L’interesse di Melchiorre Delfico per
Machiavelli si concretizza agli inizi degli anni Venti del XIX secolo,
allorché, ormai ottuagenario, opera una rilettura di quello che
definisce un «illustre autore», un «profondo» e «gran politico
pensatore», un uomo «superiore al suo secolo», che aveva «sentimenti
degni di stima», di cui ammirava la «sublimità dei talenti» e a
proposito del quale si rammaricava che erano stati trascurati «gli
avvisi della sua saggezza».
Lo scritto
delficino a cui alludiamo, e che solo recentemente è stato pubblicato,
ha per titolo Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del
Segretario fiorentino (1).
Prima di allora,
Delfico aveva criticato Machiavelli, così come aveva fatto con
Montesquieu e Rousseau, nei Pensieri su l’istoria e sull’incertezza
ed inutilità della medesima [1808], per la sua ammirazione per
l’antica Roma (2),
pur avendo in gioventù lasciato intravedere alcune affinità con le sue
teorie (3).
Un’attenzione,
quella delficina, che tuttavia non si era tradotta, fino al saggio che
stiamo considerando, in un’analisi sistematica delle teorie di
Machiavelli, nonostante, nella seconda metà del Settecento, si fosse
verificata in Italia una ripresa d’interesse per la figura e l’opera del
Segretario fiorentino
(4), del
quale fu data anche un’interpretazione antitirannica e repubblicana
(5).
Le Osservazioni
acquistano un rilievo critico consistente nella storia della fortuna di
Machiavelli in Italia nei primi decenni dell’Ottocento. Non soltanto
perché esse si collocano in un periodo di relativa stasi degli studi
machiavelliani nel nostro Paese
(6),
ma soprattutto perché esse offrono una lettura di Machiavelli operata
non attraverso l’analisi di una sua opera specifica, quanto invece di
alcune sue tesi tratte ora dal Principe, ora dai Discorsi
sopra la prima deca di Tito Livio, ora dalle Istorie fiorentine,
ora dal Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze, ora
infine dall’Arte della guerra.
Che cosa spinge
Delfico a scrivere le Osservazioni? Perché ad un tratto egli
avverte l’esigenza di confrontarsi col pensiero machiavelliano? Una
prima risposta è nel nuovo assetto politico determinatosi in Europa dopo
il crollo napoleonico. A Napoli era risalito sul trono Ferdinando IV
(dall’8 dicembre 1816 Ferdinando I, re del Regno delle Due Sicilie),
dopo un decennio di dominio francese, durante il quale i Napoleonidi
avevano avviato, collateralmente ad un certo decollo economico-sociale,
un rinnovamento della struttura amministrativa del Regno
(7),
a cui anche Delfico aveva partecipato, raggiungendo proprio in quegli
anni l’apice della sua carriera politica
(8).
Con la
restaurazione dei Borboni lo scrittore abruzzese teme non soltanto la
rivalsa delle forze reazionarie ma anche (soprattutto) che si interrompa
quel processo di sviluppo economico e di trasformazione sociale che
lentamente – aveva scritto ad un amico
(9)
- stava facendo «risorgere» il Paese. Il timore si trasforma presto in
certezza allorché Ferdinando I chiede l’intervento austriaco per porre
fine all’esperienza costituzionale del 1820-21 e dà vita ad un nuovo
governo reazionario. Delfico, che già dal 1815 aveva diradato il suo
impegno nella vita politica, si allontana definitivamente dagli ambienti
governativi (10).
In questa azione
di ripristino dell’antico, che si svolge all’insegna della
ricomposizione della vecchia alleanza tra trono e altare, il Teramano
vede profilarsi la minaccia di «rendere il mondo stazionario» se non
addirittura di «farlo a grandi passi o salti retrogradare»
(11).
Un’ipotesi resa, a suo avviso, ancora più probabile da letture
ideologicamente distorte di grandi autori, che alimentano l’esistenza di
pregiudizi dei quali ci si serve per sostenere fini politici
particolari.
Machiavelli è uno
dei pensatori privilegiati anche dal pensiero reazionario italiano della
prima metà dell’Ottocento
(12).
A lui si richiama uno dei maggiori rappresentanti di tale corrente, il
napoletano Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa
(13), nella
sua opera I piffari di montagna del 1820, scritta per denunciare
i «tanti errori» commessi a Napoli dai «partitanti» della rivoluzione e
del liberalismo, fra i quali include lo stesso Delfico
(14).
