De Filippis

 

De Filippis-Delfico

 

(Teramo, 1820)

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Stemma famiglia De Filippis-Delfico, Teramo, 1820

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Delfico

(Napoli, sec. XVIII)

(Teramo, sec. XV)

Stemma famiglia De Filippis, Napoli, sec.XVIII

Stemma famiglia Delfico, Teramo, sec.XV

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Delfico interprete di Machiavelli

di Gabriele Carletti

Saggio pubblicato nel volume Machiavelli e la cultura politica del meridione d’Italia. Atti del convegno (Napoli, 27-28 novembre 1997), a cura di Gianfranco Napoli, Archivio della Ragion di Stato, 2001, pp. 192-205

L’interesse di Melchiorre Delfico per Machiavelli si concretizza agli inizi degli anni Venti del XIX secolo, allorché, ormai ottuagenario, opera una rilettura di quello che definisce un «illustre autore», un «profondo» e «gran politico pensatore», un uomo «superiore al suo secolo», che aveva «sentimenti degni di stima», di cui ammirava la «sublimità dei talenti» e a proposito del quale si rammaricava che erano stati trascurati «gli avvisi della sua saggezza».

Lo scritto delficino a cui alludiamo, e che solo recentemente è stato pubblicato, ha per titolo Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino (1).

Prima di allora, Delfico aveva criticato Machiavelli, così come aveva fatto con Montesquieu e Rousseau, nei Pensieri su l’istoria e sull’incertezza ed inutilità della medesima [1808], per la sua ammirazione per l’antica Roma (2), pur avendo in gioventù lasciato intravedere alcune affinità con le sue teorie (3)

Un’attenzione, quella delficina, che tuttavia non si era tradotta, fino al saggio che stiamo considerando, in un’analisi sistematica delle teorie di Machiavelli, nonostante, nella seconda metà del Settecento, si fosse verificata in Italia una ripresa d’interesse per la figura e l’opera del Segretario fiorentino (4), del quale fu data anche un’interpretazione antitirannica e repubblicana (5).

Le Osservazioni acquistano un rilievo critico consistente nella storia della fortuna di Machiavelli in Italia nei primi decenni dell’Ottocento. Non soltanto perché esse si collocano in un periodo di relativa stasi degli studi machiavelliani nel nostro Paese (6), ma soprattutto perché esse offrono una lettura di Machiavelli operata non attraverso l’analisi di una sua opera specifica, quanto invece di alcune sue tesi tratte ora dal Principe, ora dai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, ora dalle Istorie fiorentine, ora dal Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze, ora infine dall’Arte della guerra.

Che cosa spinge Delfico a scrivere le Osservazioni? Perché ad un tratto egli avverte l’esigenza di confrontarsi col pensiero machiavelliano? Una prima risposta è nel nuovo assetto politico determinatosi in Europa dopo il crollo napoleonico. A Napoli era risalito sul trono Ferdinando IV (dall’8 dicembre 1816 Ferdinando I, re del Regno delle Due Sicilie), dopo un decennio di dominio francese, durante il quale i Napoleonidi avevano avviato, collateralmente ad un certo decollo economico-sociale, un rinnovamento della struttura amministrativa del Regno (7), a cui anche Delfico aveva partecipato, raggiungendo proprio in quegli anni l’apice della sua carriera politica (8).

Con la restaurazione dei Borboni lo scrittore abruzzese teme non soltanto la rivalsa delle forze reazionarie ma anche (soprattutto) che si interrompa quel processo di sviluppo economico e di trasformazione sociale che lentamente – aveva scritto ad un amico (9) - stava facendo «risorgere» il Paese. Il timore si trasforma presto in certezza allorché Ferdinando I chiede l’intervento austriaco per porre fine all’esperienza costituzionale del 1820-21 e dà vita ad un nuovo governo reazionario. Delfico, che già dal 1815 aveva diradato il suo impegno nella vita politica, si allontana definitivamente dagli ambienti governativi (10)

In questa azione di ripristino dell’antico, che si svolge all’insegna della ricomposizione della vecchia alleanza tra trono e altare, il Teramano vede profilarsi la minaccia di «rendere il mondo stazionario» se non addirittura di «farlo a grandi passi o salti retrogradare» (11). Un’ipotesi resa, a suo avviso, ancora più probabile da letture ideologicamente distorte di grandi autori, che alimentano l’esistenza di pregiudizi dei quali ci si serve per sostenere fini politici particolari.

Machiavelli è uno dei pensatori privilegiati anche dal pensiero reazionario italiano della prima metà dell’Ottocento (12). A lui si richiama uno dei maggiori rappresentanti di tale corrente, il napoletano Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa (13), nella sua opera I piffari di montagna del 1820, scritta  per denunciare i «tanti errori» commessi a Napoli dai «partitanti» della rivoluzione e del liberalismo, fra i quali include lo stesso Delfico  (14). In essa, l’ex ministro di polizia non fa che estrapolare frasi dalle opere del Fiorentino e alterarne il senso per legittimare politiche repressive o contrastare tendenze innovatrici. Così, ad esempio, riferendosi al passo dei Discorsi in cui Machiavelli vede nell’intervento di un uomo «virtuoso», munito di estrema forza e di mezzi straordinari, l’unica possibilità per debellare la «corruzione» che si era generata nelle città di Milano e di Napoli  (15), Canosa deduce in modo perentorio che dove c’è «poca moralità» occorre che ci sia «poca libertà nel popolo» e «molta forza», «molto terrore» da parte di chi comanda «perché comandare deve dispoticamente» (16)

Sempre al Fiorentino egli ricorre per difendere l’utilità dei corpi intermedi, dell’aristocrazia ereditaria e, soprattutto, della classe baronale che costituiscono le «vere barricate sociali» contro l’urto devastatore della «canaglia democratica» e dei suoi demagoghi, che tramano per rovesciare i troni legittimi (17).

È in questo clima culturale che Delfico rilegge Machiavelli per smascherare alcuni pregiudizi che si sono formati sotto la sua «potente autorità» (18) e per soffermarsi su alcune idee del pensatore fiorentino «poco favorevoli ai progressi della politica ragione» (19), senza tuttavia tralasciare alcune sue verità che potrebbero risultare ancora utili per le civili società. Da questo confronto fuoriescono talora divergenze più o meno accentuate e giudizi critici ma anche affinità e valutazioni positive, a testimonianza dell’ammirazione che Delfico nutre per Machiavelli.

Coesistono nelle Osservazioni due contrapposti atteggiamenti: da un lato, una valutazione storicistica del pensiero machiavelliano, considerato in relazione al suo tempo e come espressione del suo secolo, secondo una lettura che si andava diffondendo agli inizi dell’Ottocento; dall’altro, la tendenza a ricondurlo ai tempi presenti per poi giudicarlo sulla base delle proprie esperienze e convinzioni.

