In un frammento di lettera non datato a un amico in Napoli, da parte di
un cittadino della Repubblica di San Marino, ma certamente riferibile
"ante" il 1806, l'autore - Melchiorre Delfico - apprendeva
con piacere che "Il Re stava concedendo una Costituzione… e abituato
alle idee di ordine pubblico, il mio spirito, si consola da vedere, come
si andrà tranquillamente a stabilire, in un Paese dove una successione
di contrarie vicende l'aveva tenuta sempre in avversione" con
l'aggiungere, tra l'altro, "In Europa si vanno proclamando ed istituendo
delle forme politiche le quali sembrano più formate per imitazione che
per ragionamento". Queste considerazioni di Melchiorre Delfico sono
molto interessanti per capire e ancora studiare tutto un periodo
importante della storia teramana e abruzzese, e in particolare quel
movimento culturale e politico che contraddistinse e segnò Teramo tra
‘700 e ‘800 e che egli, più di tutti, riassunse, con la sua vita e le
sue diverse esperienze, attraverso i vari e molteplici momenti della
cosiddetta "Rinascenza teramana". E' fuori di dubbio – anche se
l'argomento va approfondito ulteriormente – che la riflessione svolta da
Delfico a San Marino sui "atti di Francia" e non soltanto su essi ma sul
complessivo impegno riformatore come su quello di una intera generazione
e di un mondo, fu una pausa salutare e necessaria. A San Marino e nelle
produzioni letterarie sammarinesi il Teramano maturò e sviluppò una
rinnovata concezione della Storia e dell'impegno politico che con
coerenza e determinazione portò avanti negli anni seguenti, col Decennio
francese, la Rivoluzione del 1820 e la successiva Restaurazione.
Fare i conti e fino in fondo con il passato e le speranze francesi,
giacobine e prima ancora borboniche per Delfico significava – come
scriveva nei suoi appunti conservati insieme alla corrispondenza presso
la Biblioteca provinciale e l'Archivio di Stato di Teramo, infine, nella
Biblioteca governativa di San Marino – "Non autorizzarci all'imitazione
coll'esempio di illustri nazioni…gli esempi non furono mai equivalenti
alla ragione" e "Se la ragione Pubblica o i Principi della politica si
liberassero dal gioco delle vecchie teorie per le quali si determinarono
e si ritennero tali idee che furono d'inciampo alla ragione ed ai suoi
progressi, niente si potrebbe vedere di più semplice che qual forma di
governo più convenga all'Umanità".
In definitiva ritornava il problema Costituzionale e dello Stato come
assi e strumenti di democrazia e di corretto rapporto tra i poteri
diversi in quanto garantivano soprattutto quella sicurezza reale e
personale che equivaleva – per Delfico – alla "libertà civile".
A parte la ricca e articolata attività nel campo filosofico e culturale
quel che mi preme sottolineare è il Melchiore Delfico politico,
espressione del ceto emergente, proprietario, cittadino e intellettuale,
che a San Marino tra quel – "Popolo libero solo superstite in Italia" –
come scriveva al Fortis nell'ottobre 1800 – troverà rifugio e conforto
dopo "la tempestosa crisi…" e "le fermentazioni intellettuali che
l'avevano predisposta" per tornare a quei "governi umani" di vichiana
memoria – come scriverà nelle Memorie storiche – chè "un governo antico
e prediletto come quello di San Marino esprime le sue qualità
originarie, progressive e attuali".
La Repubblica di San Marino presa s'intende non come modello bensì
simbolo di "libertas perpetua" come altrettanto la Stoia per meglio dire
la utilità pratica della Storia doveva tendere alla crescita morale e
civile dell'uomo moderno. Del resto la valorizzazione del piccolo Stato
– comune a buona parte della cultura illuministica – che cercava di
accostare le vicende e i valori umani e si impegnava a trovare (e non
trovò) nella Rivoluzione Francese un momento di sbocco e di
realizzazione, (anzi una palese contraddizione – come dimostrerà
Toqueville) fu la risposta efficace e feconda per andare oltre
l'ideologismo con il collegarsi – forse anche al di là delle intenzioni
– ad altre esperienze e rivoluzioni borghesi.
Si trattava, particolarmente per Delfico, di superare il francesismo ma
anche il borbonismo carolino e ferdinandeo con una rottura culturale in
avanti che si coniugava a determinate correnti dell'Illuminismo italiano
ed europeo. La sol parte della Costituzione fu il centralismo politico –
amministrativo per necessità e per affermazione nella politica
internazionale con Napoleone.
Così acutamente guardava alla Francia del tempo Toqueville,
individuandone decisivi problemi.
