De Filippis

 

De Filippis-Delfico

 

(Teramo, 1820)

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Stemma famiglia De Filippis-Delfico, Teramo, 1820

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Delfico

(Napoli, sec. XVIII)

(Teramo, sec. XV)

Stemma famiglia De Filippis, Napoli, sec.XVIII

Stemma famiglia Delfico, Teramo, sec.XV

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Cultura archeologica e mitologia

negli apparati decorativi di Palazzo Dèlfico

di Paola Di Felice

In I luoghi della storia a Teramo. Il Palazzo Dèlfico, di AA. VV., S. Atto di Teramo, Edigrafital 2004

"Il Palazzo Dèlfico è il solo dei nostri edifici moderni che merita una visita per la sua facciata principale, per lo scalone dalle vaste e maestose proporzioni e per una fuga di stanze ricche di lavori d'arte…" Così affermava, nel 1888, lo studioso Giacinto Pannella (1), riferendosi all'edificio fatto costruire dalla famiglia Delfico (2), cui faranno eco, nel 1895, Francesco Savini che lo definisce un esemplare barocco per il suo "lato postico" (3), Luigi Savorini, nel 1934, che cita il nostro palazzo come "imponente palazzo di quella famiglia patrizia con l'ampio scalone in stile Impero" (4) e Alberto Scarselli che, nel 1939, lo descrive come "unico palazzo settecentesco…" il quale "trae la sua importanza, più che dalla sua architettura, dalle sue sale e dal suo superbo scalone, adorno di statue mitologiche…" (5).

Palazzo Delfico. Scala nobile

Palazzo Dèlfico. Scala nobile

Se, stando ai nostri studiosi, l'edificio sembra avere una sua peculiarità espressiva nel panorama delle costruzioni teramane dell'epoca, tuttavia esso non si discosta dai caratteri propri di tanti palazzi della provincia italiana che testimoniano la dimensione umana della società ottocentesca dalla identità culturale di tradizione essenzialmente borghese (6).

E in effetti, a partire dalla fine del ‘700, si manifesta anche a Teramo, come nella maggior parte delle città italiane, sebbene in modo assai meno percepibile, l'interesse per un lento e graduale rinnovo del patrimonio edilizio in adesione alle nuove tendenze illuministiche che, oltre a mostrare i sintomi di una partecipazione a livello culturale e di pensiero, si tradusse in un parziale mutamento della fisionomia urbanistica della città.

Protagonista di questo fenomeno è sempre la classe aristocratica la quale affida ancora le sue fortune alla proprietà terriera, basandosi sui redditi di un'agricoltura che, negli anni, andrà progressivamente trasformandosi e ammodernandosi e che consegna alle fonti mitologiche la capacità di trasmissione della memoria collettiva facendo emergere tutto un mondo passato, anzi mondi passati, in cui i più antichi significati di tale memoria, quale è appunto quella del mito, presentano il carattere dell'universalità.

Così in molti edifici della prima metà dell'Ottocento gli ornati pittorici mostrano l'adesione ad una dignitosa linearità neoclassica con risvolti di recupero, nelle quadrature geometriche, negli ornati a grisaille, nei solenni scaloni, della nobile essenzialità del mondo mitologico e classico, in una ricerca di forme estetiche emblematiche dei nuovi fermenti e delle nuove aspirazioni della classe borghese, mediante la riproposizione di morfologie stilistiche storicizzate, con variati aspetti revivalistici (7).

Scala nobile: statue di Minerva e Ercole

Scala nobile: statue di Minerva e Ercole

Nell'alternanza tra coscienza logica e coscienza mitologica, la cultura a orientamento mitologico crea nuovi miti che nascono da situazioni storiche e da correnti ideologiche contingenti e l'epoca illuministica, nella sua antinomia tra rifiuto del mito e culto dell'antichità come epoca di ordine e di chiarezza, non trova nulla di meglio, a livello figurativo, che rivestire le sue idee lucide e razionali di abiti antichi. Le favole mitologiche sono i migliori involucri per i nuovi contenuti, soprattutto sullo scorcio del secolo XVIII che, di fronte ai nuovi statuti della ragione, conosce le scoperte di Ercolano e di Pompei.

Sotto questo aspetto va letto il programma figurativo e decorativo di Palazzo Dèlfico anche se all'occhio dell'archeologo e dello storico dell'arte, pur abituato a individuare le iconografie dei miti, queste in oggetto appaiono non sempre comuni, o riconoscibili, per la novità dell'impostazione formale e della rappresentazione iconografica nonostante ne permangano gli iconemi, i nessi psicologici e gli attributi.

Un programma figurativo connesso alla moda che vuole atri solenni, scaloni scenografici, statue che, a chiunque entri, ospiti occasionali, amici, convenuti, ricordino la fama, l'onore, l'abbondanza, la forza della casata come appunto nel caso dello scalone del nostro Palazzo Dèlfico il quale, ancora oggi, offre una forte percezione dinamica dello spazio nel suo evolversi in corrispondenza del succedersi continuo dei punti di vista. Uno spazio che si moltiplica come riecheggiando mediante le vivaci membrature delle pareti, attraverso le linee prospettiche e gli archi aperti, per dare maggiore movimento all'ambiente, a contenere le nicchie che accolgono le statue di matrice classica e che alleggeriscono, anche per effetto del lungo snodarsi del decoro in stucco con motivi vegetali, il continuum costruttivo delle pareti.

Scala nobile: decorazioni delle porte di accesso

Scala nobile: decorazioni delle porte di accesso

Così lo slancio degli elementi architettonici (8) e la molteplicità di aperture tolgono ogni peso apparente alla struttura, assimilandola ad un fondale di teatro e, in questo snodarsi di zone, le linee strutturali acquistano valore armonico e decorativo; plasticismo e architettura si fondono nonostante il distacco cromatico fra gli stucchi, con ghirigori e intrecci di elementi vegetali dalla pallida cromia grigia, la patina brunita delle statue e lo sfondo, conservando una essenziale sintesi stilistica. E in effetti l'intero scalone racchiude una storia antica, costringendo le figure entro le gabbie di un disegno prefissato dalle nicchie, e nel muto, stereotipo dialogo fra i personaggi simbolici, di matrice classica, si esaurisce tutta l'azione della scena che si offre allo spettatore senza richiederne la partecipazione.

Tutte le sculture, in gesso dalla patina brunita ad imitare perfettamente la terracotta, appaiono rapprese nella formula manierista dello hanchement, studiate perché non perdano mai di eleganza al mutar dello sguardo di chi sale sicchè, da ogni possibile angolazione, le linee che la definiscono tornano a combinarsi in un intreccio nuovo ma sempre gradevole.

E' la perfetta riuscita del gioco dell'astrazione, coniugata con l'altra astrazione che è l'idea arcadica ora di una femminilità tutta elegante e vaga, oltre che soavemente tornita, ora di una mascolinità vigorosa e presente oltre che ferma e rigorosa (9).

Percorrendo la prima rampa dell'ampia scalinata, entro la prima nicchia incorniciata da un'architettura con arco su lesene e capitelli ionici, è la statua di Bacco, nudo, dalle forme giovanili (10), raffigurato stante sulla gamba destra mentre solleva la sinistra, con un ritmo sinuoso del corpo dal forte modellato anatomico. Il braccio destro è sollevato sul capo a reggere un grappolo d'uva e il braccio sinistro accostato al corpo con una coppa nella mano. Il capo è coronato di foglie di vite e grappoli e il volto mostra occhi sognanti e bocca dischiusa (11).

Le pareti che delimitano il pianerottolo, alla fine della prima rampa di scale, ospitano quattro statue: la prima, a partire da sinistra, è la statua di divinità maschile, verosimilmente Asclepio, l'antico dio della medicina (12), raffigurato stante sulla gamba sinistra mentre la destra è flessa.. Riconoscibile nella sua consueta e tradizionale iconografia, caratterizzata da ampio mantello che lo avvolge lasciando scoperti solo il petto e un braccio, è con i suoi classici attributi, il bastone e il serpente (13).

Scala nobile: statua di Marte e "busto di poeta"

Scala nobile: statua di Marte e "busto di poeta"

Accanto è la nicchia con la statua di un nudo Apollo citaredo con ricchi calzari (14), dalle cui spalle un ampio mantello, ondeggiante sulla schiena, scende sino ai piedi. Incoronato di alloro, la figura gravita sul piede destro; il sinistro scarico, poggia al suolo con la sola punta. Il fianco sinistro, per la flessione della gamba si abbassa, equilibrato da un'inclinazione del torso in senso inverso che è sottolineata dalla cetra e dal ricchissimo panneggio del mantello.

