Ida in cui, secondo la leggenda, viveva Paride con la compagna Oenone.
(23) Con probabile riferimento al "laurus delphicus"
dello stemma di casa Delfico.
(24) Cfr. i rilievi provenienti da Palazzo Spada in P.
Zancher, Klassizistische Statuen, Mainz 1974, p. 1888, p. 1889 e
p. 1890; vedi lo stesso tema riproposto nelle lastre della Collezione
Medici in C. Robert, Die antiken Sarkophagreliefs, I-III
Mythologische Zyklen, Berlin 1890 II, p. 13 s, n. 11 tav.
V e a Villa Pamphilj (C. Robert, op. cit.,
p. 11 ss., n. 10, tav. IV) e il rilievo di Palazzo Spada, venuto
alla luce negli anni 1620 durante I lavori della Chiesa di S. Agnese in
Via Nomentana (cfr. B. Palma, I marmi Ludovisi, Roma 1983, p.
29).
(25) Cfr. E. Paribeni – L. Salerno, Il Palazzo Rondinini,
Roma 1964, p. 212; cfr. la statua conservata nella Galleria Borghese in
P. Moreno – C. Stefani, Galleria Borghese, Roma 2000, p. 173,
fig. 3; cfr. anche statuetta di Attis in marmo frigio citata dal
Montelatici nel 1700 quale pastore, forse Paride, utilizzata
frequentemente come decorazione di trapezofori e quale simbolo funerario
nei sarcofagi (P. Moreno – A. Vacava, I marmi antichi della Galleria
Borghese, Roma 2003, fig. 234).
(26) Divinità italica assimilata all'Atena greca, la
vergine figlia di Zeus, dea delle armi; in origine, con tutta
probabilità, non faceva parte delle divinità indigeti.
(27) Per quanto riguarda l'iconografia, la Minerva
italica e romana in nulla si distingue dall'Atena greca e ciò si può
notare anche nelle più antiche rappresentazioni che ne abbiamo,
risalenti alla fine del VI sec., come la testina proveniente dalla stipe
del Capitolium di Signia o il gruppo in terracotta rappresentante la
triade capitolina dal tempio della Mater Matuta di Satrico. Cfr. R.
Delbruck, Das Capitolium von Signia, Roma 1903, p. 3, tav. VI; A.
Della Seta, Il Museo di Villa Giulia, Roma 1918, pp. 161, 276; P. H. von
Blanchenhagen, Flavische Architektur und ihre Dekoration,
Unthersucht am Nervaforum, Berlino 1940, tavv. XXXVIII-XLII; F.
Castagnoli in "Archeologia Classica", 1961, tav. XXXV, 3; F. Magi, I
rilievi Flavi del Palazzo della Cancelleria, Roma 1945, tavv. I, II,
VI, XI.
(28) Risale ad un originale lisippeo con numerose
repliche e varianti: cfr. R. S. Reinach, Répertoire de la statuaire
grecque et romaine, V, 1, p. 84 n. 1; G. Cultrera in Memoria
dei Lincei, s. V, XIV, 1910, p. 179 ss., tavv. I-IV; F. S. Johnson,
Lysippo, Durham 1927, p. 206 ss.; Il Museo Nazionale Romano,
Roma 1983, Vol. I / 5, p. 89 n. 37 e Scultura antica in Palazzo
Altemps, Electa 2002, p. 147.
(29) L'archetipo ispiratore è una pittura ellenistica.
Per i confronti vedi R. Paribeni in "Notizie e Scavi", 1926, p. 279 ss.,
tav. 5 a; R. Paribeni, op. cit., Roma 1932, n. 540; W. H. Helbig,
op. cit., n. 2119; S. Aurigemma, op. cit., n. 470; Il
Palazzo dell'Accademia Filarmonica di Torino, Torino 1838, p. 83; T.
Fittipaldi, Scultura napoletana del ‘700, Napoli 1986, tav. I.
(30) Per spiegare la grande forza di Ercole si ricorse al
mito del leone che l'eroe dovette affrontare, per ordine di Euristeo, in
una lotta che gli consentì di penetrare nel corpo stesso dell'animale e
di impadronirsi, con la sua pelle, della sua indomabile forza.