Fu, invece, proprio in America che la Teoria del piccolo Stato trovò una
concreta valorizzazione teorica e politica, grazie al contributo di quel
federalismo americano da Jefferson a Franklin a Hamilton, pur con
accentuazioni diverse.
Certo il Teramano criticò Addison "molto superficiale quando parlò o
ragionò di questa repubblica o Adams che non vide mai il Titano e che
"San Marino" non è da paragonarsi alla Pensilvania o con altri degli
Stati Uniti d'America" come affermerà nelle Memorie Storiche e l'Europa
non era né poteva essere l'America anche se alla fine egli trovò a
indicare per la verità più in modo istintivo che organico una concezione
e una funzione originali dello Stato e dei poteri.
In particolare occorreva uno strumento giuridico e Costituzionale che
compendiasse l'interesse soggettivo con quello sociale, il potere
sovrano con quello popolare, come nell'esperienza anglo-americana, al di
là delle sue critiche considerazioni.
A tal proposito particolare interesse riveste la recente e cortese
segnalazione fattami dalla direttrice della Biblioteca governativa di
San Marino dott.ssa Elisabetta Righi- Ivanejco riguardante alcune
pubblicazioni di studiosi statunitensi contemporanei del Delfico e
attestanti rapporti e studi tra il Teramano e alcuni americani del
tempo, segnalati anche nella bibliografia sammarinese curata da
Antonietta Bonelli.
Il Teramano andò oltre le "Colonne d'Ercole" dell'assolutismo e del
dispotismo illuminati del ‘700, e oltre ancora le secche dell'arida,
sterile, sanguinosa vicenda rivoluzionaria dell'89 per approdare a un
costituzionalismo monarchico e liberale che tenterà di attuare nel
governo napoleonico e di nuovo borbonico con alcuni risultati positivi,
ancor più per quella ricerca costante della "verità e della giustizia";
egli però anche se a fondamento del vivere sociale "metteva la mobilità
degli interessi e delle cose" evitò di cadere in un pur facile
pragmatismo fine a se stesso e tenne sempre presente l'idea e l'azione
del rinnovamento sociale.
La verità è che Delfico entrò nelle speranze dell'89 nei rivolgimenti
seguenti che tanto interessarono Teramo e l'Abruzzo come spinto dalla
necessità di rompere per sempre schemi e modelli sociali vecchi e
superati, in pieno fervore antifeudale e riformatore; ne uscì convinto
riformista e costituzionalista. Non fu l'89 una parentesi ma un
passaggio obbligato. Peraltro era il comune travaglio di tanta parte
dell'Illuminismo napoletano e meridionale che produsse, al tempo stesso,
una minore progettualità ma una altrettanta forte intensità culturale
rispetto al centro e al settentrione d'Italia, propria dei Verri e dei
Beccarla, anche grazie ai viaggi delficini di studio e lavoro in
Lombardia.
"Felici sono quelle pochissime nazioni [che per] un avviamento al bene
ne accelerarono i passaggi intermedi con buone leggi". Così Beccarla
scriveva ne "Dei delitti e delle pene" del 1764.
Oppure ancora la Storia di Milano dei Verri edita negli anni 1783-89
scritta non "per favole illustri" ma a un pubblico borghese, aperto a
idee nuove, interessato ai problemi e alla crescita civile della Città.
E questa vocazione cittadina, provinciale, regionale e poi nazionale ed
europea fu la vera anima di Delfico e della tradizione democratica del
Risorgimento che poi con Cattaneo troverà nuova vitalità, matura
coscienza, disegno politico con la critica federalistica allo Stato
unitario accentratore; Delfico come altri illuministi e federalisti
stava ben dentro questo impegno riformatore, cittadino e cosmopolita al
tempo stesso. Egli in sostanza seppe sempre coniugare istanze locali
alle generali, rinnovando la provincia teramana e non soltanto essa,
inserendola a pieno titolo dentro i problemi e le speranze di due
secoli, nel contesto nazionale ed europeo.
"Il cangiamento avvenuto nei popoli d'Europa…è un bene d'esser promesso"
così il Teramano annotava nei suoi appunti di fine ‘700, e ancora, in
una lettera del novembre 1820 inviata al Munter "l'Europa non può
tornare indietro…ed io sebbene non sia kantista in filosofia lo sono
perfettamente in politica e riguardo come una verità eterna ciò ch'egli
disse, cioè che solo vi potrà essere pace nel mondo quando l'Europa sarà
uniformemente costituita".