Machiavelli è, per Delfico, innanzitutto figlio della sua epoca. Un’epoca, quella tra il Quattro e il Cinquecento, piena di atrocità e di frode, di corruzione e di delitti politici. Dell’«illustre autore» il Teramano sottolinea il realismo politico e l’aderenza alla realtà effettuale. Egli guarda pertanto il Principe non come un’astratta speculazione politica, bensì come uno scritto d’occasione contenente una particolare proposta operativa, in relazione ad un obiettivo politico contingente, qual è la rigenerazione dell’Italia. Ma senza farne a tutti i costi un precorritore del Risorgimento o un assertore dell’unità nazionale, secondo un’interpretazione del Fiorentino allora assai diffusa (20), egli ammira in lui la «viva passione», la disperata ricerca di soluzioni politiche capaci di porre fine alla grave crisi della società italiana del Cinquecento.

Che la rigenerazione dell’Italia fosse «la mira principale di quel politico lavoro» appare chiaro, afferma Delfico, a chiunque ne legga l’Exhortatio dell’ultimo capitolo: non vi è alcun dubbio che Machiavelli fosse «ansioso», con il suo opuscolo, «di avervi parte», come egli stesso spiega nella lettera a Francesco Vettori (21). Tutta l’opera sarebbe finalizzata a far uscire l’Italia dal «letargo» e la strategia politica in essa delineata risulterebbe essere la sola realmente praticabile. Destinatario dell’Exhortatio non avrebbe potuto essere che un principe, non certo i popoli, fra i quali nessuno, ritiene Delfico condividendo la tesi di Cuoco (22), aveva allora per Machiavelli le qualità necessarie per divenire «il rigeneratore della grandezza Italiana» (23).

La scelta machiavelliana del Valentino quale liberatore degli Stati italiani appare  l’unica alternativa all’immobilismo e alla rassegnazione di fronte alla decadenza politica e civile dell’Italia all’inizio del XVI secolo. Questa radicalità autorizzerebbe Machiavelli, osserva Delfico, a transigere su i mezzi e permette di comprendere come le stesse massime machiavelliane «più infami», (perfino quelle che lo avrebbero reso un autore esecrabile) siano da intendere più che come suoi intimi convincimenti, come l’extrema ratio per il conseguimento di un ideale politico, altrimenti inattuabile (24).

Ma la condizione dell’Italia, per la quale Machiavelli suggerisce la soluzione del Valentino, non porta lo scrittore teramano a condividere interamente tutte le tesi del Segretario fiorentino: «Se si possono giustificare le sue intenzioni, e la persona» afferma Delfico «questo non vale per le sue dottrine» (25). Infatti, se da un lato egli comprende le preoccupazioni di Machiavelli e fa proprie le sue speranze di una prossima rigenerazione, attuabile quest’ultima solo attraverso mezzi eccezionali, dall’altro manifesta più di una perplessità di fronte al suo realismo politico, non riuscendo di fatto ad accettare la dissociazione machiavelliana tra etica e politica.

Netto è il rifiuto di quelle massime del Principe, ispirate al detto che «per regnar tutto lice», sublimi per la «politica de’ Gabinetti», ma «vilissime e dannabilissime» per la morale (26), poiché ingenerano nell’opinione pubblica l’idea che si possa violare il diritto e la giustizia a vantaggio di personali benefici.

Dopo averlo collocato nella sua epoca, Delfico valuta il pensiero machiavelliano alla luce delle esigenze e delle esperienze storiche, politiche e culturali maturate tra il XVIII e il XIX secolo. Suo obiettivo prioritario resta quello di sradicare, come abbiamo detto, alcuni pregiudizi politici, ad arte mantenuti in vita per negare o ostacolare qualsiasi progresso economico-sociale del paese. Tale intento traspare sin dalla prime pagine delle Osservazioni, quando Delfico si sofferma sulla concezione religiosa di Machiavelli. Sorvolando sull’insieme degli aspetti problematici che il tema della religione assume nell’opera del Fiorentino (27), egli prende in considerazione il giudizio sul cristianesimo e rimprovera a Machiavelli di aver identificato (confuso) la religione in sé, la sua dottrina, i suoi principi fondati sull’«umana fratellanza» e sui «più nobili sentimenti», con la Chiesa come istituzione politica. Se solo invece egli avesse provato a distinguere quest’ultima dalla religione avrebbe capito (come pure una volta riconobbe nei Discorsi (28)) che era la condotta politica della curia romana la vera causa della rovina degli Stati (29).

È lecito credere che, attraverso l’accusa a Machiavelli, il quale invece si era espresso spesso in modo assai critico nei confronti del potere temporale della Chiesa, lo scrittore abruzzese volesse ammonire i contemporanei a mantenere netta la distinzione tra la religione quale valore morale e profonda esigenza dell’animo umano e il suo impiego politico. Questo non perché egli avesse particolarmente a cuore l’interesse o il futuro del cristianesimo, ma perché voleva mettere in guardia contro la appena avvenuta legittimazione governativa dell’antico ordine, operata in nome della religione e con l’avallo delle autorità ecclesiastiche. La polemica politica lo conduce a rinfacciare a Machiavelli la presunta eccessiva benevolenza nei confronti dei ministri del culto e a rimproverargli di non aver sufficientemente colto quelle «miserabili astuzie» (messe in atto dall’«impostura sacerdotale»), delle quali i governi si erano avvalsi e continuavano ad avvalersi «per ingannar i popoli e gravarli di nuovo giogo» ed «indurli ai loro voleri» (30).

Altrettanto critico lo scrittore teramano si mostra nei confronti della concezione machiavelliana della libertà perché priva, a suo giudizio, di una precisa e corretta definizione. Di tale termine, infatti, il Fiorentino si sarebbe avvalso per identificare situazioni storiche e momenti politici differenti come il cambiamento di una forma di governo, l’indipendenza dal dominio straniero, il trionfo di un partito, l’introduzione di una qualsiasi riforma.

Per l’anziano illuminista, che ha seguito l’intera dinamica rivoluzionaria in Francia e in Italia, la libertà assume il duplice significato sia di riconoscimento del diritto del cittadino ad essere giuridicamente protetto dagli abusi del potere statale, sia di affermazione di uno Stato che tuteli il cittadino da ogni forma di arbitrio e di sopraffazione da parte di forze sociali nostalgiche dell’Ancien Régime. La questione principale quindi per lui non è quella che Machiavelli pone di stabilire «dove più sicuramente si ponga la guardia della libertà», se nel «popolo» o nei «grandi» (31), bensì quella di riempire la libertà di un contenuto nuovo, di fare in modo che essa dipenda da forme politiche basate sulla divisione dei poteri e sulle distinte attribuzioni dei medesimi, e soprattutto che sia protetta da «leggi fondamentali o costitutive», la cui importanza – che lo stesso Machiavelli avrebbe intuito (32) – egli aveva colto sin dai tempi dell’Assemblea Costituente. Le costituzioni rappresentano per lui «le condizioni necessarie per la buona esistenza delle civili società» (33), poiché impediscono qualsiasi abuso di potere e permettono di assicurare i diritti individuali e la tutela dei cittadini e dei loro beni sotto la legge.