(31) Il tema è molto diffuso come repertorio decorativo
sin dalla prima metà del XVIII sec. Ma sin dalla metà del XVII sec. si
hanno esempi di tale soggetto in terracotta (cfr. L'ésprit créateur
de Pialle a Canova. Terres cuites européennes 1740-1840,
Paris 2003, p. 176).
(32) I Romani la identificarono con Cerere, dea della
vegetazione dei campi e dell'agricoltura la cui figlia Persefone, fu
rapita da Plutone, re dell'Ade, e costretta a soggiornare durante
l'inverno, nonostante l'intercessione della madre presso Giove, con il
suo sposo.
(33) Cfr. D. Philios, in "Mitteilungen
des Deutschen Archaologischen Instituts. Atenische Abteikung.", XX,
1896, p. 225 ss.; "Bulletin de Correspondance Hellénique", LXX, 146, p.
403 ss.; G. E. Beau, in Ill. London News, 1953, p. 747 ss.; M.
Bord, Studies D. M. Robinson, S. Louis 1953, vol.I, p. 765 ss.
(34) Cfr. R. De Chirico-Calza in Arti Figurative,
1945, p. 69 ss. tavv. XXVI-XXVIII; H. P. L'Orange, The portrait of
Plotinus, in "Les Cahiers Archéologiques", 1951, p. 15 ss.; R.
Calza, Museo Ostiense, in Itinerari e Monumenti, Roma
1947, p. 15.
(35) Collocare i reperti nel cortile o lungo la scalinata
documentava il prestigio della famiglia mentre la disposizione in uno
spazio di rappresentanza rispondeva ad esigenze di autocelebrazione
significata in termini simbolici attraverso la mitologia. Vedi a tal
proposito C. Franzoni, "Rimembranze di infinite cose". Le
collezioni rinascimentali di antichità in Memoria dell'antico
nell'arte italiana, vol. I, L'Uso dei classici, a cura di S.
Settis, Torino 1984, pp. 301-360.
(36) Chi siano il plasticatore e lo scultore, autori
dell'intero apparato decorativo dello scalone, non è dato sapere giacchè
nessun elemento è emerso da un'analisi dei documenti del Fondo Delfico
circa gli artisti incaricati dei lavori di decorazione del palazzo. E'
comunque probabile che appaiono di ano più abile e raffinata mentre,
nelle statue e nei busti, il riecheggiamento di stilemi classici, a
volte con una sorta di approssimazione nei particolari, lascia presumere
che si tratti di un decoratore che conosceva iconografie antiche ma
contaminate da riecheggiamenti e interpretazioni personali interpolate,
talora, in maniera persino goffa. E, tuttavia, se si fa riferimento al
panorama artistico dell'epoca e agli scultori e decoratori cui furono
commissionati interventi in altri palazzi della città nello stesso
periodo, non paiono essere infondati i riferimenti, almeno per gli
stucchi, a personaggi come Domenico Moschioni che, nel 1837-38, lavora
al restauro del Teatro Corradi vedi articolo di Luciana D'Annunzio,
Il Teatro Corradi, in "Notizie dalla Delfico", A. XVII, 1-3, pp.
15-43.
(37) Le decorazioni a soggetto mitologico nei palazzi di
città trovano solitamente una loro collocazione in luoghi di uso
privato, rispondendo essenzialmente alla funzione di quegli ambienti,
come le camere da letto, "gli studioli", le "stufette" e occupando per
lo più gli spazi marginali dei fregi, oppure i riquadri nelle volte e
nei soffitti.
(38) Accanto alle diffusissime tematiche amorose,
particolarmente utilizzati sono i miti legati alla interpretazione
"naturalistica" che dei miti classici dettero i mitografi
cinquecenteschi, da Lilio Gregorio Girali, a natale Conti, a Vincenzo
Cartari, che pubblicarono i loro trattati intorno alla metà del
Cinquecento. (Sulla storia e la funzione di questi trattati vedi J.
Seznec, La sopravvivenza degli antichi dei, Torino 1981, pp.