La nicchia successiva ospita la statua raffigurante Artemide (15) con corta tunica (exomis) alle ginocchia, che le lascia scoperto il seno destro e la spalla, sblusata all'altezza dei fianchi, da dove scende con pieghe svolazzanti, e apoftigma sopra la vita. Dietro le spalle, gonfiata dal vento, è una ricca chlamis, in forma di nimbo dalle fluide pieghe finali e, ai piedi, la dea indossa calzari tenuti fermi da corregge. Sulle spalle, a tracolla, si intravede una bandoliera con faretra dalla quale, con la destra, ha appena estratto una freccia, mentre con la sinistra abbassata doveva reggere un arco. La testa, lievemente rivolta a destra, mostra un volto ovale pieno, la bocca piccola, lo sguardo perso nel vuoto, con pettinatura a corte ciocche sulla fronte e lunghe ciocche legate ricadenti sulle spalle. In atto di correre, è resa come dea cacciatrice che perseguita le fiere selvagge, anche per la presenza del cane ritto sulle zampe mente un puntello, a forma di tronco d'albero, aderisce alla gamba destra.

Segue la statua di Giove (16), stante, nudo tranne per l'himation sostenuto dall'avambraccio sinistro proteso, che avvolge i fianchi con parte delle gambe. La figura è frontale, con spalle e busto leggermente ruotate verso destra e il braccio destro poco discosto dal fianco, piegato e proteso a reggere lo scettro. Carattere insolito ha la testa con capelli molto spioventi e barba lunga resa a ciocche ondulate.

Scala nobile: statue di Venere e Asclepio

Scala nobile: statue di Venere e Asclepio

Lungo la seconda rampa di accesso è una Venere (17) che si rifà al modello della celebre Venere Medici, una delle statue più copiate d'ogni tempo, rappresentata in una posa estremamente elegante e con una resa armoniosa del nudo. Gravitante sul piede sinistro e gamba destra flessa, ginocchio portato in avanti e cosce aderenti, con la mano sinistra afferra il mantello che ricade in pieghe verticali, rade e compatte sino a terra, coprendo del tutto la parte posteriore dell'hydria poggiata al suolo accanto alla figura.

Nella nicchia successiva è collocato un busto con personaggio, dalla testa barbata (18), lunghi capelli ricciuti raccolti in una sorta di berretto frigio, dai forti lineamenti, con un'espressione di dolce e triste serenità (19).

Accanto è la nicchia che ospita la statua di una divinità maschile identificabile con il dio Marte (20). Raffigurato in posizione stante, gravita sulla gamba sinistra mentre la destra è flessa. Il torso, con delineazione volumetrica, è nudo e con ampio manto che ricade lungo le spalle. Nella destra regge una lancia, di cui si conserva solo una piccola parte, la destra poggia su una corazza coricata, collocata su una sorta di plinto. Il volto è imberbe, incorniciato da lunghi capelli ondulati e da un elmo che simula un berretto frigio (21).

La seconda rampa di scale immette in un secondo pianerottolo sul quale si aprono due porte di accesso alle stanze del piano nobile del palazzo. La porta di sinistra ripropone, nel riquadro sovrastante, una decorazione a stucco con ovale decorato da un tralcio continuo di elementi vegetali a palmette, terminante in due girali di acanto, disposti simmetricamente sui due lati e chiusi da due grosse rosette a doppia corolla di sette petali e bulbo centrale trapanato, l'una completamente fiorita e l'altra con petali chiusi. Dalle rosette si dipartono due calici trilobati da cui nasce un bocciolo di loto. Al centro dell'ovale, su un pianoro roccioso caratterizzato dalla presenza di due alberi, un personaggio maschile gradiente (22), coperto da ampio mantello, berretto frigio, scalzo e bastone con attributo regale (pedum?), indica una pianta di alloro (23). Sullo sfondo l'immagine di un tempio circolare, periptero (24).

Scala nobile: statue di Demetra e Venere

Scala nobile: statue di Demetra e Venere

Si tratta di un evidente riferimento ad un momento del mito relativo al giudizio di Paride il cui archetipo ispiratore è di matrice ellenistica e nel tempo ha avuto numerosissimi riecheggiamenti (25).

Nell'altra nicchia è la rappresentazione di Minerva (26) in posizione stante, gravitante sulla gamba destra mentre la sinistra è flessa. La dea indossa corto chitonisco a doppia balza, ampio mantello ricadente sulle spalle, un'armatura con corazza squamata e gorgonèion a sommo del petto, elmo corinzio e calzari con corregge terminanti con protomi leonine. Regge con la sinistra una ancia e con la destra uno scudo poggiato a terra (27).

La nicchia successiva accoglie la statua di Ercole (28) in una rappresentazione eroica e posizione di riposo, poggiante sulla gamba destra e con la sinistra flessa, avanzata e portata a lato. L'avambraccio destro celato dalla leonté, attributo distintivo della lotta vittoriosa contro il leone di Nemea, è poggiato sull'estremità superiore della clava addossata ad un rialzo roccioso che sorge sul plinto della statua.

Nel riquadro sovrastante della porta di destra è una decorazione ovale con motivi vegetali, identica a quella che fronteggia, entro la quale è rappresentata la scena della lotta di Ercole (29) contro il leone di Nemea (30) il cui intenso dinamismo conferisce forte vibratilità all'intera composizione mentre l'eroe afferra il leone per le fauci e misura la sua forza a quella ferina del leone (31).

L'ultima divinità rappresentata è quella di Demetra (32), raffigurata con ampio chitone che lascia scoperto solo l'avambraccio destro, nella cui mano stringe il suo classico attributo, il fascio di spighe (33).

Segue un busto-ritratto ideale di filosofo, reso attraverso la simmetria delle masse del volto che lo animano di forte spiritualità. La bocca è chiusa e gli occhi privi di pupilla plastica che conferiscono al personaggio lo sguardo assente di chi contempla una visione superiore. I capelli, scolpiti con lunghe ciocche incise al pari della barba e dei baffi, conferiscono al volto una particolare serenità (34).

Tutte le pareti e la volta del secondo pianerottolo sono scandite da un continuum decorativo di stucchi, con ghirlande e vasi di fiori su un fondo dalla delicata cromia grigia, sicchè l'insistente rievocazione dell'antico, con tante citazioni sottolineate e commentate dalle decorazioni (35), sottolineano una ricerca di grazia, un gusto per le soluzioni capricciose, una leggerezza che hanno ancora le radici nel Settecento pre-neoclassico (36).

Scala nobile: "busto di filosofo" e statua di Giove

Scala nobile: "busto di filosofo" e statua di Giove

Entrati dalla porta a destra sul pianerottolo in quello che verosimilmente fu il piano nobile dell'edificio, la prima sala a sinistra mostra una volta affrescata con soggetti mitologici (37), uno per ogni lato ed un quinto centrale, raccordati da grottesche angolari con telamoni che sorreggono cesti di frutta. Le scene (38), realizzate con la tecnica della tempera (39), ripropongono miti all'interno di spazi ovali e circolari, contornati da una doppia cornice in stucco e oro: quella interna, che segue l'andamento del cerchio o dell'ovale della decorazione, quella più esterna, mistilinea (40).

Nella prima scena, per chi accede nella stanza dal corridoio, è il tema dell'Allegoria dell'Aria con la rappresentazione di Giunone seduta su di un cocchio sospeso sulle nuvole, trainato da due pavoni. Scortano il carro diverse figure con significato allegorico nelle quali si riconoscono a sinistra la cometa, il vapore acceso, l'iride, la tempesta e la serenità. A destra è invece dipinta l'allegoria del tuono, della folgore, della rugiada e della pioggia. In basso, a fianco di Giunone, su di una rupe a picco sul mare, siede Eolo che aprendo la porta di un antro, lascia fuoriuscire i venti a scatenare una tempesta (41).

Nella seconda scena, verso destra, è illustrato l'elemento della Terra, rappresentata da una figura femminile, assisa su di un carro trainato da due leoni e guidato da amore, accompagnato da tre divinità antiche: Flora, Cerere e Bacco che indicano rispettivamente la Primavera, l'Estate e l'Autunno. Alcuni amorini completano l'allegoria delle stagioni: raccolgono fiori ed inghirlandano il capo di una fanciulla, mietono e trebbiano il grano. Vendemmiano e raccolgono mele. Fa da teatro a questa festa mitologica un ampio paesaggio: l'orizzonte basso, la vegetazione minuziosamente descritta che fa da quinta laterale alla composizione, un albero in primo piano sulla destra e fuga di colline e avvallamenti sul fondo con un accordo pieno tra figure ambiente: dalla frondosa quercia, nella quale la luce s'insinua a definire l'esile struttura delle foglie, ai piani successivi della campagna che ancora non ha conosciuto la fatica annuale dell'uomo (42).