Della necessità ed urgenza di un regime costituzionale Delfico è fermamente convinto, tanto che aveva accolto la promessa di Ferdinando I nel 1820 di concedere la costituzione come «il più prezioso regalo» che un sovrano potesse fare al suo popolo. Le sue idee costituzionali, tuttavia, non hanno nulla di eccessivo, non la pretesa di una «perfezione astratta», bensì la ricerca di una soluzione «conveniente e proporzionata alle circostanze» (34). Egli rivendica un governo moderato, monarchico più che repubblicano, che finalizzi la propria azione al conseguimento dell’uguaglianza politica, «condizione necessaria al ben vivere politico» (35).

Dell’uguaglianza, come già della libertà, il Segretario fiorentino non avrebbe avuto che un’idea vaga e imprecisa, dal momento che con quel termine egli sembrava volesse indicare particolarmente l’uguaglianza delle ricchezze, mentre avrebbe mostrato di tenere in poco conto l’uguaglianza dei diritti, ignorando così che compito precipuo dello Stato è quello se non di «distruggere», almeno di «limitare» le differenze politiche esistenti tra i cittadini. Credette Machiavelli di poterla scorgere nella Roma repubblicana e non si accorse invece che non può esserci mai eguaglianza laddove la qualità di cittadino è «distinta in classi». In mancanza di tali idee, non ci si meravigli, afferma Delfico, come egli riuscisse «poco felice» nell’impresa affidatagli da Leone X di presentare un piano di riforma della sua città natale.

Da molti considerato, alla sua uscita, l’Antiprincipe per antonomasia, il testo che più di tutti rivelava l’animo repubblicano di Machiavelli (36), il Discursus florentinarum rerum, scritto tra il 1520 e il 1521 (37), ma pubblicato la prima volta nel 1760 col titolo Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze ad istanza di Leone X (38), non sembra invece conquistare pienamente Delfico. Il progetto di realizzare «una Repubblica perfetta» gli appare infatti lacunoso e perfino discutibile. Lacunoso perché in esso il Fiorentino passerebbe sotto silenzio tutta una serie di problemi relativi alla formazione, all’organizzazione e alla durata del corpo sociale. Criticabile, invece, perché nel Discursus Machiavelli non porrebbe i cittadini tutti sullo stesso piano, per distinguerli successivamente secondo funzioni e ruoli necessari per il buon funzionamento dello Stato, ma li dividerebbe in tre classi permanenti («primi, mezzani ed ultimi» (39)), legittimando così una politica costituzionale fondata sull’ineguaglianza «legale», proprio lui che pure aveva osservato che «il più terribile fomite delle civili disunioni era l’ineguaglianza» (40).

Nei confronti della concezione machiavelliana dell’uguaglianza Delfico alterna giudizi talora contrastanti a seconda che la sua valutazione si fondi ora su una versione giuridica ora su un contenuto economico. Se nei riguardi dell’uguaglianza giuridica egli assume una concezione abbastanza uniforme, non altrettanto avviene nei confronti di quella economica. Infatti mentre da un lato si dichiara contrario ad una assolutizzazione del principio di uguaglianza economica, secondo una convinzione già manifestata negli Indizi di morale del 1775, in cui si era espresso a favore soltanto di un eguale diritto alla proprietà, dall’altro ritiene opportuno oltre che doveroso assicurare una maggiore uguaglianza delle ricchezze. La moltiplicazione del numero dei proprietari avrebbe infatti rafforzato l’«attaccamento» verso lo stato e allontanato il pericolo di eventuali sconvolgimenti politici. Forte di questo convincimento, Delfico concorda con Machiavelli sull’origine delle discordie negli Stati, ricondotta non ad una divinità malefica o all’avverso destino, e neppure alla presunta malvagità umana, né tanto meno al mancato perfezionamento della specie, bensì a «quella ineguaglianza di diritti e di beni» a cui le leggi non seppero o non vollero porre riparo. A tal proposito egli ricorda un passo delle Istorie fiorentine (41) in cui si afferma l’assoluta inconciliabilità tra gli «umori» del popolo (che non vuol «essere comandato né oppresso dai grandi») e quelli dei grandi (che vogliono «comandare ed opprimere il popolo»).

Questa contrapposizione tra il popolo e i potenti (42) rappresenta una fonte di notevole preoccupazione per l’anziano scrittore, che la vede, sebbene attenuata, continuare ad esistere negli anni della Restaurazione.

Grande è l’interesse che egli mostra per il capitolo nono del Principe, definito «eccellente», in cui Machiavelli prende in considerazione la possibilità di instaurare un principato popolare (43). Ugualmente eccellenti egli giudica le osservazioni contenute nel capitolo sedicesimo del I libro dei Discorsi, in cui è ribadita la necessità per i principi, per tutti i principi, compresi quelli che per regnare hanno bisogno di ricorrere a «vie straordinarie», di fondare il loro principato sul consenso della «moltitudine», di guadagnarsi il popolo e di farselo amico (44).

Come Machiavelli, Delfico considera non solo necessario ma anche possibile assicurarsi il favore popolare e se non condivide il radicalismo della proposta machiavelliana, di «tagliare a pezzi tutti gli ottimati» (45), nessun dubbio però egli nutre sulla necessità da parte del sovrano di renderli innocui, di tenere a freno la loro ambizione di dominio. Di grande attualità egli trova in proposito il capitolo cinquantacinquesimo del I libro dei Discorsi in cui Machiavelli tratta dei cosiddetti «gentiluomini», di quegli uomini che «oziosi vivono dei proventi delle loro possessioni abbondantemente, senza avere alcuna cura o di coltivare o di alcun’altra necessaria fatica a vivere» e che, in quanto tali, sono «al tutto nemici d’ogni civiltà» (46).

Ma, dopo aver condiviso le tesi di Machiavelli (che nelle Osservazioni suonano come condanna implicita nei confronti della situazione politica in cui vive), Delfico sottace la conclusione conseguenziale a cui giunge il Segretario fiorentino:

 

Trassi adunque di questo discorso questa conclusione, che colui che vuole fare dove sono assai gentiluomini una repubblica, non la può fare se prima non gli spegne tutti: e che colui che dove è assai equalità vuole fare uno regno o un principato, non lo potrà mai fare, se non trae di quella equalità molti d’animo ambizioso ed inquieto. […] Costituisca adunque una repubblica colui dove è, o è fatta una grande equalità, e all’incontro ordini un principato dove è grande inequalità, altrimenti farà cosa senza proporzione, e poco durabile (47).

 

Machiavelli fissa in questo passo la duplice, stretta, correlazione tra «equalità» e «repubblica» da un lato, e «inequalità» e «principato» dall’altro (48). Egli identifica inoltre la «inequalità» e la «equalità» con la presenza o l’assenza nello Stato dei «gentiluomini». Ne consegue che voler «spegnere» i gentiluomini equivale a tendere verso l’«equalità» e quindi, in definitiva, alla costituzione di una repubblica; al contrario, mantenere o fare «gentiluomini in fatto» significa scegliere l’«inequalità» e quindi avere come obiettivo la conservazione o la creazione di un principato.