All'interno di questi intenti e grazie a questo respiro culturale
Delfico proietta il suo "municipalismo", mai "campanilismo", dall'inizio
alla fine del suo pensiero e della sua azione politica. Forse proprio
per questo voleva fare di Teramo una San Marino della democrazia e una
Pavia degli studi. Un progetto avveniristico eppure per un breve periodo
quasi concreto ma poi ridimensionato e allontanato nel tempo.
Esemplare la vicenda per la istituzione della Università. La questione
cominciò nel 1788 e si concluse, dopo la bocciatura, con la creazione
della Società Patriottica nello stesso anno e della Cattedra di
Giurisprudenza presso il Reale Collegio nel 1817. Anche se importanti
furono risultati diversi rispetto al progetto originario.
Certamente le cattedre che si intendevano istituire nel 1788, cioè
Fisica, Storia naturale, Matematica, Filosofia speculativa, Morale,
Storia, Lettere umane, Teologia da affidare a Giovanni Thaulero, a
Biagio Michitelli, a Berardo Carlucci, a Vincenzo Comi, a Carlo Forti, a
Gianfilippo Delfico in qualità di responsabile, era il tentativo di
legare in modo organico studi e nuova società a Teramo; fu questo
l'obiettivo raggiunto dal Riformismo teramano che se perse la sfida
nell'immediato la riprese poi nei decenni successivi e, in parte, la
vinse.
Le caratteristiche di questa battaglia per la "leadership civile" furono
l'intento autonomistico della Città e uno sforzo di progettualità comune
che trovò ostacoli e debolezza non soltanto per l'inevitabile laicismo a
dispetto del vescovo Pirelli ma più in generale in una difficoltà di
penetrazione sociale, nella mancanza di "ascolto" generale e nella
determinazione dello scopo. Ma a Teramo era difficile vincere.
Il risultato fu uno scoramento rispetto alla Città pure se per Delfico
"Non è la più infelice fra quelle delle nostre Provincie" e col ricadere
nel "privato" – aggiungeva – "Chi si contenta di una buona famiglia
piuttosto che d'una buona Città indica dei veri sentimenti di saviezza".
Così scriveva Delfico a Berardo Quartapelle nel 1790.
Ci fu un attimo di difficoltà e persa fiducia, pure superata con la
istituzione governativa della Società Patriottica.
Il recupero di iniziativa e di risultati concreti anni dopo ma con una
perdita secca di prospettiva e di direzione, testimonia passaggi e
limiti evidenti del nostro processo riformatore rispetto ad altri, più
attento certamente al nuovo che emergeva meno alle forze reali in campo,
ai sentimenti, alle tradizioni a quelle spinte contrastanti di fine ‘700
che furono determinanti se ne minarono l'azione prima e il successo
dopo.
Se fu "Rinascenza" con i fratelli Delfico, con Vincenzo Comi, con
Giovanfrancesco Nardi, con Fulgenzio Lattanzi, con Berardo Quartapelle e
altri ancora, non altrettanto si riuscì a compiere un rinnovamento
strutturale e complessivo della provincia di Teramo.
Fu una occasione persa e irripetibile nella storia della città e a quel
rinnovamento guardarono tutti, o quasi, per riprenderne poi lo spirito e
le ambizioni municipaliste negli anni a venire.
E a Delfico, alla sua scuola, non a caso, Giacinto Pannella, nel 1887,
dedicherà il suo lavoro su "L'Abate Quartapelle e la coltura in Teramo",
e riferendosi alla forzata chiusura del suo studio scriveva "Così per
interesse e ignoranza, come i frati d'allora che videro deserte le
scuole, che per vecchie e retrograde convinzioni travolto dagli intrighi
di maligni e perversi, come il Vescovo Pirelli, fecero insidiosa guerra
alla scuola del Quartapelle gliela fecero chiudere nel 1794" e ancora
peggiore sorte gli toccò nel 1798 quando "Il furore popolare insano,
superstizioso e ignorante saccheggiò anche la casa dell'Abate alla
caccia dell'incantatore che si è involato la sua magia". Per aggiungere
"Pianse il buon Abate sulla desolazione del suo laboratorio e del suo
studio; gli si strinse il cuore a vedere sparsi per terra e distrutti
per sempre i cari oggetti delle sue cure, dei suoi piccoli risparmi
fatti in mezzo a mille privazioni e mille stenti. Ma ebbe a fortuna la
vita e rassegnato prese la via dell'esilio".
Quartapelle si rifugiò a Montedinove, Comi a Grottamare, Delfico a San
Marino, con essi andarono pure via per tornare diversamente la cultura e
la prospettiva d'una nuova società a Teramo. |