Scala nobile: statue di Artemide e Apollo

Scala nobile: statue di Artemide e Apollo

Nella terza scena con il tema dell'Acqua al centro è raffigurata Venere, seduta su di un cocchio galleggiante a forma di conchiglia trainata da un delfino; un amorino assolve le funzioni di cocchiere, altri aiutano la dea a tendere la vela gonfiata dal vento mentre altri ancora tirano a riva le reti. La scena è animata, nella parte sinistra del dipinto, dalla presenza di alcune figure di tritoni e di ninfe marine. A destra, presso uno sperone roccioso, dietro il quale si apre un lembo di paesaggio, sono rappresentate le personificazioni del Po, della Stura e della Dora (43).

Nella quarta scena è l'elemento del Fuoco presentato nella persona di Vulcano che, svegliandosi, trova la sua fucina invasa da amorini. Alcuni sono intenti a temprare sul fuoco le frecce che poi porgono ai compagni armati di arco: in secondo piano, a sinistra, si vede semisdraiato, Giove. Più in profondità vi è la fucina vera e propria dove altri due cupidi battono le saette sull'incudine mentre un terzo amorino tiene vivo il fuoco con il mantice. Sul fondo si intravede il mare. In alto, sospesa in aria su di un carro tiratola due colombe, Venere distribuisce fiaccole agli amorini che le sono intorno, alcuni dei quali volano verso terra (44).

La risoluzione iconografica adottata dall'Albani per i quattro elementi riprende alcune immagini codificate nella produzione pittorica e nella trattatistica (gli attributi delle varie divinità sono quelli solitamente ricorrenti) (45) e le interpreta e le compone in sintonia con il gusto figurativo e culturale contemporaneo e con le esigenze della committenza cui i dipinti erano destinati. In ogni tondo infatti trova spazio non la semplice raffigurazione della divinità corrispondente all'Elemento, ma una complicata scena mitologica arricchita dalla presenza di innumerevoli personaggi. Egli costruisce le composizioni sapientemente, in conformità con il gusto per la rievocazione del mondo classico e con la crescente richiesta di dipinti di sapore antico celebranti le favole e la mitologia greco-romana che interessavano, in questa fase, gli ambienti del collezionismo e il clima culturale soprattutto romano. Traendo ispirazione dalla Metamorfosi di Ovidio e dall'opera virgiliana, testi di riferimento d'obbligo nei circoli degli eruditi, l'autore realizza queste eleganti favole in cui il gusto per il mondo classico passa attraverso la rievocazione delle divinità antiche vestite con abiti e attributi conformi (46).

Il tema centrale della stanza è rappresentata dal Tempo che rapisce Giovinezza (47), sottraendola alla Morte e all'Invidia (48).

Il personaggio maschile è alato e coperto di un corto mantello che lascia scoperto tutta al parte superiore del corpo, di un verde intenso a sottolineare il contrasto con il corpo diafano della fanciulla rapita che allarga le braccia a trovare un equilibrio nella vertigine del volo. Alla sua sinistra è un putto che trasporta una corona. Ai piedi dei due personaggi è una figura assai simile a Medusa, dalla capigliatura anguicrinita, avvolta da una tunica che evidenzia un corpo in tensione mentre a destra, un personaggio femminile, coperto da ampia tunica rossa, brandisce un coltello, pronta ad aggredire la preda, e regge, nell'altra mano una fiaccola accesa (49).

Nella stanza successiva la decorazione, lasciando libere le pareti, occupa l'intera volta dove Aurora (50), seduta su un carro dorato, trainato da bianchi cavalli in corsa, sparge fiori da un cestello presso il quale accovacciato un putto mentre un altro putto, in volo, sta per incoronarla con un serto floreale. In alto, a destra, Lucifero, con una stella sul capo a simboleggiare la stella luminosa del mattino,e, dietro di lei, un personaggio femminile e un giovane che sorregge un'anfora da cui sgorga acqua, segno di rugiada o di brina invernale. Aurora è preceduta dalle Ore e seguita dalla figura di Titone che, nell'atteggiamento di coprirsi con un drappo, sta ad indicare la Notte che fugge il sorgere dell'alba (51).

Scala nobile: statua di Dioniso

Scala nobile: statua di Dioniso

Tutta la composizione (52) si orienta verso semplificati canoni decorativi, nel definitivo superamento del sottoinsù e dell'illusionismo prospettico della tradizione tardo barocca, nello spirito di una favola mitica e con il richiamo agli schemi espressivi della più accademica tradizione decorativa.

Il significato e il nesso tra le raffigurazioni di queste sale sono poco chiare ma si potrebbe ipotizzare un sottile fil rouge che ricollega il progetto decorativo al tema dei Quattro Elementi e del Tempo, caratterizzato anche nella sua componente di luce che fuga la notte, verosimilmente desunti da testi letterari che si erano andati trasformando in semplici topoi iconografici, ormai scevri delle connotazioni scientifico-filosofiche presenti nella produzione figurativa dei secoli passati. L'iconografia è, comunque, sulla linea della tradizione seicentesca e si ricollega a quella delle decorazioni di moltissimi dei palazzi dal 1500 al 1700 e, soprattutto, delle gallerie di Palazzo Albani e di Palazzo Barberini, imperniate sul tema dei Quattro Elementi  e dell'Aurora (53).

"Sala delle allegorie": tempere

"Sala delle allegorie": tempere

Le componenti culturali e stilistiche dell'autore di questi affreschi evidenziano una formazione classicista mediata profondamente dalla produzione romana e napoletana della prima metà del XVIII secolo ma questo riferimento è tradotto dal nostro autore in modo incerto. L'ideale classico, inteso come solido archetipo seicentesco o come oggetto storico ed archeologico, non sembra compreso dal nostro nel quale sono assenti un certo nitore di volumi e un decoro formale che viene ricercato a scapito del colore, la cui pittura tradisce una conoscenza talora approssimata delle fonti del mito riecheggiate con una commistione di motivi che riprende e mescola favole e miti di diversa origine anche se di contenuto affine (54).

"Sala delle allegorie": tempere (particolari)

"Sala delle allegorie": tempere (particolari)

Il "pittore" di Palazzo Dèlfico (55) riesce tuttavia ad esprimere in alcune scene una certa perizia ed eleganza formale come nella rappresentazione del Tempo e della Verità dove le figure, avvolte da drappi di colore intenso nella gamma del rosso e del verde, appaiono rese da felici tocchi di colore, grumi cromatici che danno corposità e forte aggetto alle figure viste dal sottinsù.

Nonostante alcune incertezze stilistiche e compositive, la stesura cromatica usata dal decoratore risulta però piacevole e di un certo effetto; i colori liquidi e quasi evanescenti di alcuni episodi (in particolare nell'episodio del Trionfo di Galatea) suscitano altrettante trasognate sensazioni che accentuano il clima onirico e, al tempo stesso, di favola dei temi trattati. In altri il colore è così smagliante e carico da infondere a tutta la composizione maggiore vitalità e ritmo: si osservi ad esempio la brillante contrapposizione del verde, del rosso e dell'azzurro nell'episodio della Verità rapita dal Tempo.

Anche qui una discreta erudizione archeologica, come nelle statue che ornano lo scalone, contribuisce alla ricostruzione del passato mediante una minuziosa elaborazione di particolari, sia negli stucchi che nelle pitture, creando una delicata immagine di preziosismo classico a ricordare l'eleganza aristocratica di molte interpretazioni tardo-settecentesche dell'antico. Il lirismo e la dolcezza, dai leggiadri voli dei teneri putti alle teste e ai volti delle statue, sono dati da una serena bellezza e da una radiosità che è di matrice classica. Il vocabolario dell'autore delle pitture si basa per lo più sul disegno piuttosto che sul colore; egli raggiunge l'astrazione mediante colori pastello, anatomie appena accennate, gesti ed espressioni abbozzate, variazioni cromatiche di un effetto sottile, un calore di toni soffici, un garrulo confabulare di luci vibrate negli impasti leggeri; colori azzurri, rosa, gialli, verdolini raccolti sotto la prediletta stesura di un velo rosa che accarezza tutto. L'artista ha abbozzato figurine squisitamente decorative entro tondi e riquadri e questa divisione in precise porzioni di rettangoli, cerchi e quadrati gli permette di avvertire il valore dello spazio che non è enorme. Egli viene così a farsi padrone delle dimensioni che, una volta ridotte ai sensi della sua fantasia "limitata", permetteranno all'artista di concentrare sui singoli episodi l'inganno cordiale dei suoi motivi raccolti, realizzando dall'interno una profondità di impianti che a volte illude sulle reali proporzioni.