Ignote sono ancora le ragioni per le quali Delfico sorvola sulle ultime implicazioni della riflessione machiavelliana, se perché considera quelle equazioni prospettate nei Discorsi, e di lì a poco ripresentate nel Discursus florentinarum rerum (49), troppo rigide e schematiche o perché giudica, invece, una piena adesione a quelle soluzioni teoriche troppo compromettente nei confronti del potere costituito. Se da un lato, infatti, egli è attento a non oltrepassare i limiti della tollerabilità, dall’altro considera il «bene pubblico» adattabile ed eseguibile sotto qualunque specie di governo, sebbene le sue preferenze vadano per la monarchia considerata «la più vera forma di governi umani» (50).

Dall’analisi machiavelliana, pertanto, più che la tesi della contrapposizione fra l’eguaglianza della repubblica e l’ineguaglianza del principato, Delfico riprende la ferma condanna della persistenza di profonde sperequazioni economiche e sociali. Rimuovere o anche semplicemente ridurre queste disuguaglianze equivale per lui ad agire in direzione del «bene pubblico», che costituisce l’oggetto costante e principale dei suoi pensieri e che ritiene non essere prerogativa di alcun governo. La stessa esigenza di «spegnere» i gentiluomini gli appare non come un passaggio esclusivo della repubblica, bensì di qualsiasi forma politica.

Sempre in tema di uguaglianza, Delfico riconosce inoltre al Fiorentino il merito di aver compreso l’importanza e la necessità (da lui entrambe condivise) di introdurre un criterio di uguaglianza anche nel sistema contributivo (51).

Altro momento di confronto è dato dall’affermazione machiavelliana: «A volere che una Setta o una Repubblica viva lungamente, è necessario ritirarla spesso verso il suo principio» (52). Il postulato sarebbe in contraddizione con quanto affermato dal Segretario fiorentino nel capitolo diciottesimo del I libro dei Discorsi circa la necessità di cambiare gli ordini e le leggi nel corso del tempo: «verità importantissima – commenta Delfico, alludendo alla realtà in cui vive – che i legislatori ed i governi sovente con grave danno trascurano» (53). È questo l’argomento su cui le posizioni dei due autori divergono maggiormente. La tesi di ritirare gli Stati verso il loro «principio» (intesa da alcuni come una «trasposizione» sul piano profano del mito religioso medievale del «rinnovo» (54)) nasce, secondo lo scrittore meridionale, da un equivoco di fondo generato da una fatalistica e malintesa concezione dello sviluppo delle società civili (55), che porterebbe Machiavelli a credere che nel loro susseguirsi esse corrano necessariamente più verso la «corruzione» che verso il «progresso». Da questo punto di vista, ritirare gli Stati al loro «principio» non significherebbe altro che creare le condizioni per farli ritornare alla loro ottimale forma originaria.

Se si considera però che le prime società – afferma Delfico – non ebbero affatto un carattere di perfezione ma «nacquero quasi sempre sotto gli auspici dell’ignoranza e della violenza» e che esse non poterono nel tempo che migliorare, è evidente che voler mettere in pratica la teoria machiavelliana equivarrebbe a respingere quelle società verso «l’originale barbarie, privarle di ogni civile miglioramento e rinunciare agli effetti di quella perfettibilità che fu il più singolare dono che la Provvidenza facesse all’uman genere» (56).

Alla teoria machiavelliana della storia come «progressiva necessaria corruzione» (argomento fatto proprio, commenta l’anziano scrittore, «dai vari ipocriti lodatori del passato, e naturalmente disgustati del presente» (57)), Delfico contrappone la sua visione illuministica di un processo storico continuo e indefinito. Condividere quella concezione piuttosto che questa significherebbe per il Teramano arrestare il progresso umano e precludere quel naturale miglioramento delle società, cui sembrano invece essere destinate.

Un eguale dissenso, infine, egli esprime nei confronti della filosofia della storia di Machiavelli per il suo carattere progressivo e regressivo al tempo stesso:

 

Perché non essendo dalla natura conceduto alle mondane cose il fermarsi, come elle arrivano alla loro ultima perfezione, non avendo più da salire, conviene che scendino, e similmente scese che le sono, e per gli disordini ad ultima bassezza pervenute, di necessità non potendo più scendere, conviene che salghino, e così sempre dal bene si scende al male, e dal male si sale al bene (58).

 

Un ampio spazio nello scritto delficino viene riservato alla questione militare a testimonianza dell’importanza che il tema assume per il Teramano e della sua preferenza per il Machiavelli scrittore politico-militare rispetto sia al Machiavelli storico  (Discorsi) sia al Machiavelli politico del suo tempo (Il Principe). Egli considera le vedute militari del Fiorentino estremamente utili e pertanto meritevoli «di essere portate ad una maggiore luce». Di fronte ad esse egli approva perfino il richiamo di Machiavelli alle antiche istituzioni romane e ne ammira la «grande conoscenza» storica, della quale sembra qui ammettere l’utilità, lui che pure sarà considerato l’esponente più rappresentativo dell’antistoricismo italiano (59).

Nell’affrontare il problema militare, Delfico ha presente oltre all’Arte della guerra, opera, diversamente dal Principe e dai Discorsi, ancora poco nota e apprezzata agli inizi dell’Ottocento (60), anche gli scritti di militari precedenti (61), di cui ammira in particolare le due Provvisioni per istituire Milizie nazionali nella Repubblica fiorentina del 1506 e del 1512.

Chiara è in lui la consapevolezza della duplice valenza, militare e politica, del pensiero del Segretario fiorentino, il quale ha considerato la guerra non solo nella molteplicità dei suoi rapporti, ma anche, soprattutto, in quelli che la legano più strettamente alla politica (62). Più che gli aspetti tecnico-militari (63), è la correlazione che egli stabilisce tra organizzazione militare e costituzione politica (64) ad attirare l’attenzione del Teramano, che condivide l’enunciato machiavelliano dei Discorsi, presente anche nel Principe, secondo cui «il fondamento di tutti gli Stati è la buona milizia» e «dove non è questa, non possono essere né leggi buone, né alcuna altra cosa buona» (65).

La costituzione di «buone armi» risulta essere dunque un fattore determinante per la formazioni di «buoni ordini». Se da un lato il problema militare investe il problema politico, dall’altro esso viene da questo fortemente condizionato (66). Occorre che il principe riorganizzi il potere militare sulla base di un nuovo rapporto fondato sulla reciproca solidarietà tra il popolo, che vede nel principe la realizzazione dei propri interessi, ed il principe, che trae dal consenso del popolo una maggiore stabilità del proprio potere (67).