267-389)mentre un'ampia descrizione di soggetti mitologici, adatti alla
decorazione dei palazzi, si trova nel trattato di Antonio Averlino,
detto il Filarete, (trattato di Architettura, l. IX, ed. a cura di M.
Finoli, Milano, 1974).
(39) La pittura a tempera era comunemente adottata perché
consentiva di lavorare su intonaco già "riposato", ovvero completamente
asciutto. A differenza dell'impasto usato nella base per l'affresco, la
granulosità dell'intonaco, ottimale per la tecnica a tempera, era
carente di polvere di marmo per ottenere una superficie meno levigata e
più assorbente.
(40) Si tratta di copie perfette dei quattro tondi
relativi ai Quattro Elementi, opere del pittore Francesco Albani
(Bologna, 1578-1860), segnalatimi molto cortesemente dal dr. Fausto
Eugeni avendone rintracciato le foto e relative didascalie nel Fondo
Rosati anche se non è ipotizzabile nessun collegamento con i cartoni di
chi dipinse le stanze di Palazzo Dèlfico. Tali tondi, commissionati dal
Cardinale Maurizio di Savoia, eseguiti tra il 1625 e il 1628 e pervenuti
a Torino nel 1633, furono in un primo tempo consegnati temporaneamente a
Cristina di Francia e, dal 1692, donati dalla vedova di Maurizio di
Savoia a Vittorio Amedeo II di Savoia, a decorare la Camera a dormire
della Regina, al I piano del Palazzo Reale a Torino. La stessa stanza fu
affrescata nella volta con la scena di Diana che scende verso Endimione
dormiente e Allegorie del Giorno e della Notte, dal pittore, austriaco
di nascita ma veneto-romano di educazione artistica, Daniele Seyter (cfr.
A. Griseri, The Palazzo Reale at Turin, in "The Connoisseur",
Londra, novembre 1957). I dipinti inviati in Francia durante la prima
spedizione napoleonica, furono riportati in Italia dopo il 1814, presso
la Galleria Sabauda di Torino, dove sono tuttora conservati. Per i
confronti sul tema dei Quattro Elementi vedi anche la Sala con Elementi
nel Palazzo Colcos Boncompagni a Roma nella quale il soffitto è
ripartito in quattro riquadri con le divinità Cibele-Terra, Giove-Fuoco,
Nettuno-Acqua e Giunone-Aria (cfr. in Eliana Ettaro- Laura Gigli,
Palazzo Boncompagni Colcos a Monte Giordano, Roma 2003, figg.
110-111) o nel Palazzo Reale di Torino la Sala di Parata di Madama
Felicita dello stesso Seyter (Il Palazzo Reale di Torino, Milano
1959, tavv. II-VI).
(41) Per le fonti documentarie e gli apporti specifici
relativi al quadro vedi N. Gabrielli, s.v. Albani Francesco, La
Galleria Sabauda. Maestri italiani, Torino 1971, p. 49.
(42) Per le fonti documentarie sul dipinto cfr. AA. VV.,
L'ideale classico del Seicento in Italia e la pittura di paesaggio,
catalogo della mostra, Bologna 1962, pp. 131, 139, 140; AA. VV.,
Mostra del barocco piemontese – Pittura, catalogo a cura di V.
Viale, Torino 1963, pp. 53-56; N. Gabrielli, op. cit., p. 50. Il
tema della Terra connesso a quello delle Quattro Stagioni è strettamente
correlato alla tradizione astrologica degli influssi celesti sul mondo
sublunare. Nell'iconografia medievale e rinascimentale vengono
rappresentati o associati ai mestieri agricoli: la semina, la fienagione
o la mietitura, il raccolto, la caccia. Per i confronti vedi le
rappresentazioni dell'Autunno e dell'Inverno nella Galleria di Palazzo
del Drago, già Albani, in G. Delfini, Committenza Albani: Il Palazzo
alle Quattro Fontane in Ville e palazzi. Illusione scenica e miti
archeologici, Roma 1987, fig. 18; quella affrescata nel Gabinetto
delle Stagioni e nell'Alcova nell'appartamento Corsini-Barberini (G.