"Sala delle allegorie": tempere (particolari)

"Sala delle allegorie": tempere (particolari)

Fanno parte dell'apparato decorativo del palazzo delle sovrapporte con soggetto paesaggistico e con tema storico riferibili, sicuramente, a mano diversa e per i soggetti trattati e per la tecnica usata.

La sovrapporta con soggetto paesaggistico (56) mostra un paesaggio marino immerso in un'atmosfera lagunare, con la rappresentazione di barche ormeggiate ed una, in primo piano, che scivola rapida sull'acqua, manovrata da abili rematori mentre, sullo sfondo, si intravedono una città e la sagoma di una montagna.

Ad un avvenimento storico fanno invece riferimento le altre quattro sovrapporte. Si tratta, assai probabilmente, del racconto del miracolo della Madonna delle Grazie che salva la città di Teramo nel 1521 quando, con la sua improvvisa apparizione, disperde le truppe del duca di Atri, Andrea Matteo d'Acquaviva, venuto a conquistare la città stessa, da poco vendutagli da Carlo V (57).

Delle sovrapporte la prima (58) descrive l'accordo stipulato tra Carlo V, seduto su un trono regale e circondato dai suoi consiglieri, e Andrea Matteo d'Acquaviva.

Un personaggio della corte del Re, indicando con la spada una pergamena che giace a terra, è verosimile voglia mettere in evidenza l'atto di vendita della città di Teramo al Duca Andrea Matteo d'Acquaviva di Atri, il deuteragonista della scena, che è circondato da una folta schiera di suoi soldati; nella seconda è la scena dell'assedio alla città da parte degli uomini del Duca d'Atri i quali, al suono del trombettiere, rappresentato in primo piano sull'estrema destra, stanno per sferrare l'attacco, invano trattenuti da una schiera di donne imploranti; nella terza è l'infuriare della battaglia mentre un personaggio, verosimilmente delegato e figlio del Duca, il Marchese Giovanni Francesco, accanto al quale è un frate francescano che cerca di dissuaderlo, incita i soldati alla battaglia; al centro della scena, un personaggio su un enorme cavallo, sta per soccombere; nella quarta scena l'azione si sposta inquadrando due personaggi, uno maschile e l'altro femminile, in apparente contemplazione di un personaggio con una corta tunica e mantello svolazzante che apre le braccia in un gesto di compiaciuta sottolineatura del miracolo accaduto; in basso, lateralmente, il corpo morto di un soldato nelle braccia di un altro armato pare sottolineare la fine del combattimento e la pace che segue l'attacco.

La mano sembra essere la stessa per i quattro dipinti anche se in ognuno si rintraccia l'apporto di almeno un paio di esecutori, l'uno più rigoroso e puntuale, l'altro più ingenuo e sommario nella resa anatomica e nella gamma cromatica (59).

Valutando nel suo complesso, dunque, l'apparato decorativo di Palazzo Dèlfico ci si rende conto di essere di fronte ad un eclettismo che spazia dal classicismo seicentesco al rococò di una tarda maniera mentre tradizioni secolari e antiche iconografie vengono talora sacrificate, pur nel solco di una consolidata tradizione, alle esigenze della versione decorativa che non sembra avere un filo conduttore preciso anche in relazione alle troppe lacune della documentazione storica e degli addentellati per poter ricostruire un programma figurativo in senso cronologico, stilistico e topografico. Veli trasparenti e svolazzanti, memoria dei pittori bolognesi del Seicento e Settecento della Roma barocca, e del Settecento e Ottocento napoletano, amore del particolare, decorazioni e grottesche, trionfi allegorici, citazioni dirette o assonanze e riprese, specie nella riproposizione di statue antiche, amore dell'antico, facile esecuzione legata ad una abile manipolazione del disegno e del colore fanno sì che i decoratori dell'edificio sentano le volte e le pareti non tanto come superfici solide ma spazialità e profondità ipotetica, piano di proiezione ove le immagini e le statue, libere da preconcetti formali, risultano frutto di una fantasiosa abilità dell'esecutore.

Un eclettismo che appare assai improbabile non sia da ricondurre al committente e alla famiglia Delfico in quella preoccupazione mal celata, quasi ossessiva per il  mondo classico, in cui sculture antiche, imitazioni contemporanee a scopo decorativo, busti, decorazioni con stucchi di fogliame e festoni nella membranature dei pianerottoli, sulle sovrapporte, nelle decorazioni architetturali tradiscono qualcosa di più della curiosità e del rispetto per il mondo formale degli antichi e rimandano ad una solida, radicata, coerente cultura del passato invocata in nome dei diritti della fantasia.

"Sala del Trionfo di Venere": tempera (particolare)

"Sala del Trionfo di Venere": tempera (particolare)

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(1) Vedi G. Pannella, Guida illustrata di Teramo, Teramo 1888, p. 47

(2) In una lettera inviata da Melchiorre Delfico al suo amico Berardo Quartapelle del 23 marzo 1790 si legge: "La casa di nostra abitazione, essendo finita, sarà decorosa per ogni nobile abitatore" (cfr. Melchiorre Delfico, Opere Complete, Teramo 1904, vol. IV, pp. 9-10) e in una lettera autografa di Melchiorre Delfico a Michele Genovesi del 1824 "la nostra fabbrica comincia a far buona figura, ed io spero che alla fine dell'anno essendo finita la facciata, potrà meritare un vostro sguardo". Ma da quanto si desume da altre fonti bibliografiche (vedi L Savorini, Introduzione storico-artistica agli studi del Piano Regolatore della città di Teramo, in "Teramo", bollettino mensile, Teramo, anno III, 1934, p. 38) e da alcune annotazioni concernenti lavori eseguiti tra il 1820 e il 1851 tratte dall'Archivio Delfico e passatemi dalla dott.ssa Luciana D'Annunzio dell'Archivio di Stato di Teramo, che si coglie l'occasione per ringraziare per la sua cortese disponibilità, la costruzione del palazzo è definitivamente compiuta solo dopo il 1851.

(3) Cfr. F. Savini, Il Comune Teramano nella sua vita intima e pubblica dai più antichi tempi ai moderni, Roma 1895, pp. 429-430.

(4) L. Savorini, op. cit., p. 38.

(5) Vedi A. Scarselli, Il Palazzo, i Giardini e la Biblioteca della Famiglia Delfico alla Città di Teramo, sta in "Giornale d'Italia", marzo 1939, XVII, pp. 5-6.

(6) Di tendenze conservatrici o con aperture di moderato liberalismo, questo ceto dell'Italia negli anni a cavallo dell'Unità, dà forma soprattutto nelle dimore alla propria ricerca di identificazione sociale, in termini di rappresentatività estetica, tramite l'utilizzo di schemi decorativi anche superati ma tendenti a confrontarsi con la più vecchia aristocrazia seicentesca e settecentesca.

(7) Le immagini, in un contesto tanto lontano dalla nascita dei miti stessi, se si pongono alla nostra percettività in forma puramente illustrativa, lo fanno solo in apparenza giacchè, come scrive Marzaduri, "I miti, sono testi dell'attività semiotica dell'uomo che modellizzano la struttura sociale di una comunità e, nello stesso tempo, le forniscono i programmi, cioè l'informazione simbolica essenziale che deve guidare i comportamenti" (cfr. B.A. Uspenskij, Sul meccanismo semiotico della cultura in Semiotica e Cultura, Napoli 1975, p. 66).

(8) L'impianto architettonico doveva presentarsi con una differente spazialità grazie anche alla copertura originale che, secondo quanto si evince dal capitolato speciale di appalto negli anni 1952-54 della ditta Cingoli, incaricata della demolizione della volta dello scalone principale perché gravemente lesionata (vedi Archivio di Stato di Teramo d'ora in poi A.S.Te, Amministrazione Provinciale, Tit. III, Classe II, b. 104, fascc. 3 e 104 bis) culminava con una cupola (per la fotografie della volta originale cfr. A.S.Te, Atti della Direzione, b. 46, f. 2).

(9) Il legame passionale che Goethe confessava di avere con le sculture era comune alla stragrande maggioranza degli intellettuali della fine del '700: "Circondati di statue ci sentiamo di vivere in mezzo ad una natura animata…" cfr. J.W. Goethe, Viaggio in Italia, Firenze 1948, III, p. 229 ss.