Della fondatezza delle tesi militari di Machiavelli Delfico è pienamente convinto, tanto da ritenerle ancora valide per il suo tempo, quando continua ad esistere il problema della formazione di una milizia nazionale, «fornita di forza fisica ed animata da forza morale» (68). Pertanto, se è indispensabile munire i soldati di «particolare istruzione ed educazione» perché acquisiscano nuove abitudini e qualità sia fisiche che mentali, lo è ancor di più infondere loro sentimenti di amor patrio e offrire motivi di attaccamento allo Stato e alla società civile, i soli in grado di legare i militari in modo permanente alla causa per cui combattono, perché in tal modo essi verrebbero a identificare la loro lotta con la difesa o il miglioramento del proprio «ben essere» e dei «beni della vita civile» (69).

Trae origine da qui la polemica delficina contro gli eserciti mercenari il cui limite di fondo consiste, come aveva affermato Machiavelli, nel non avere «affezione» verso colui per cui essi combattono, tale da farli diventare suoi «partigiani», senza la quale «non vi potrà essere tanta virtù che basti a resistere ad uno nimico un poco virtuoso» (70).

Scartata l’ipotesi di un ricorso alle truppe mercenarie, il compito di salvaguardare e fortificare le istituzioni civili e politiche spetta, per Delfico, unicamente alle milizie proprie, che animate da una «vera forza morale» spesso danno prova di grande coraggio e sono capaci di imprese straordinarie. Milizie caratterizzate non più dai vecchi quadri militari, bensì da una nuova figura che implica una continua e profonda immedesimazione tra il cittadino e il soldato.

Il problema assume a questo punto una connotazione politica. Perché sorga nei cittadini l’«affezione» verso il proprio principe e diventino essi soldati a lui fedeli, occorre, secondo lo scrittore abruzzese, procedere ad una ridefinizione del rapporto tra sudditi e principi, che presupponga da parte di questi ultimi un cambiamento radicale del modo con cui avevano fino ad allora regnato e che abbandonino il principio, criticato anche da Machiavelli, che bisogna «governarsi co’ sudditi avaramente e superbamente» (71) per cercare, invece, come aveva ammonito ancora il Fiorentino, di «guadagnarsi il popolo», di «satisfare al popolo, e tenerlo contento» (72), interpretando le sue aspirazioni e traducendole in programmi politici.

            

Quando dunque  - conclude Delfico  - i Governi con le buone istituzioni, colle buone leggi ed ordini rendono piacevole la vita, quando una istituzione militare ben immaginata è eseguita da corrispondenti istruzioni ed ordinanze, quando il militare può riguardarsi come un essere dotato di più utili qualità che prima non aveva, e quando può essere condotto a tale da stimar la sua condizione, e conoscersi in grado da poter adempiere le publiche mire per la sua destinazione, e ciò con tutte le cure corrispondenti, che gli ne faccino nascere il sentimento, allora l'uomo della guerra dovrà considerarsi come un funzionario dello stato, e pronto ad eseguire i doveri che si avrà imposti verso la patria e il Sovrano i quali dal canto loro avranno contribuito alla sua formazione. Ma se - continua egli con accenti machiavelliani - le condizioni del ben vivere politico mancano in uno Stato, se l’ineducazione da una parte e la miseria e l’oppressione dall’altra rendono poco gradita la civile coesistenza […] e non fanno nascere i nobili sentimenti di affezione per i governi, né il desiderio di accrescere le proprie forze fisiche e morali. […] E se veggiamo talora che il bastone, le catene, ed i più severi castighi prendono il luogo di una ragionevole educazione, è facile il giudicare che da essi potranno sorgere piuttosto de’ satelliti della Tirannia, che de’ difensori di quella libertà, cui sempre usarono ospitalità gli umani governi (73).

 

Delfico pone qui esplicitamente il  problema  di  una riforma  dello  Stato, delle sue istituzioni e di una nuova visione della politica, che concepisca la gestione del potere a vantaggio non esclusivamente del principe, ma anche dei cittadini. Dalla capacità o meno dei governanti di creare «le condizioni del ben vivere politico» dipendono, a suo avviso, la coesione all’interno dello Stato, la nascita nei cittadini di sentimenti di solidarietà e di «affezione» o, al contrario, di assoluta apatia nei confronti dei governi, la trasformazione cioè dei sudditi-soldati o in «satelliti della tirannia» o in paladini della libertà.

Eppure, nonostante l’invito all’azione, non si può non avvertire il tono distaccato dell’esortazione, un certo disincanto nei confronti delle possibilità dei governanti.

Se si paragona l’atteggiamento pacato delle Osservazioni con quello appassionato e ottimistico delle Memorie giovanili o degli scritti dei primi anni della rivoluzione si ha l’impressione che Delfico ripercorra la parabola che era stata propria del Segretario fiorentino quando era passato dalla fiducia totale, nel Principe, in una rigenerazione della politica italiana, all’amara constatazione, nell’Arte della guerra, della «negatività della situazione» (74) alla quale era ormai impossibile opporsi.

In realtà, pur alimentando in Delfico molti dubbi e perplessità, il clima politico degli anni in cui scrive il saggio su Machiavelli non incrina la sua fiducia nel progresso, sempre configurato come un processo ineluttabile verso forme e condizioni di vita politica e civile più elevate. Ma la loro attuabilità dipende, per il Teramano, diversamente dal passato, assai più che dal favore delle circostanze o di un principe illuminato, da una ridefinizione dei fondamenti della «vera politica» e dei suoi contenuti. E in ciò consiste la novità maggiore delle Osservazioni.

A rafforzare in lui l’avversione verso qualsiasi gestione arbitraria e repressiva del potere, che rende «retrograda l’umanità […] vietandole ogni avanzamento» (75), vi è la convinzione, consolidata dalla lettura di Machiavelli, che «la politica è una scienza, e non altro che la pratica della universale filosofia, che si propone il bene di tutti, di chi comanda e di chi obbedisce», dei governanti come dei governati.

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(1) Rimasto inedito, il testo finale è tuttora irreperito ma di esso si conservano due stesure, entrambe preparatorie, che d’ora innanzi chiameremo per comodità espositiva Osservazioni I e Osservazioni II. Con quest’ultima denominazione indichiamo la stesura che, sia per struttura sia per stile e argomentazioni, riteniamo essere, tra le due, quella più vicina alla versione definitiva. Le Osservazioni I sono state pubblicate da Adelmo Marino in «Aprutium», a. II (1984), n. 2, pp. 34-61 e successivamente riedite dallo stesso autore assieme alla pubblicazione delle Osservazioni II nel volume Scritti inediti di Melchiorre Delfico, Chieti, Solfanelli, 1986, rispettivamente pp. 19-42 e 59-79.

(2) Cfr. Melchiorre Delfico, Pensieri su l’istoria e sull’incertezza ed inutilità della medesima [Forlì 1808], in Opere complete, a cura di Giacinto Pannella e Luigi Savorini, vol. II, Teramo, Fabbri, 1903, pp. 85, 86, 106, 117, 122, 130, 142, 176.

(3) Cfr. M. Delfico, Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale [Teramo 1782], in Opere complete, cit., vol. III, pp. 159-162.