Borghini, Nota preliminare sull'appartamento Corsini-Barberini, in
Palazzo Corsini alla Lungara, in Ville e palazzi, op. cit.,
pp. 213-240, figg. 28, 29, 41, 42, 43); cfr. anche il sarcofago con
tiaso marino e coperchio con stagioni conservato nella Galleria
Borghese, in P. Moreno – C. Stefani, Galleria Borghese, Roma
2000, fig. 13. Per i confronti relativi alla rappresentazione
dell'Autunno vedi gli arazzi di F. Behagle conservati nella Sala degli
Ambasciatori della Reggia di Caserta in F. De Filippis, op. cit.,
tav. XXXVIII; la Loggia di Villa Sacchetti a Castelfusano dipinta da
Pietro da Cortona in L. H. Zipold, Pietro da Cortona's frescoes in
the Villa Sacchetti in Castelfusano, Ph. D, Ruttgers
University, 1994, fig. 21.
(43) Per questo tipo di scene è certa la derivazione da
prototipi classici, rappresentati da numerosi bassorilievi con cortei
marini, con Ninfe e divinità dell'acqua. (cfr. l'affresco della Sala
delle Stagioni, nella Reggia di Caserta in F. De Filippis, op. cit.,
tav. LV; quello a Palazzo Corsini, nella Sala dei Periodici Italiani in
E. Borsellino, op. cit., fig. 30; il dipinto conservato nel
Castello di Pommersfelden in N. Spinosa, Pittura napoletana del ‘700,
Napoli 1988, vol. I, p. 256, fig. 143; quello a palazzo Altieri,
attribuito ad Andrea sacchi in A. Sutherland Harris, Andrea Sacchi,
Princeton 1977, p. 49, n. 1).
(44) Cfr. la decorazione di Palazzo Schifanoia a Ferrara
ad opera di Ercole de' Roberti, nella villa medicea dell'Ospedaletto,
presso Volterra del Ghirlandaio, a Palazzo Vecchio a Firenze, ad opera
del Vasari, col dipinto di Iacopo e Francesco Bassano, nella Galleria
Sabauda (vedi N. Gabrielli, op. cit., pp. 64-65). La fortuna di
questo soggetto, la cui diffusione è documentata in aree culturalmente e
geograficamente distanti, è da riconnettere ai significati che gli si
conferivano soprattutto in riferimento alla preparazione delle armi
della guerra e quindi alla capacità bellica della famiglia.
(45) Raffigurazioni del tema dei Quattro Elementi viene
ripetuto, con varianti iconografiche altre tre volte dall'Albani: per la
vigna del principe Borghese, a Roma, per il duca Fernando Gonzaga a
Mantova e per il conte di Caronge. Il successo di queste composizioni
nella prima metà del XVII sec. è da attribuire ad un particolare
interesse nell'ambiente romano rivolto alla ripresa del naturalismo
classicheggiante, soprattutto dalla scuola dei Bolognesi allievi dei
Carracci, operanti a Roma tra l'inizio del 1600 e il 1630.
|
|
"Sala del Trionfo di Venere":
tempera (particolare) |
|
Tali temi si
trovano non di rado anche nel repertorio figurativo degli edifici
profani durante il Cinquecento (i precedenti più illustri alle scene
dell'Albani sono infatti reperibili in aree culturali differenti: Paolo
Veronese ce ne fornisce un esempio a Villa Barbaro a Maser per
l'ambiente veneto, Vasari a Palazzo Vecchio per la situazione fiorentina
e Correggio nella camera di San Paolo a Parma per quella emiliana). In
questi affreschi a tematiche analoghe fa riscontro un'interpretazione
che assume come dato costante la raffigurazione di divinità o scene
mitologiche corrispondenti ai significati che si vogliono esprimere.
Varia invece la specifica soluzione iconografica prescelta come la
lettura che ne fornisce il singolo artista: mentre il Fuoco per esempio,
viene spesso illustrato attraverso la raffigurazione di Vulcano,
Correggio a Parma, in un complesso figurativo di non facile
interpretazione, sostituisce alla consueta figura del fabbro divino
Vesta, una divinità tratta dall'antica mitologia romana. Nello stesso
modo, per esprimere l'Acqua si poteva ricorrere tanto alla figurazione
di Nettuno quanto a quella di venere: infatti i trattati
sull'iconografia concedevano all'artista una serie di possibilità, fermo
restando il riferimento d'obbligo alla mitologia antica.