(10) La statua si ispira ad un tipo di Dioniso giovane creato nella cerchia prassitelica del IV sec. A. C. (vedi a tal proposito A. Nava Cellini, La scultura italiana del 1600, Torino 1982).

(11) Cfr. Le statue di Dioniso a Villa Doria Pamphilj in Aa. VV., Antichità di Villa Doria Pamphilj, Roma 1977, nn. 42,43,45,46 e la creazione seicentesca eseguita come péndant di un altro Dioniso antico, conservato nel Museo Ludovisi di Roma in Il Museo Nazionale Romano, Roma 1981, vol.I / 5, p. 69, n. 27 e in C. L. Visconti, Il Museo Ludovisi, Roma 1981, n. 22.

(12) Cfr. R. Paribeni, Le Terme di Diocleziano e il Museo Nazionale Romano, Roma 1932, p. 264 e Il Museo Nazionale Romano, Roma 1981, Le sculture, Vol. I / 2, n. 31.

(13) Si tratta di Glykon, l'unico serpente della ricchissima tradizione figurata del mondo greco-romano con aspetto ibrido di monstrum nel senso classico della parola, cioè un immenso corpo serpentino e una testa quasi umana. Ebbe area di massima diffusione nelle contrade poetiche dalle quali si irradiò per il resto del mondo antico. Cfr. Il Museo Archeologico di Costanza in "Colloqui del sodalizio", Roma, n. 2, 1972, tav. VIII. fig. n. 6.

(14) Nella plastica greca il tipo dell'Apollo citaredo ha una lunga tradizione, essendo stato ideato nelle sue lunghe vesti e con cetra e plettro tra la seconda metà e l'ultimo scorcio del V sec. A. C. per i confronti vedi R. Paribeni, op. cit., Roma 1932, n. 538; O. Deibner, Hellenistische Apollogestalten, Athen, 1934, p. 73: G. Lippold, Handbuch der Archeologie, III, 1 – G.Lippold, Die griechische Statuen, Munchen 1923, p. 311; W. H. Helbig, Fuhrerdurch offentlichen Sammlungen klassischer Alterthumer in Rom, I – IV, Tubingen 1963; S. Aurigemma, Le Terme di Diocleziano e il Museo Nazionale Romano, Roma 1963, n. 470; Il Museo Nazionale Romano, Roma  1981, Le sculture, Vol. I / 2, n. 45, p. 342.

(15) Cfr. Il Museo Nazionale Romano, Roma 1983, Vol. I / 6, n. VII, 32, p. 187; n. VIII, p. 324.

(16) Circa l'origine dell'iconografia fra le posizioni della critica si è oscillato tra la ricerca di prototipi dell'arte greca del IV secolo a. C., con particolare insistenza sui modelli policletei, e l'origine in età romana.  Per la bibliografia cfr. E. Braun in "Archaeologische Zeitung", 1848, disegno p. 87; E. Brunn in "Bull. Inst." 1848, p. 58; J. Overbeck, Griechische Kunstmythologie, II 1, Leipzig 1871, p. 141 ss., n. 43; R. Paribeni, op. cit., n. 425; Il Museo Nazionale Romano, Roma 1981, Le sculture, Vol. I / 2, n. 45, n. 39.

(17) Assai simile alla versione dei Musei Capitolini, l'opera godette di una indiscussa fortuna lungo tutto il XVIII secolo. Soprattutto nel XIX secolo se ne ricavarono innumerevoli calchi secondari, derivati a loro volta da altre copie, che decorarono giardini e dimore d'Europa. Per i confronti vedi C. Blinkberg, Knidia. Beitrage zur Kenntn der praxitelischen Aphrodite, Kopenhagen 1933, p. 144, I, 7, tavv. VI-VII; R. Paribeni, op. cit., n. 451; G. E. Rizzo, Prassitele, Roma-Milano 1932, p. 50, tav. LXXVI, Ch. Picard, Manuel d'archéologie grecque – La sculture, I-V, Paris 1935; S. Aurigemma, op. cit., Roma 1970, n. 464.

(18) Potrebbe trattarsi della rappresentazione di un Omero, simbolo della poesia, che rientra, come afferma giustamente il Courajod (L. Courajod, L'imitation et la contréfaction des objects d'art antiques au XV et XVI siècle, Paris 1889) in quella moda ampiamente diffusa, a partire dal XVI secolo, di collezionare teste di imperatori romani, di personaggi illustri o di teste ideali di poeti e filosofi o di commissionarne per adornare palazzi e ville.

(19) Cfr. con il cd. Omero conservato nella Galleria degli Uffizi a Firenze, (E. Berti Toesca, Il cosiddetto Omero degli Uffizi, in "Bollettino d'Arte", 1953, pp. 307-309, fig. 1-2); la copia nella Galleria Estense a Modena, (E. Berti Toesca, op. cit., fig. 4); la copia conservata a Roma, nel Museo Capitolino, (E. Berti Toesca, op. cit., fig. 3).

(20) Dio indigeno molto venerato dai popoli italici principalmente come protettore di tutte le attività guerresche.

(21) Cfr. Andrén, Architectural Terracottas from Etrusco-Italic Temples, in Acta Inst. Suec., VI, 1940, p. 350 ss., fig. 34, tav. 112. A 4; I. Scott Ryberg, Rites of  the State Religion in Roman Art, in Memoirs of the American Academy, XXII, 1955, p. 22 s., tav. VI, fig. 14; G. Lugli, Roma antica. Il centro monumentale, Roma 1946, pp. 32, 266 s.; Fontes ad Topographiam veteris urbis Romae pertinentes, I, Roma 1952, p. 48, nn. 1-2; H. Mattingly – E. Espérandieu, Recueil général des Bas-réliefs, Statues et Bustes de la Gaule romaine, 7200; G. M. A. Richter, Ancient Italy, 1955, p. 100, fig. 286; p. 100, fig. 285; E. Espérandieu, La scultura romana da Augusto a Costantino, I, Firenze 1923, p. 80 ss., figg. 53-54; H. S. Jones, The Sculptures of the Museo Capitolino, Oxford 1912, p. 39 s., n. 40, tav. 7; E. Espérandieu, op. cit., 7753, 1323, 1832, 3042, 3665, 7039. Vedi pure il bassorilievo con Marte seduto ma molto simile nella resa iconografica della testa e dell'armatura nella sala XIX di Elena e Paride a Villa Borghese in E. Debenedetti, P.A. Paris e la collezione di antichità della Villa Borghese detta Pinciana in Collezionismo e ideologia, Roma 1991, fig. 7.

(22) Gli elementi paesaggistici che fanno da sfondo, e che emergono qua e là nel rilievo, servono a suggerire l'ambiente idillico pastorale così come gli alberi stanno a simboleggiare il Monte Ida in cui, secondo la leggenda, viveva Paride con la compagna Oenone.

(23) Con probabile riferimento al "laurus delphicus" dello stemma di casa Delfico.

(24) Cfr. i rilievi provenienti da Palazzo Spada in P. Zancher, Klassizistische Statuen, Mainz 1974, p. 1888, p. 1889 e p. 1890; vedi lo stesso tema riproposto nelle lastre della Collezione Medici in C. Robert, Die antiken Sarkophagreliefs, I-III Mythologische Zyklen, Berlin 1890 II, p. 13 s, n. 11 tav. V e a Villa Pamphilj (C. Robert, op. cit., p. 11 ss., n. 10, tav. IV) e il rilievo di Palazzo Spada, venuto alla luce negli anni 1620 durante I lavori della Chiesa di S. Agnese in Via Nomentana (cfr. B. Palma, I marmi Ludovisi, Roma 1983, p. 29).

(25) Cfr. E. Paribeni – L. Salerno, Il Palazzo Rondinini, Roma 1964, p. 212; cfr. la statua conservata nella Galleria Borghese in P. Moreno – C. Stefani, Galleria Borghese, Roma 2000, p. 173, fig. 3; cfr. anche statuetta di Attis in marmo frigio citata dal Montelatici nel 1700 quale pastore, forse Paride, utilizzata frequentemente come decorazione di trapezofori e quale simbolo funerario nei sarcofagi (P. Moreno – A. Vacava, I marmi antichi della Galleria Borghese, Roma 2003, fig. 234).

(26) Divinità italica assimilata all'Atena greca, la vergine figlia di Zeus, dea delle armi; in origine, con tutta probabilità, non faceva parte delle divinità indigeti.