(4) Sulla rinascita in Italia degli studi machiavelliani nel XVIII secolo, cfr. Giuliano Procacci, Studi sulla fortuna del Machiavelli, Roma, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, 1965, pp. 337 sgg. Spunti critici anche in Carlo Curcio, Machiavelli nel Risorgimento, Milano, Giuffrè, 1953, pp. 3-18; Franco Gaeta, Appunti sulla fortuna del pensiero politico di Machiavelli in Italia, in Atti del convegno internazionale su Il pensiero politico di Machiavelli e la sua fortuna nel mondo, Firenze, Istituto nazionale di studi sul Rinascimento, 1972, pp. 21-36.

(5) Sullo sviluppo in Italia nella seconda metà del Settecento di una lettura del Fiorentino in chiave repubblicana, cfr. G. Procacci, Studi sulla fortuna del Machiavelli, cit., pp. 354 sgg.; Mario Rosa, Dispotismo e libertà nel Settecento. Interpretazioni «repubblicane» di Machiavelli, Bari, Laterza, 1964, pp. 49 sgg., e, per quanto riguarda il triennio 1796-99, Vittorio Criscuolo, Appunti sulla fortuna del Machiavelli nel periodo rivoluzionario, in «Critica storica», a. XXVII (1990), n. 3, pp. 475-492.

(6) Le uniche eccezioni riguardano le brevi note di Vincenzo Cuoco, La politica di Niccolò Machiavelli [gennaio 1804], in Scritti vari, a cura di Nino Cortese e Fausto Nicolini, Bari, Laterza, 1924, vol. I, pp. 45-48, lo scritto di Angelo Ridolfi, Pensieri intorno allo scopo di Niccolò Machiavelli nel libro Il Principe, Milano, Stamperia Destefanis, 1810, e gli appunti sparsi di Ugo Foscolo, consistenti in una serie di abbozzi e di frammenti su Machiavelli i quali, concepiti come risposta al libro di Ridolfi e a quello di William Roscoe, Vita e pontificato di Leone X del 1805, che avevano confutato l’interpretazione in chiave repubblicana del Principe, saranno pubblicati postumi, col titolo Frammenti sul Machiavelli, nelle Prose politiche e letterarie dal 1811 al 1816, vol. III dell’edizione nazionale delle opere di Foscolo, a cura di Luigi Fassò, Firenze, Le Monnier, 1933, pp. 1-63.

(7) Per un quadro d’insieme dell’attività amministrativa e dell’opera legislativa dei Napoleonidi nel Regno napoletano, oltre al volume, notevolmente arricchito e ampliato rispetto alla prima edizione del 1941, di Angela Valente, Gioacchino Murat e l’Italia meridionale, Torino, Einaudi, 1976, pp. 231-332, cfr. Pasquale Villani, Il decennio francese, in Storia del Mezzogiorno, vol. IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, Roma, Edizione del Sole, 1986, pp. 575-639. Spunti critici anche in Studi sul Regno di Napoli nel decennio francese (1806-1815), a cura di Aurelio Lepre, Napoli, Liguori, 1985, e Il Mezzogiorno fra ancien régime e Decennio francese, a cura di Antonio Cestaro e Antonio Lerra (Quaderni della Rassegna Storica Lucana, 1), Venosa, Edizioni Osanna, 1992.

(8) Sull’attività del Teramano nell’amministrazione francese, cfr. Giorgio Palmieri, Melchiorre Delfico e il decennio francese (1806-1815), L’Aquila, Edizioni del Gallo Cedrone, 1986, il quale riproduce in appendice alcuni scritti delficini del periodo; Raffaele Feola, La monarchia amministrativa. Il sistema del contenzioso nelle Sicilie, Napoli, Jovene, 1985, pp. 125-135. Per una diversa lettura del periodo murattiano, cfr. Franco Venturi, Nota introduttiva [a M. Delfico], in Riformatori napoletani, t. V degli Illuministi italiani, Milano-Napoli, Ricciardi, 1962, p. 1186; Aldo Garosci, San Marino. Mito e storiografia tra i libertini e il Carducci, Milano, Edizioni di Comunità, 1967, p. 215.

(9) Cfr. la lettera di Delfico a Friedrich  Münter del 16 febbraio 1810, in Armando Di Nardo, Storia e scienza in Melchiorre Delfico. (Studi e ricerche), Chieti, Libera Università Abruzzese degli Studi «G. D’Annunzio», Facoltà di Lettere e Filosofia, 1978, pp. 148-149.

(10) Nel maggio del 1822 l’anziano scrittore torna a Teramo, ma nell’autunno successivo si reca di nuovo a Napoli dove rimane per alcuni mesi, fino alla primavera del 1823, quando lascia la Capitale per non farvi più ritorno.

(11) Osservazioni I, cit., p. 41.

(12) Cfr. Nicola Del Corno, Gli «scritti sani». Dottrina e propaganda della reazione italiana dalla Restaurazione all’Unità, Milano, Angeli, 1992, pp. 24-25.

(13) Antonio Capece Minutolo [1768-1838], sostenitore della dinastia borbonica, divenne nel gennaio del 1816 ministro della Polizia a Napoli, ma fu licenziato nel giugno successivo per la sua azione particolarmente repressiva contro la Carboneria, alla quale oppose la setta sanfedista dei Calderari, sorta durante il Decennio. Nominato di nuovo ministro della Polizia nell’aprile del 1821, fu dapprima esonerato [luglio 1821] e poi, nel maggio dell’anno successivo, allontanato dal Regno. Cfr. Walter Maturi, Il principe di Canosa, Firenze, Le Monnier, 1944.

(14) Cfr. Canosa, I piffari di montagna, Parigi, s.e., 18326, p. 13.

(15) Cfr. Niccolò Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in Opere di Niccolò Machiavelli Cittadino e Segretario fiorentino, Italia 1813, vol. III, lib. I, cap. XVII, p. 69. L’edizione, stampata a Firenze in otto volumi presso il Piatti, a cura di Francesco Tassi, e arricchita di una lunga introduzione, in cui vengono passati in rassegna molti dei giudizi fino ad allora espressi sul Fiorentino, e comprensiva della raccolta di massime machiavelliane pubblicata a Roma nel 1771 da Stefano Bertolini col titolo La mente di un uomo di Stato, è quella utilizzata da Delfico per la stesura delle Osservazioni.

(16) Canosa, I piffari di montagna, cit., pp. 123-124.

(17) Cfr. ivi, pp. 156-158.

(18) Osservazioni I, cit., p. 20.

(19) Ivi, p. 21.

(20) Sull’interpretazione del Fiorentino come antesignano dell’unità nazionale cfr. C. Curcio, Machiavelli nel Risorgimento, cit., pp. 23-33. Un’utile rassegna di moderni interpreti favorevoli e contrari a Machiavelli profeta dell’unità d’Italia è in Rodolfo De Mattei, Dal premachiavellismo all’antima-chiavellismo, Firenze, Sansoni, 1969, pp. 89 sgg.