(46) Iconografie analoghe si ritrovano in molti palazzi e
ville decorate durante i primi decenni del secolo XVI soprattutto da
pittori più vicini alla cerchia carraccesca. Generalmente richiesti sono
i dipinti raffiguranti scene tratte da testi letterari del mondo
classico, dalla mitologia e dalla storia antica in accordo con il gusto
per l'antichità.
(47) Una differente versione è legata al mito di Borea,
re dei venti nordici che, passando per Atene, si innamora di Orizia,
figlia del re Eretteo e, non sperando di averla, la rapisce sollevandola
in volo e si dirige verso la Tracia dove avrà da lei quattro figli:
Borea si dice anche figlio dell'Aurora.
(48) Da un punto di vista simbolico la scena "significa"
il principio cosmico che rappresenta l'immutabilità e l'universalità
degli eventi. Vedi il dipinto di Nicolas Poussin, conservato al Louvre
nel quale il Tempo rapisce la Verità, rappresentato come fanciulla nuda
e indifesa, affiancata da un putto che regge la falce e il serpente che
si morde la coda, attributi del Tempo, mentre l'Invidia si riconosce per
il pugnale e il tizzone ardente e la Discordia per il pomo e il capo
anguicrinito. (Simboli e allegorie, Milano 2003, p. 23). Cfr.
anche la scena attribuita a Giovanni Domenico Piestrini nel palazzo
Onorati di Jesi (M. Esuperanzi, Un profilo di Giovanni Domenico
Piestrini, in Ville e palazzi, op. cit., fig. 19; B. Pinelli,
Mitologia illustrata, Roma 1897, pp. 237-238) e la scena
realizzata a Palazzo Reale, a Torino, nella Sala di Parata di Madama
Felicita, da Daniele Seyter (Il Palazzo Reale di Torino, op. cit.,
tav. IV) in cui però, nonostante i personaggi rappresentati siano
iconograficamente identici a questi, il riferimento è al mito dell'Aria.
(49) Si tratta dei personaggi della Morte e dell'Invidia
rappresentati secondo le indicazioni del Ripa. Cfr. per la
rappresentazione della Morte, C. Ripa, Iconologia a cura di P.
Buscaroli, Torino 1986, vol. I, p. 226; per la rappresentazione
dell'Invidia, C. Ripa, op. cit., vol. II pp. 67-68. Per la
presenza dei due personaggi legati al Tempo vedi la nota precedente.
(50) L'Aurora precede la piena manifestazione della luce
diurna, personificata dal fratello Sole e simboleggia la speranza e ogni
potenzialità. Il tema dell'Aurora è assai diffuso nelle decorazioni di
interni di ville e palazzi tra Sei Sette e Ottocento. Tale tipologia
decorativa si affermerà all'inizio del Seicento, a partire dalla
decorazione di Palazzo Farnese di Caprarola dipinta da Taddeo Zuccai
(vedi G. Bazin, Le mythe d'Eos, in "Gazette des Beaux Arts",
1988, fig2 e grazie, soprattutto, all'affresco di Guido Reni eseguito,
nel 1614, per Scipione Borghese nel Casino Rospigliosi-Pallavicini (D.
S. Pepper, Guido Reni. A complete catalogne of his works, Oxford
1984, p. 290) e alla decorazione con lo stesso soggetto riproposto nel
Casino Ludovisi dal Guercino nel 1621 (vedi L. Salerno, I dipinti del
Guercino, Roma 1988, pp. 161-166 e D. M. Stone, Guercino,
Firenze 1991, pp. 99-100, fig. 78). Essa ritorna in numerosissimi
palazzi come a palazzo Corsini, nella sala dei Periodici, (cfr. E.