(27) Per quanto riguarda l'iconografia, la Minerva italica e romana in nulla si distingue dall'Atena greca e ciò si può notare anche nelle più antiche rappresentazioni che ne abbiamo, risalenti alla fine del VI sec., come la testina proveniente dalla stipe del Capitolium di Signia o il gruppo in terracotta rappresentante la triade capitolina dal tempio della Mater Matuta di Satrico. Cfr. R. Delbruck, Das Capitolium von Signia, Roma 1903, p. 3, tav. VI; A. Della Seta, Il Museo di Villa Giulia, Roma 1918, pp. 161, 276; P. H. von Blanchenhagen, Flavische Architektur und ihre Dekoration, Unthersucht am Nervaforum, Berlino 1940, tavv. XXXVIII-XLII; F. Castagnoli in "Archeologia Classica", 1961, tav. XXXV, 3; F. Magi, I rilievi Flavi del Palazzo della Cancelleria, Roma 1945, tavv. I, II, VI, XI.

(28) Risale ad un originale lisippeo con numerose repliche e varianti: cfr. R. S. Reinach, Répertoire de la statuaire grecque et romaine, V, 1, p. 84 n. 1; G. Cultrera in Memoria dei Lincei, s. V, XIV, 1910, p. 179 ss., tavv. I-IV; F. S. Johnson, Lysippo, Durham 1927, p. 206 ss.; Il Museo Nazionale Romano, Roma 1983, Vol. I / 5, p. 89 n. 37 e Scultura antica in Palazzo Altemps, Electa 2002, p. 147.

(29) L'archetipo ispiratore è una pittura ellenistica. Per i confronti vedi R. Paribeni in "Notizie e Scavi", 1926, p. 279 ss., tav. 5 a; R. Paribeni, op. cit., Roma 1932, n. 540; W. H. Helbig, op. cit., n. 2119; S. Aurigemma, op. cit., n. 470; Il Palazzo dell'Accademia Filarmonica di Torino, Torino 1838, p. 83; T. Fittipaldi, Scultura napoletana del ‘700, Napoli 1986, tav. I.

(30) Per spiegare la grande forza di Ercole si ricorse al mito del leone che l'eroe dovette affrontare, per ordine di Euristeo, in una lotta che gli consentì di penetrare nel corpo stesso dell'animale e di impadronirsi, con la sua pelle, della sua indomabile forza.

(31) Il tema è molto diffuso come repertorio decorativo sin dalla prima metà del XVIII sec. Ma sin dalla metà del XVII sec. si hanno esempi di tale soggetto in terracotta (cfr. L'ésprit créateur de Pialle a Canova. Terres cuites européennes 1740-1840, Paris 2003, p. 176).

(32) I Romani la identificarono con Cerere, dea della vegetazione dei campi e dell'agricoltura la cui figlia Persefone, fu rapita da Plutone, re dell'Ade, e costretta a soggiornare durante l'inverno, nonostante l'intercessione della madre presso Giove, con il suo sposo.

(33) Cfr. D. Philios, in "Mitteilungen des Deutschen Archaologischen Instituts. Atenische Abteikung.", XX, 1896, p. 225 ss.; "Bulletin de Correspondance Hellénique", LXX, 146, p. 403 ss.; G. E. Beau, in Ill. London News, 1953, p. 747 ss.; M. Bord, Studies D. M. Robinson, S. Louis 1953, vol.I, p. 765 ss.

(34) Cfr. R. De Chirico-Calza in Arti Figurative, 1945, p. 69 ss. tavv. XXVI-XXVIII; H. P. L'Orange, The portrait of Plotinus, in "Les Cahiers Archéologiques", 1951, p. 15 ss.; R. Calza, Museo Ostiense, in Itinerari e Monumenti, Roma 1947, p. 15.

(35) Collocare i reperti nel cortile o lungo la scalinata documentava il prestigio della famiglia mentre la disposizione in uno spazio di rappresentanza rispondeva ad esigenze di autocelebrazione significata in termini simbolici attraverso la mitologia. Vedi a tal proposito C. Franzoni, "Rimembranze di infinite cose". Le collezioni rinascimentali di antichità in Memoria dell'antico nell'arte italiana, vol. I, L'Uso dei classici, a cura di S. Settis, Torino 1984, pp. 301-360.

(36) Chi siano il plasticatore e lo scultore, autori dell'intero apparato decorativo dello scalone, non è dato sapere giacchè nessun elemento è emerso da un'analisi dei documenti del Fondo Delfico circa gli artisti incaricati dei lavori di decorazione del palazzo. E' comunque probabile che appaiono di ano più abile e raffinata mentre, nelle statue e nei busti, il riecheggiamento di stilemi classici, a volte con una sorta di approssimazione nei particolari, lascia presumere che si tratti di un decoratore che conosceva iconografie antiche ma contaminate da riecheggiamenti e interpretazioni personali interpolate, talora, in maniera persino goffa. E, tuttavia, se si fa riferimento al panorama artistico dell'epoca e agli scultori e decoratori cui furono commissionati interventi in altri palazzi della città nello stesso periodo, non paiono essere infondati i riferimenti, almeno per gli stucchi, a personaggi come Domenico Moschioni che, nel 1837-38, lavora al restauro del Teatro Corradi vedi articolo di Luciana D'Annunzio, Il Teatro Corradi, in "Notizie dalla Delfico", A. XVII, 1-3, pp. 15-43.

(37) Le decorazioni a soggetto mitologico nei palazzi di città trovano solitamente una loro collocazione in luoghi di uso privato, rispondendo essenzialmente alla funzione di quegli ambienti, come le camere da letto, "gli studioli", le "stufette" e occupando per lo più gli spazi marginali dei fregi, oppure i riquadri nelle volte e nei soffitti.

(38) Accanto alle diffusissime tematiche amorose, particolarmente utilizzati sono i miti legati alla interpretazione "naturalistica" che dei miti classici dettero i mitografi cinquecenteschi, da Lilio Gregorio Girali, a natale Conti, a Vincenzo Cartari, che pubblicarono i loro trattati intorno alla metà del Cinquecento. (Sulla storia e la funzione di questi trattati vedi J. Seznec, La sopravvivenza degli antichi dei, Torino 1981, pp. 267-389)mentre un'ampia descrizione di soggetti mitologici, adatti alla decorazione dei palazzi, si trova nel trattato di Antonio Averlino, detto il Filarete, (trattato di Architettura, l. IX, ed. a cura di M. Finoli, Milano, 1974).

(39) La pittura a tempera era comunemente adottata perché consentiva di lavorare su intonaco già "riposato", ovvero completamente asciutto. A differenza dell'impasto usato nella base per l'affresco, la granulosità dell'intonaco, ottimale per la tecnica a tempera, era carente di polvere di marmo per ottenere una superficie meno levigata e più assorbente.

(40) Si tratta di copie perfette dei quattro tondi relativi ai Quattro Elementi, opere del pittore Francesco Albani (Bologna, 1578-1860), segnalatimi molto cortesemente dal dr. Fausto Eugeni avendone rintracciato le foto e relative didascalie nel Fondo Rosati anche se non è ipotizzabile nessun collegamento con i cartoni di chi dipinse le stanze di Palazzo Dèlfico. Tali tondi, commissionati dal Cardinale Maurizio di Savoia, eseguiti tra il 1625 e il 1628 e pervenuti a Torino nel 1633, furono in un primo tempo consegnati temporaneamente a Cristina di Francia e, dal 1692, donati dalla vedova di Maurizio di Savoia a Vittorio Amedeo II di Savoia, a decorare la Camera a dormire della Regina, al I piano del Palazzo Reale a Torino. La stessa stanza fu affrescata nella volta con la scena di Diana che scende verso Endimione dormiente e Allegorie del Giorno e della Notte, dal pittore, austriaco di nascita ma veneto-romano di educazione artistica, Daniele Seyter (cfr. A. Griseri, The Palazzo Reale at Turin, in  "The Connoisseur", Londra, novembre 1957). I dipinti inviati in Francia durante la prima spedizione napoleonica, furono riportati in Italia dopo il 1814, presso la Galleria Sabauda di Torino, dove sono tuttora conservati. Per i confronti sul tema dei Quattro Elementi vedi anche la Sala con Elementi nel Palazzo Colcos Boncompagni a Roma nella quale il soffitto è ripartito in quattro riquadri con le divinità Cibele-Terra, Giove-Fuoco, Nettuno-Acqua e Giunone-Aria (cfr. in Eliana Ettaro- Laura Gigli, Palazzo Boncompagni Colcos a Monte Giordano, Roma 2003, figg. 110-111) o nel Palazzo Reale di Torino la Sala di Parata di Madama Felicita dello stesso Seyter (Il Palazzo Reale di Torino, Milano 1959, tavv. II-VI).