(21) La lettera, datata 10 dicembre 1513, fu pubblicata la prima volta nel 1810 da Ridolfi in appendice ai suoi Pensieri, cit., pp. 61-72.

(22) Cfr. V. Cuoco, La politica di Niccolò Machiavelli, cit., p. 47.

(23) Osservazioni II, cit., p. 66.

(24) «Le ingiuste dottrine» del Fiorentino, afferma Delfico riecheggiando le tesi di Cuoco e di Ridolfi, si dovrebbero riguardare «non come precetti, ma come mezzi a pervenire, nel caso che le circostanze li avessero resi necessari, non tanto al fine particolare del nuovo principato, quanto al grande scopo finale della grandezza, felicità ed effettiva integrità della Italia, cui erano sempre diretti i suoi voti». Osservazioni II, cit., p. 67. Cfr., inoltre, V. Cuoco, La politica di Niccolò Machiavelli, cit., p. 48 e A. Ridolfi, Pensieri, cit., p. 25. Lo stesso concetto è anche a p. 11.

(25) Osservazioni II, cit., p. 67.

(26) Cfr. Osservazioni I, cit., p. 29; Osservazioni II, cit., p. 70.

(27) Sulla religione in Machiavelli cfr. G. Procacci, Introduzione a N. Machiavelli, Il Principe e Discorsi, a cura di Sergio Bertelli, Milano, Feltrinelli, 1960, pp. LVIII-LXII; Alberto Tenenti, La religione in Machiavelli, in «Studi storici», a. X (1969), n. 4, pp. 709-748; Gennaro Sasso, Niccolò Machiavelli, vol. I, Il pensiero politico, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 549-558.

(28) Delfico cita in proposito il cap. XII del primo libro, p. 55, in cui Machiavelli denuncia la responsabilità storica della Chiesa per aver tenuto e continuare a tenere l’Italia divisa: «Non essendo dunque stata la Chiesa potente da potere occupare l’Italia, né avendo permesso che un altro la occupi, è stata cagione che la non è potuta venire sotto un capo, ma è stata sotto più principi e signori; da’ quali è nata tanta disunione e tanta debolezza, che la si è condotta ad esser stata preda, non solamente de’ barbari potenti, ma di qualunque l’assalta».

(29) Cfr. Osservazioni I, cit., p. 22; Osservazioni II, cit., p. 62.

(30) Ibidem.

(31) Cfr. N. Machiavelli, Discorsi, cit., lib. I, cap. V, p. 23. Sulla concezione machiavelliana della libertà, cfr. le osservazioni di Luigi Russo, Il mito della libertà e del vivere libero in Machiavelli, in Machiavelli, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 189-203, e di G. Sasso, Niccolò Machiavelli, cit., vol. I, pp. 511-527.

(32) A conferma delle proprie tesi Delfico cita alcuni passi machiavelliani tratti dai capp. XVI e LVIII del lib. I dei Discorsi, cit., pp. 67 e 165-166.

(33) Osservazioni II, cit., p. 77.

(34) M. Delfico, Opinioni politiche, in A. Marino, Scritti inediti di Melchiorre Delfico, cit., p. 126, col titolo redazionale Idee per una costituzione.

(35) Osservazioni II, cit., p. 64.

(36) Sul «repubblicanesimo» del Discursus, cfr. R. De Mattei, Dal premachiavellismo all’antima-chiavellismo, cit., pp. 77-88, il quale sottolinea l’astrattezza e il carattere «antistorico» della proposta istituzionale di Machiavelli, tutta incentrata sulla mitica figura del «fondatore». Per una diversa lettura, cfr. Guidubaldo Guidi, Niccolò Machiavelli e i progetti di riforme costituzionali a Firenze nel 1522, in «Il Pensiero politico», a. II (1969), n. 3, pp. 580-590.

(37) Per la composizione dello scritto, il cui titolo per esteso è Discursus florentinarum rerum post mortem iunioris Laurentii Medices, cfr. Roberto Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Firenze, Sansoni, 19787, pp. 547-548; Giorgio Inglese, Il ‘Discursus florentinarum rerum’ di N. Machiavelli, in «La Cultura», a. XXIII (1985), n. 1, pp. 203-213; G. Guidi, Niccolò Machiavelli e i progetti di riforme costituzionali, cit., p. 583, nota 14.

(38) Il testo fu incluso in un volume dal titolo Opere inedite di Niccolò Machiavelli, pubblicato a Firenze con la falsa indicazione di Londra, per iniziativa di Giovanni Maria Lampredi.

(39) N. Machiavelli, Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze fatto ad istanza di papa Leone X, in Opere, cit., vol. IV, p. 113.

(40) Osservazioni II, cit., p. 70.

(41) Cfr. N. Machiavelli, Istorie fiorentine, in Opere, cit., vol. I, lib. II, cap. XII,  p. 79.

(42) Sul contrasto tra i due diversi «umori», cfr. Alfredo Bonadeo, Corruption, Conflict, and Power in the Works and Times of Niccolò Machiavelli, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 1973, pp. 41-71.

(43) L’ipotesi verrà però abbandonata nei capitoli diciassettesimo, diciottesimo e, soprattutto, cinquantacinquesimo del I libro dei Discorsi, nonché nel Discursus florentinarum rerum. Sull’evoluzione della teoria machiavelliana del principato popolare, cfr. G. Sasso, Principato civile e tirannide, in «La Cultura», a. XX (1982), n. 2, pp. 213-75 e a. XXI (1983), n. 1, pp. 83-137. Una diversa valutazione è in Giorgio Cadoni, Il principe e il popolo, in «La Cultura», a. XXIII (1985), n. 1, pp. 124-202. Dello stesso autore si veda anche Machiavelli. Regno di Francia e «principato civile», Roma, Bulzoni, 1974, pp. 110-129.

(44) Cfr. N. Machiavelli, Discorsi, cit., lib. I, cap. XVI, p. 65.

(45) Ivi, lib. I, cap. XVI, p. 66.

(46) Ivi, lib. I, cap. LV, p. 159.

(47) Ivi, lib. I, cap LV, pp. 160-161.

(48) Per un approfondimento di questi nessi, cfr. G. Sasso, Principato civile e tirannide, cit., pp. 115 sgg.; Niccolò Machiavelli, cit., vol. I, pp. 561-568; G. Cadoni, Il principe e il popolo, cit., pp. 190-202; Machiavelli. Regno di Francia e «principato civile», cit., pp. 136-143.

(49) Per un’analisi comparata dei due testi, rinvio a G. Sasso, Studi su Machiavelli, Napoli, Morano, 1967, pp. 139-159.

(50) Frammento delficino, in A. Marino, Scritti inediti di Melchiorre Delfico, cit., p. 131, col titolo redazionale Quale sia la migliore costituzione per l’Italia. Lo stesso concetto Delfico aveva espresso nel Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, cit., p. 169.