In essa, l’ex ministro di polizia non fa che estrapolare frasi dalle
opere del Fiorentino e alterarne il senso per legittimare politiche
repressive o contrastare tendenze innovatrici. Così, ad esempio,
riferendosi al passo dei Discorsi in cui Machiavelli vede
nell’intervento di un uomo «virtuoso», munito di estrema forza e di
mezzi straordinari, l’unica possibilità per debellare la «corruzione»
che si era generata nelle città di Milano e di Napoli
(15),
Canosa deduce in modo perentorio che dove c’è «poca moralità» occorre
che ci sia «poca libertà nel popolo» e «molta forza», «molto terrore» da
parte di chi comanda «perché comandare deve dispoticamente»
(16)
Sempre al
Fiorentino egli ricorre per difendere l’utilità dei corpi intermedi,
dell’aristocrazia ereditaria e, soprattutto, della classe baronale che
costituiscono le «vere barricate sociali» contro l’urto devastatore
della «canaglia democratica» e dei suoi demagoghi, che tramano per
rovesciare i troni legittimi
(17).
È in
questo clima culturale che Delfico rilegge Machiavelli per smascherare
alcuni pregiudizi che si sono formati sotto la sua «potente autorità»
(18) e per
soffermarsi su alcune idee del pensatore fiorentino «poco favorevoli ai
progressi della politica ragione»
(19), senza
tuttavia tralasciare alcune sue verità che potrebbero risultare ancora
utili per le civili società. Da questo confronto fuoriescono talora
divergenze più o meno accentuate e giudizi critici ma anche affinità e
valutazioni positive, a testimonianza dell’ammirazione che Delfico nutre
per Machiavelli.
Coesistono nelle Osservazioni due contrapposti atteggiamenti: da
un lato, una valutazione storicistica del pensiero machiavelliano,
considerato in relazione al suo tempo e come espressione del suo secolo,
secondo una lettura che si andava diffondendo agli inizi dell’Ottocento;
dall’altro, la tendenza a ricondurlo ai tempi presenti per poi
giudicarlo sulla base delle proprie esperienze e convinzioni.
Machiavelli è, per Delfico, innanzitutto figlio della sua epoca.
Un’epoca, quella tra il Quattro e il Cinquecento, piena di atrocità e di
frode, di corruzione e di delitti politici. Dell’«illustre autore» il
Teramano sottolinea il realismo politico e l’aderenza alla realtà
effettuale. Egli guarda pertanto il Principe non come un’astratta
speculazione politica, bensì come uno scritto d’occasione contenente una
particolare proposta operativa, in relazione ad un obiettivo politico
contingente, qual è la rigenerazione dell’Italia. Ma senza farne a tutti
i costi un precorritore del Risorgimento o un assertore dell’unità
nazionale, secondo un’interpretazione del Fiorentino allora assai
diffusa (20),
egli ammira in lui la «viva passione», la disperata ricerca di soluzioni
politiche capaci di porre fine alla grave crisi della società italiana
del Cinquecento.
Che la
rigenerazione dell’Italia fosse «la mira principale di quel politico
lavoro» appare chiaro, afferma Delfico, a chiunque ne legga l’Exhortatio
dell’ultimo capitolo: non vi è alcun dubbio che Machiavelli fosse
«ansioso», con il suo opuscolo, «di avervi parte», come egli stesso
spiega nella lettera a Francesco Vettori
(21). Tutta
l’opera sarebbe finalizzata a far uscire l’Italia dal «letargo» e la
strategia politica in essa delineata risulterebbe essere la sola
realmente praticabile. Destinatario dell’Exhortatio non avrebbe
potuto essere che un principe, non certo i popoli, fra i quali nessuno,
ritiene Delfico condividendo la tesi di Cuoco
(22), aveva
allora per Machiavelli le qualità necessarie per divenire «il
rigeneratore della grandezza Italiana»
(23).
La scelta
machiavelliana del Valentino quale liberatore degli Stati italiani
appare l’unica alternativa all’immobilismo e alla rassegnazione di
fronte alla decadenza politica e civile dell’Italia all’inizio del XVI
secolo. Questa radicalità autorizzerebbe Machiavelli, osserva Delfico, a
transigere su i mezzi e permette di comprendere come le stesse massime
machiavelliane «più infami», (perfino quelle che lo avrebbero reso un
autore esecrabile) siano da intendere più che come suoi intimi
convincimenti, come l’extrema ratio per il conseguimento di un
ideale politico, altrimenti inattuabile
(24).
Ma la
condizione dell’Italia, per la quale Machiavelli suggerisce la soluzione
del Valentino, non porta lo scrittore teramano a condividere interamente
tutte le tesi del Segretario fiorentino: «Se si possono giustificare le
sue intenzioni, e la persona» afferma Delfico «questo non vale per le
sue dottrine» (25).
Infatti, se da un lato egli comprende le preoccupazioni di Machiavelli e
fa proprie le sue speranze di una prossima rigenerazione, attuabile
quest’ultima solo attraverso mezzi eccezionali, dall’altro manifesta più
di una perplessità di fronte al suo realismo politico, non riuscendo di
fatto ad accettare la dissociazione machiavelliana tra etica e politica.
Netto è
il rifiuto di quelle massime del Principe, ispirate al detto che
«per regnar tutto lice», sublimi per la «politica de’ Gabinetti», ma «vilissime
e dannabilissime» per la morale
(26),
poiché ingenerano nell’opinione pubblica l’idea che si possa violare il
diritto e la giustizia a vantaggio di personali benefici.