(41) Per le fonti documentarie e gli apporti specifici relativi al quadro vedi N. Gabrielli, s.v. Albani Francesco, La Galleria Sabauda. Maestri italiani, Torino 1971, p. 49.

(42) Per le fonti documentarie sul dipinto cfr. AA. VV., L'ideale classico del Seicento in Italia e la pittura di paesaggio, catalogo della mostra, Bologna 1962, pp. 131, 139, 140; AA. VV., Mostra del barocco piemontese – Pittura, catalogo a cura di V. Viale, Torino 1963, pp. 53-56; N. Gabrielli, op. cit., p. 50. Il tema della Terra connesso a quello delle Quattro Stagioni è strettamente correlato alla tradizione astrologica degli influssi celesti sul mondo sublunare. Nell'iconografia medievale e rinascimentale vengono rappresentati o associati ai mestieri agricoli: la semina, la fienagione o la mietitura, il raccolto, la caccia. Per i confronti vedi le rappresentazioni dell'Autunno e dell'Inverno nella Galleria di Palazzo del Drago, già Albani, in G. Delfini, Committenza Albani: Il Palazzo alle Quattro Fontane in Ville e palazzi. Illusione scenica e miti archeologici, Roma 1987, fig. 18; quella affrescata nel Gabinetto delle Stagioni e nell'Alcova nell'appartamento Corsini-Barberini (G. Borghini, Nota preliminare sull'appartamento Corsini-Barberini, in Palazzo Corsini alla Lungara, in Ville e palazzi, op. cit., pp. 213-240, figg. 28, 29, 41, 42, 43); cfr. anche il sarcofago con tiaso marino e coperchio con stagioni conservato nella Galleria Borghese, in P. Moreno – C. Stefani, Galleria Borghese, Roma 2000, fig. 13. Per i confronti relativi alla rappresentazione dell'Autunno vedi gli arazzi di F. Behagle conservati nella Sala degli Ambasciatori della Reggia di Caserta in F. De Filippis, op. cit., tav. XXXVIII; la Loggia di Villa Sacchetti a Castelfusano dipinta da Pietro da Cortona in L. H. Zipold, Pietro da Cortona's frescoes in the Villa Sacchetti in Castelfusano, Ph. D, Ruttgers University, 1994, fig. 21.

(43) Per questo tipo di scene è certa la derivazione da prototipi classici, rappresentati da numerosi bassorilievi con cortei marini, con Ninfe e divinità dell'acqua. (cfr. l'affresco della Sala delle Stagioni, nella Reggia di Caserta in F. De Filippis, op. cit., tav. LV; quello a Palazzo Corsini, nella Sala dei Periodici Italiani in E. Borsellino, op. cit., fig. 30; il dipinto conservato nel Castello di Pommersfelden in N. Spinosa, Pittura napoletana del ‘700, Napoli 1988, vol. I, p. 256, fig. 143; quello a palazzo Altieri, attribuito ad Andrea sacchi in A. Sutherland Harris, Andrea Sacchi, Princeton 1977, p. 49, n. 1).

(44) Cfr. la decorazione di Palazzo Schifanoia a Ferrara ad opera di Ercole de' Roberti, nella villa medicea dell'Ospedaletto, presso Volterra del Ghirlandaio, a Palazzo Vecchio a Firenze, ad opera del Vasari, col dipinto di Iacopo e Francesco Bassano, nella Galleria Sabauda (vedi N. Gabrielli, op. cit., pp. 64-65). La fortuna di questo soggetto, la cui diffusione è documentata in aree culturalmente e geograficamente distanti, è da riconnettere ai significati che gli si conferivano soprattutto in riferimento alla preparazione delle armi della guerra e quindi alla capacità bellica della famiglia.

(45) Raffigurazioni del tema dei Quattro Elementi viene ripetuto, con varianti iconografiche altre tre volte dall'Albani: per la vigna del principe Borghese, a Roma, per il duca Fernando Gonzaga a Mantova e per il conte di Caronge. Il successo di queste composizioni nella prima metà del XVII sec. è da attribuire ad un particolare interesse nell'ambiente romano rivolto alla ripresa del naturalismo classicheggiante, soprattutto dalla scuola dei Bolognesi allievi dei Carracci, operanti a Roma tra l'inizio del 1600  e il 1630.

"Sala del Trionfo di Venere": tempera (particolare)

"Sala del Trionfo di Venere": tempera (particolare)

Tali temi si trovano non di rado anche nel repertorio figurativo degli edifici profani durante il Cinquecento (i precedenti più illustri alle scene dell'Albani sono infatti reperibili in aree culturali differenti: Paolo Veronese ce ne fornisce un esempio a Villa Barbaro a Maser per l'ambiente veneto, Vasari a Palazzo Vecchio per la situazione fiorentina e Correggio nella camera di San Paolo a Parma per quella emiliana). In questi affreschi a tematiche analoghe fa riscontro un'interpretazione che assume come dato costante la raffigurazione di divinità o scene mitologiche corrispondenti ai significati che si vogliono esprimere. Varia invece la specifica soluzione iconografica prescelta come la lettura che ne fornisce il singolo artista: mentre il Fuoco per esempio, viene spesso illustrato attraverso la raffigurazione di Vulcano, Correggio a Parma, in un complesso figurativo di non facile interpretazione, sostituisce alla consueta figura del fabbro divino Vesta, una divinità tratta dall'antica mitologia romana. Nello stesso modo, per esprimere l'Acqua si poteva ricorrere tanto alla figurazione di Nettuno quanto a quella di venere: infatti i trattati sull'iconografia concedevano all'artista una serie di possibilità, fermo restando il riferimento d'obbligo alla mitologia antica.

(46) Iconografie analoghe si ritrovano in molti palazzi e ville decorate durante i primi decenni del secolo XVI soprattutto da pittori più vicini alla cerchia carraccesca. Generalmente richiesti sono i dipinti raffiguranti scene tratte da testi letterari del mondo classico, dalla mitologia e dalla storia antica in accordo con il gusto per l'antichità.

(47) Una differente versione è legata al mito di Borea, re dei venti nordici che, passando per Atene, si innamora di Orizia, figlia del re Eretteo e, non sperando di averla, la rapisce sollevandola in volo e si dirige verso la Tracia dove avrà da lei quattro figli: Borea si dice anche figlio dell'Aurora.

(48) Da un punto di vista simbolico la scena "significa" il principio cosmico che rappresenta l'immutabilità e l'universalità degli eventi. Vedi il dipinto di Nicolas Poussin, conservato al Louvre nel quale il Tempo rapisce la Verità, rappresentato come fanciulla nuda e indifesa, affiancata da un putto che regge la falce e il serpente che si morde la coda, attributi del Tempo, mentre l'Invidia si riconosce per il pugnale e il tizzone ardente e la Discordia per il pomo e il capo anguicrinito. (Simboli e allegorie, Milano 2003, p. 23). Cfr. anche la scena attribuita a Giovanni Domenico Piestrini nel palazzo Onorati di Jesi (M. Esuperanzi, Un profilo di Giovanni Domenico Piestrini, in Ville e palazzi, op. cit., fig. 19; B. Pinelli, Mitologia illustrata, Roma 1897, pp. 237-238) e la scena realizzata a Palazzo Reale, a Torino, nella Sala di Parata di Madama Felicita, da Daniele Seyter (Il Palazzo Reale di Torino, op. cit., tav. IV) in cui però, nonostante i personaggi rappresentati siano iconograficamente identici a questi, il riferimento è al mito dell'Aria.

(49) Si tratta dei personaggi della Morte e dell'Invidia rappresentati secondo le indicazioni del Ripa. Cfr. per la rappresentazione della Morte, C. Ripa, Iconologia a cura di P. Buscaroli, Torino 1986, vol. I, p. 226; per la rappresentazione dell'Invidia, C. Ripa, op. cit., vol. II pp. 67-68. Per la presenza dei due personaggi legati al Tempo vedi la nota precedente.