Borsellino, Le decorazioni settecentesche di palazzo Corsini
alla Lungara, in Ville e palazzi, op. cit., pp. 181-212); nel
soffitto dell'Alcova dell'appartamento Corsini-Barberini (E. Borsellino,
op. cit., fig. 51); nella camera d'alcova della Regina Maria
Amalia nella Reggia di Napoli, dipinto da Francesco De Mura (cfr. M. De
Benedetti, Palazzi e Ville Reali d'Italia, Firenze 1913, col. II,
p. 54); a Ca' Pesaro, a Venezia, nella 7.a sala del Piano Nobile (N.
Ivanoff, Angelo Trevisani, in "Bollettino d'Arte", 1953, pp. 57-60); nel
Castello di Pommersfelden (N. Spinosa, op. cit., vol. I, p. 255,
fig. 142). Lo stesso tema ricorre in una serie di palazzi citati da B.
Accolti (B. Accolti, Soffitti della fantasia, Roma 1979): Palazzo
Romanizzi-Carducci di Putignano (fig. 37); Palazzo Delli Paoli a
Maddaloni (fig. 37); Casa Foglia a Marcianise (fig. 39).
(51) Il passaggio dalla notte al giorno attraverso
l'Aurora indica il correre ineluttabile del tempo, rappresentato dal
bellissimo Titone, fratello di Priamo di cui si innamora Eos che ne
ottiene l'immortalità ma non la giovinezza eterna.
(52) Sull'analisi iconografica e iconologia del tema cfr.
gli studi di E. Schroeter, Die Villa Albani als Imago mundi. Das
unbekannte fresken und Antiken programmi m Piano Nobile der Villa
Albani zu Rom, in AA. VV., Forschungen zur Villa Albani.
Antike Kunst und die Epoche der Aufklarung,
Berlin 1982, pp. 187-299 e G. Bazin, op. cit., pp. 9-18.
(53) Il soffitto della stanza si presenta, nella scelta
dei temi allegorici, come la celebrazione del trascorrere del tempo,
nell'avvicendarsi delle stagioni e dei riti, nonché delle attività ad
essi collegati.
(54) Il décor di gusto antichizzante della Roma e della
Napoli, degli anni a cavallo tra la prima e la seconda metà dell'800, si
volge verso un vocabolario formale di deduzione antiquaria che attinge
più facilmente all'antico, miscelato da Raffaello, e alle scoperte
ercolanensi e naturalmente ad un repertorio locale fatto di collezioni
di gemme o pietre dure, raccolte di marmo o sofisticati oggetti di
scavo. Isolata in un reame rarefatto di godimento estetico e di
erudizione archeologica, questa visione della Grecia e di Roma,
caratteristica della metà dell'800, perde completamente il contatto con
le realtà politiche e sociali contemporanee che avevano dato vigore
all'immagine dell'antichità ai tempi della rivoluzione e dell'impero.
(55) Stando all'assoluta penuria di documenti sulla
committenza e sugli interventi effettuati nel palazzo, nel quale i
lavori proseguono senza grande soluzione di continuità dal 1790 al 1851,
il complesso decorativo rimane forzatamente anonimo. Esso è dovuto, come
in altri casi a quei geniali quanto modesti artefici che, nel corso
dell'800, lavorarono nei palazzi e nelle chiese teramane e nelle ville
dei dintorni, alcuni dei quali, scultori, intagliatori, stuccatori,
provenivano anche da Roma o da Napoli, maestri d'arte che lavorando qua
e là, dove gli imprenditori o i committenti li chiamavano, non
lasciavano traccia del proprio nome nemmeno nei contratti. Anche in
relazione all'unico documento rinvenuto, relativo al contratto per
interventi di pittura, firmato da Gregorio De Filippis Delfico con
Domenico Brizzi il 12 maggio 1836 (cfr. Note di spese per accomodi
etc…, 1836, A.S.Te., Archivio
Delfico, b. 22, f. 321/a) e che sono precedenti rispetto a quelli
delle pitture oggi visibili e in relazione a quanto afferma il
Comanducci nella sua opera, (cfr. M. Comanducci, I pittori italiani
dell'800. Dizionario critico e documentario, Milano 1934) che
individua in Berardino De Filippis Delfico il pittore di molte sale del
Palazzo Dèlfico e in Troiano De Filippis Delfico il pittore di scene di