(51) Aveva scritto Delfico nel 1808 in un memoria ancora inedita dal titolo Pensieri che si propongono per rimediare agli inconvenienti della fondiaria: «I popoli nel loro senso comune riconoscono perfettamente che i bisogni dello Stato debbono essere da esso medesimo soddisfatti; ma sentono pure che l’ingiustizia in fatto di tributi nasce dall’ineguaglianza e questa dagli infelici metodi delle imposte e dal modo di eseguirle». Sulla proposta delficina di riforma del sistema contributivo, cfr. Armando De Martino, La nascita delle intendenze. Problemi dell’amministrazione periferica nel Regno di Napoli (1806-1815), Napoli, Jovene, 1990, pp. 340-343, da cui è stata tratta la citazione.

(52) N. Machiavelli, Discorsi, cit., lib. III, cap. I, p. 301.

(53) Osservazioni II, cit., p. 74.

(54) Cfr. Federico Chabod, Scritti su Machiavelli, Torino, Einaudi, 1968, pp. 218-220.

(55) Sul fatalismo che pervade il primo capitolo del lib. III dei Discorsi, cfr. le osservazioni di G. Sasso, Niccolò Machiavelli, cit., vol. I, pp. 617-622.

(56) Osservazioni II, cit., p. 73.

(57) Ivi, pp. 71-72.

(58) N. Machiavelli, Istorie fiorentine, cit., vol. II, pp. 1-2. Il brano è interamente riprodotto da Delfico negli Appunti sulle opere del Machiavelli, cit., p. 84.

(59) Cfr. Giovanni Gentile, Dal Genovesi al Galluppi, Napoli, Edizioni della «Critica», 1903, pp. 46 sgg., il quale afferma che nessuno prima di allora aveva negato la storia nel modo assoluto del Teramano. Sulle critiche gentiliane a Delfico, cfr. Maria Luisa Cicalese, Giovanni Gentile e la Rivoluzione francese, in Atti del congresso su La storia della storiografia europea sulla Rivoluzione francese, vol. II, Roma, Istituto storico italiano per l’età moderna e contemporanea, 1990, pp. 471-474. Un estremo radicalismo nell’«antistoricismo» delficino è stato rilevato anche da Benedetto Croce, La storiografia in Italia dai cominciamenti del secolo decimonono ai giorni nostri: 1. Il «secolo della storia»  e  2. Il nuovo pensiero storiografico, in «La Critica», a. XIII (1915), rispettivamente fasc. I, pp. 16-18 e fasc. II, p. 95, poi rielaborati nel volume Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, Bari, Laterza, 1921, e Guido De Ruggiero, Il pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Bari, Laterza, 1921, pp. 158-165.  

(60) Per una storia della fortuna dell’Arte della guerra nel secolo XVIII, cfr. R. De Mattei, Dal premachiavellismo all’antimachiavellismo, cit., pp. 313-331.

(61) Sulla composizione e datazione di questi scritti e sulla loro importanza per la conoscenza del pensiero machiavelliano si veda il volume di Jean-Jacques Marchand, Niccolò Machiavelli. I primi scritti politici (1499-1512), Padova, Antenore, 1975.

(62) Cfr. Osservazioni I, cit., p. 35.

(63) Sulle teorie militari di Machiavelli, cfr. Piero Pieri, Guerra e politica negli scrittori italiani, Milano-Napoli, Ricciardi, 1955, pp. 1-71.

(64) Sulla connessione nell’Arte della guerra tra questione militare e questione politica, cfr. Antonio Gramsci, Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno, Torino, Einaudi, 1966, pp. 14-15; F. Chabod, Scritti su Machiavelli, cit., pp. 220-222; Felix Gilbert, Niccolò Machiavelli e la vita culturale del suo tempo, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 193 sgg.; G. Procacci, Introduzione, cit., pp. LXVIII-LXXV; Vitilio Masiello, Classi e Stato in Machiavelli, Bari, Adriatica Editrice, 1971, pp. 125 sgg.; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, cit., vol. I, pp. 623 sgg.

(65) N. Machiavelli, Discorsi, cit., lib. III, cap. XXXI, p. 409; Il Principe in Opere, cit., vol. IV, cap. XII, p. 43.

(66) «Non basta adunque in Italia - scrive Machiavelli - il sapere governare un esercito fatto, ma prima è necessario saperlo fare, e poi saperlo comandare. E di questi bisogna siano quelli principi, che per avere molto stato ed assai soggetti, hanno comodità di farlo. De’ quali non posso essere io che non comandai mai, né posso comandare se non ad eserciti forestieri, e ad uomini obbligati ad altri, e non a me. Ne’ quali s’egli è possibile o no introdurre alcuna di quelle cose da me oggi ragionate, lo voglio lasciare nel giudizio vostro. Quando potrei io fare portare ad uno di questi soldati, che oggi si praticano, più armi, che le consuete; ed oltre all’arme, il cibo per due o tre giorni, e la zappa? Quando potrei io farlo zappare, o tenerlo ogni giorno molte ore sotto le armi negli esercizj finti, per potere poi ne’ veri valermene? Quando si asterrebbe egli da’ giuochi, dalle lascivie, dalle bestemmie, dalle insolenze, che ogni dì fanno? Quando si ridurrebbero eglino in tanta disciplina, in tanta ubbidienza e riverenza, che un arbore pieno di pomi nel mezzo degli alloggiamenti vi si trovasse, e lasciasse intatto, come si legge che negli eserciti antichi molte volte intervenne? Che cosa poss’io promettere loro, mediante la quale e’ mi abbiano con riverenza ad amare o temere, quando finita la guerra ei non hanno più in alcuna cosa a convenire meco?» (Dell’Arte della guerra, in Opere, cit., vol. IV, lib. VII, pp. 418-419).

(67) Riserve sulla effettiva coerenza in Machiavelli tra l’esigenza di una radicale  riforma militare e i mezzi da lui prospettati per attuarla sono state avanzate da F. Chabod, Scritti su Machiavelli, cit., p. 87, e da G. Sasso, Niccolò Machiavelli, cit., vol. I, pp. 189-213 e 640-642.

(68) Osservazioni I, cit., p. 35.

(69) Cfr. ivi, p. 36.

(70) N. Machiavelli, Discorsi, cit., lib. I, cap. XLIII, p. 130.

(71) N. Machiavelli, Dell’Arte della guerra, cit., lib. VII, p. 421.

(72) N. Machiavelli, Il Principe, cit., cap. IX, p. 35 e cap. XIX, p. 69.

(73) Osservazioni I, cit., pp. 36-37.

(74) Cfr. Giorgio BÀrberi Squarotti, L’«Arte della guerra» o l’azione impossibile, in «Lettere italiane», a. XX (1968), n. 3, pp. 281-306. Sul diverso atteggiamento di Machiavelli nel Principe e nell’Arte della guerra interessanti osservazioni in G. Procacci, Niccolò Machiavelli, in Storia delle idee politiche economiche e sociali, diretta da Luigi Firpo, vol. III, Umanesimo e Rinascimento, Torino, Utet, 1987, pp. 276-281; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, cit., vol. I, pp. 646  sgg.

(75) Osservazioni II, cit., p. 75.