(50) L'Aurora precede la piena manifestazione della luce diurna, personificata dal fratello Sole e simboleggia la speranza e ogni potenzialità. Il tema dell'Aurora è assai diffuso nelle decorazioni di interni di ville e palazzi tra Sei Sette e Ottocento. Tale tipologia decorativa si affermerà all'inizio del Seicento, a partire dalla decorazione di Palazzo Farnese di Caprarola dipinta da Taddeo Zuccai (vedi G. Bazin, Le mythe d'Eos, in "Gazette des Beaux Arts", 1988, fig2 e grazie, soprattutto, all'affresco di Guido Reni eseguito, nel 1614, per Scipione Borghese nel Casino Rospigliosi-Pallavicini (D. S. Pepper, Guido Reni. A complete catalogne of his works, Oxford 1984, p. 290) e alla decorazione con lo stesso soggetto riproposto nel Casino Ludovisi dal Guercino nel 1621 (vedi L. Salerno, I dipinti del Guercino, Roma 1988, pp. 161-166 e D. M. Stone, Guercino, Firenze 1991, pp. 99-100, fig. 78). Essa ritorna in numerosissimi palazzi come a palazzo Corsini, nella sala dei Periodici, (cfr. E. Borsellino, Le decorazioni settecentesche di palazzo Corsini alla Lungara, in Ville e palazzi, op. cit., pp. 181-212); nel soffitto dell'Alcova dell'appartamento Corsini-Barberini (E. Borsellino, op. cit., fig. 51); nella camera d'alcova della Regina Maria Amalia nella Reggia di Napoli, dipinto da Francesco De Mura (cfr. M. De Benedetti, Palazzi e Ville Reali d'Italia, Firenze 1913, col. II, p. 54); a Ca' Pesaro, a Venezia, nella 7.a sala del Piano Nobile (N. Ivanoff, Angelo Trevisani, in "Bollettino d'Arte", 1953, pp. 57-60); nel Castello di Pommersfelden (N. Spinosa, op. cit., vol. I, p. 255, fig. 142). Lo stesso tema ricorre in una serie di palazzi citati da B. Accolti (B. Accolti, Soffitti della fantasia, Roma 1979): Palazzo Romanizzi-Carducci di Putignano (fig. 37); Palazzo Delli Paoli a Maddaloni (fig. 37); Casa Foglia a Marcianise (fig. 39).

(51) Il passaggio dalla notte al giorno attraverso l'Aurora indica il correre ineluttabile del tempo, rappresentato dal bellissimo Titone, fratello di Priamo di cui si innamora Eos che ne ottiene l'immortalità ma non la giovinezza eterna.

(52) Sull'analisi iconografica e iconologia del tema cfr. gli studi di E. Schroeter, Die Villa Albani als Imago mundi. Das unbekannte fresken und Antiken programmi m Piano Nobile der Villa Albani zu Rom, in AA. VV., Forschungen zur Villa Albani. Antike Kunst und die Epoche der Aufklarung, Berlin 1982, pp. 187-299 e G. Bazin, op. cit., pp. 9-18.

(53) Il soffitto della stanza si presenta, nella scelta dei temi allegorici, come la celebrazione del trascorrere del tempo, nell'avvicendarsi delle stagioni e dei riti, nonché delle attività ad essi collegati.

(54) Il décor di gusto antichizzante della Roma e della Napoli, degli anni a cavallo tra la prima e la seconda metà dell'800, si volge verso un vocabolario formale di deduzione antiquaria che attinge più facilmente all'antico, miscelato da Raffaello, e alle scoperte ercolanensi e naturalmente ad un repertorio locale fatto di collezioni di gemme o pietre dure, raccolte di marmo o sofisticati oggetti di scavo. Isolata in un reame rarefatto di godimento estetico e di erudizione archeologica, questa visione della Grecia e di Roma, caratteristica della metà dell'800, perde completamente il contatto con le realtà politiche e sociali contemporanee che avevano dato vigore all'immagine dell'antichità ai tempi della rivoluzione e dell'impero.

(55) Stando all'assoluta penuria di documenti sulla committenza e sugli interventi effettuati nel palazzo, nel quale i lavori proseguono senza grande soluzione di continuità dal 1790 al 1851, il complesso decorativo rimane forzatamente anonimo. Esso è dovuto, come in altri casi a quei geniali quanto modesti artefici che, nel corso dell'800, lavorarono nei palazzi e nelle chiese teramane e nelle ville dei dintorni, alcuni dei quali, scultori, intagliatori, stuccatori, provenivano anche da Roma o da Napoli, maestri d'arte che lavorando qua e là, dove gli imprenditori o i committenti li chiamavano, non lasciavano traccia del proprio nome nemmeno nei contratti. Anche in relazione all'unico documento rinvenuto, relativo al contratto per interventi di pittura, firmato da Gregorio De Filippis Delfico con Domenico Brizzi il 12 maggio 1836 (cfr. Note di spese per accomodi etc…, 1836, A.S.Te., Archivio Delfico, b. 22, f. 321/a) e che sono precedenti rispetto a quelli delle pitture oggi visibili e in relazione a quanto afferma il Comanducci nella sua opera, (cfr. M. Comanducci, I pittori italiani dell'800. Dizionario critico e documentario, Milano 1934) che individua in Berardino De Filippis Delfico il pittore di molte sale del Palazzo Dèlfico e in Troiano De Filippis Delfico il pittore di scene di paesaggio dello stesso Palazzo, si può ipotizzare che a essi si devono gli interventi pittorici nelle due sale sotto l'occhio vigile dello stesso Pasquale Della Monica che, anche se non fu il maestro di disegno di cui c'è menzione nei conti della famiglia Delfico fu certamente insegnante di Berardino e Troiano Delfico. E in effetti le scene dei Quattro Elementi mostrano una qualche abilità pittorica, pur se concepite tutte nei piani ravvicinati, con un ritmo ordinato da bassorilievo classico, e appaiono essere copie fedelissime dei tondi dell'Albani. Decisamente di maggior pregio il dipinto centrale con il tema del Tempo che rapisce la Giovinezza per la sua corposità cromatica, tutta grumi di colore, specie nella resa delle tuniche che lasciano intravedere la concretezza anatomica dei corpi, immersi nell'aria e dei quali si avverte il pondus materico e il virtuosismo della resa in scorcio, sicchè sembra nata dalla fantasia creativa di un pittore assai avvezzo all'uso di colori e all'utilizzo di variati impasti cromatici. Probabilmente dello stesso pittore dei Quattro Elementi la scena dell'Aurora, più rarefatta per la gamma cromatica e più accademica concepita tutta nei piani ravvicinati, con un forte richiamo a canoni decorativi di matrice accademica.

(56) Richiama da vicino i soggetti dei fogli colorati à la gouache con le immagini di Napoli e dei dintorni, realizzate tra Sette e Ottocento, sorta di piccole scene teatrali, quinte sviluppate in orizzontale, a rappresentare uno spazio plasmato, nel ricordo degli spazi visti, dalla fantasia creatrice del decoratore che si riappropria degli elementi paesistici e dei valori monumentali quali presa di coscienza di un ambiente all'interno di un edificio. A tal proposito cfr. C'era una volta Napoli, Electa 2002, figg. 42-43-47.

(57) Cfr. N. Palma, Storia della città di Teramo, Teramo 1832, p. 225-226 il quale riportando l'episodio cita il racconto che ne fa M. de' Mutij (Mutio de' Mutij, Della storia di Teramo. Dialoghi sette con note ed aggiunte di G. Pannella, Teramo 1893, pp. 248-56): i soldati "videro sopra le mura della città una donna risplendente, vestita di bianco, ed un uomo a cavallo, vestito di rosso…" e terrorizzati, si diedero alla fuga lasciando l'assedio della città di Teramo.

(58) L'ordine delle sovrapporte, in mancanza di dati oggettivi che consentano di ricostruirne la sequenza, è stato individuato tenendo conto dello sviluppo della storia e del succedersi dei momenti, dall'atto di vendita della città di Teramo al Duca Andrea Matteo Acquaviva di Atri, all'assedio, alla battaglia, sino all'apparizione finale.

(59) Anche in questo caso siamo nel campo delle ipotesi. Il riferimento ad un episodio tanto antico e in evidente contrasto con il programma figurativo dell'intero palazzo, seppur forse parziale rispetto all'originale, fa presumere che si tratti di mano diversa da quella che ha eseguito le altre pitture. Non pare attribuibile a quel Tullj che viene incaricato nel 1836 di intervenire nella "Camera di Compagnia" dandogli "una tinta a color torchino, in mezzo alla lamia un ornato ai quattro lati da vasi di fiori a chiaroscuro…sopra al zoccolo un freggio colorito"; nell' "Antecamera, …una grillanta di fiori in mezzo alla lamia…"; nella "Camera da Manciarein mezzo alla lamia un ornato, cornicione zoccolo e sopra al zoccolo un fregio"; nella "Galleria…idem" e che dipinge negli stessi anni le sovrapporte del Piano Nobile del Palazzo dell'Intendenza con temi di fantasia ma piuttosto, sulla base dell'ipotesi fatta, anche qui a due mani, l'una più abile ed esperta nella resa dei cavalieri e dei quadrupedi pronti a sostenere l'attacco, l'altra che dipinge donne e personaggi goffi simili a bambocci privi di vita.