paesaggio dello stesso Palazzo, si può ipotizzare che a essi si devono
gli interventi pittorici nelle due sale sotto l'occhio vigile dello
stesso Pasquale Della Monica che, anche se non fu il maestro di disegno
di cui c'è menzione nei conti della famiglia Delfico fu certamente
insegnante di Berardino e Troiano Delfico. E in effetti le scene dei
Quattro Elementi mostrano una qualche abilità pittorica, pur se
concepite tutte nei piani ravvicinati, con un ritmo ordinato da
bassorilievo classico, e appaiono essere copie fedelissime dei tondi
dell'Albani. Decisamente di maggior pregio il dipinto centrale con il
tema del Tempo che rapisce la Giovinezza per la sua corposità cromatica,
tutta grumi di colore, specie nella resa delle tuniche che lasciano
intravedere la concretezza anatomica dei corpi, immersi nell'aria e dei
quali si avverte il pondus materico e il virtuosismo della resa
in scorcio, sicchè sembra nata dalla fantasia creativa di un pittore
assai avvezzo all'uso di colori e all'utilizzo di variati impasti
cromatici. Probabilmente dello stesso pittore dei Quattro Elementi la
scena dell'Aurora, più rarefatta per la gamma cromatica e più accademica
concepita tutta nei piani ravvicinati, con un forte richiamo a canoni
decorativi di matrice accademica.
(56) Richiama da vicino i soggetti dei fogli colorati à
la gouache con le immagini di Napoli e dei dintorni, realizzate tra
Sette e Ottocento, sorta di piccole scene teatrali, quinte sviluppate in
orizzontale, a rappresentare uno spazio plasmato, nel ricordo degli
spazi visti, dalla fantasia creatrice del decoratore che si riappropria
degli elementi paesistici e dei valori monumentali quali presa di
coscienza di un ambiente all'interno di un edificio. A tal proposito cfr.
C'era una volta Napoli, Electa 2002, figg. 42-43-47.
(57) Cfr. N. Palma, Storia della città di Teramo,
Teramo 1832, p. 225-226 il quale riportando l'episodio cita il racconto
che ne fa M. de' Mutij (Mutio de' Mutij, Della storia di Teramo.
Dialoghi sette con note ed aggiunte di G. Pannella, Teramo 1893, pp.
248-56): i soldati "videro sopra le mura della città una donna
risplendente, vestita di bianco, ed un uomo a cavallo, vestito di
rosso…" e terrorizzati, si diedero alla fuga lasciando l'assedio
della città di Teramo.
(58) L'ordine delle sovrapporte, in mancanza di dati
oggettivi che consentano di ricostruirne la sequenza, è stato
individuato tenendo conto dello sviluppo della storia e del succedersi
dei momenti, dall'atto di vendita della città di Teramo al Duca Andrea
Matteo Acquaviva di Atri, all'assedio, alla battaglia, sino
all'apparizione finale.
(59) Anche in questo caso siamo nel campo delle ipotesi.
Il riferimento ad un episodio tanto antico e in evidente contrasto con
il programma figurativo dell'intero palazzo, seppur forse parziale
rispetto all'originale, fa presumere che si tratti di mano diversa da
quella che ha eseguito le altre pitture. Non pare attribuibile a quel
Tullj che viene incaricato nel 1836 di intervenire nella "Camera di
Compagnia" dandogli "una tinta a color torchino, in mezzo alla
lamia un ornato ai quattro lati da vasi di fiori a
chiaroscuro…sopra al zoccolo un freggio colorito"; nell' "Antecamera,
…una grillanta di fiori in mezzo alla lamia…"; nella "Camera
da Manciare… in mezzo alla lamia un ornato, cornicione
zoccolo e sopra al zoccolo un fregio"; nella "Galleria…idem"
e che dipinge negli stessi anni le sovrapporte del Piano Nobile del
Palazzo dell'Intendenza con temi di fantasia ma piuttosto, sulla base
dell'ipotesi fatta, anche qui a due mani, l'una più abile ed esperta
nella resa dei cavalieri e dei quadrupedi pronti a sostenere l'attacco,
l'altra che dipinge donne e personaggi goffi simili a bambocci privi di
vita. |