Dopo
averlo collocato nella sua epoca, Delfico valuta il pensiero
machiavelliano alla luce delle esigenze e delle esperienze storiche,
politiche e culturali maturate tra il XVIII e il XIX secolo. Suo
obiettivo prioritario resta quello di sradicare, come abbiamo detto,
alcuni pregiudizi politici, ad arte mantenuti in vita per negare o
ostacolare qualsiasi progresso economico-sociale del paese. Tale intento
traspare sin dalla prime pagine delle Osservazioni, quando
Delfico si sofferma sulla concezione religiosa di Machiavelli.
Sorvolando sull’insieme degli aspetti problematici che il tema della
religione assume nell’opera del Fiorentino
(27), egli
prende in considerazione il giudizio sul cristianesimo e rimprovera a
Machiavelli di aver identificato (confuso) la religione in sé, la sua
dottrina, i suoi principi fondati sull’«umana fratellanza» e sui «più
nobili sentimenti», con la Chiesa come istituzione politica. Se solo
invece egli avesse provato a distinguere quest’ultima dalla religione
avrebbe capito (come pure una volta riconobbe nei Discorsi
(28)) che
era la condotta politica della curia romana la vera causa della rovina
degli Stati (29).
È lecito
credere che, attraverso l’accusa a Machiavelli, il quale invece si era
espresso spesso in modo assai critico nei confronti del potere temporale
della Chiesa, lo scrittore abruzzese volesse ammonire i contemporanei a
mantenere netta la distinzione tra la religione quale valore morale e
profonda esigenza dell’animo umano e il suo impiego politico. Questo non
perché egli avesse particolarmente a cuore l’interesse o il futuro del
cristianesimo, ma perché voleva mettere in guardia contro la appena
avvenuta legittimazione governativa dell’antico ordine, operata in nome
della religione e con l’avallo delle autorità ecclesiastiche. La
polemica politica lo conduce a rinfacciare a Machiavelli la presunta
eccessiva benevolenza nei confronti dei ministri del culto e a
rimproverargli di non aver sufficientemente colto quelle «miserabili
astuzie» (messe in atto dall’«impostura sacerdotale»), delle quali i
governi si erano avvalsi e continuavano ad avvalersi «per ingannar i
popoli e gravarli di nuovo giogo» ed «indurli ai loro voleri»
(30).
Altrettanto critico lo scrittore teramano si mostra nei confronti della
concezione machiavelliana della libertà perché priva, a suo giudizio, di
una precisa e corretta definizione. Di tale termine, infatti, il
Fiorentino si sarebbe avvalso per identificare situazioni storiche e
momenti politici differenti come il cambiamento di una forma di governo,
l’indipendenza dal dominio straniero, il trionfo di un partito,
l’introduzione di una qualsiasi riforma.
Per
l’anziano illuminista, che ha seguito l’intera dinamica rivoluzionaria
in Francia e in Italia, la libertà assume il duplice significato sia di
riconoscimento del diritto del cittadino ad essere giuridicamente
protetto dagli abusi del potere statale, sia di affermazione di uno
Stato che tuteli il cittadino da ogni forma di arbitrio e di
sopraffazione da parte di forze sociali nostalgiche dell’Ancien
Régime. La questione principale quindi per lui non è quella che
Machiavelli pone di stabilire «dove più sicuramente si ponga la guardia
della libertà», se nel «popolo» o nei «grandi»
(31), bensì
quella di riempire la libertà di un contenuto nuovo, di fare in modo che
essa dipenda da forme politiche basate sulla divisione dei poteri e
sulle distinte attribuzioni dei medesimi, e soprattutto che sia protetta
da «leggi fondamentali o costitutive», la cui importanza – che lo stesso
Machiavelli avrebbe intuito
(32) – egli
aveva colto sin dai tempi dell’Assemblea Costituente. Le costituzioni
rappresentano per lui «le condizioni necessarie per la buona esistenza
delle civili società»
(33),
poiché impediscono qualsiasi abuso di potere e permettono di assicurare
i diritti individuali e la tutela dei cittadini e dei loro beni sotto la
legge.
Della necessità ed
urgenza di un regime costituzionale Delfico è fermamente convinto, tanto
che aveva accolto la promessa di Ferdinando I nel 1820 di concedere la
costituzione come «il più prezioso regalo» che un sovrano potesse fare
al suo popolo. Le sue idee costituzionali, tuttavia, non hanno nulla di
eccessivo, non la pretesa di una «perfezione astratta», bensì la ricerca
di una soluzione «conveniente e proporzionata alle circostanze»
(34). Egli
rivendica un governo moderato, monarchico più che repubblicano, che
finalizzi la propria azione al conseguimento dell’uguaglianza politica,
«condizione necessaria al ben vivere politico»
(35).
Dell’uguaglianza,
come già della libertà, il Segretario fiorentino non avrebbe avuto che
un’idea vaga e imprecisa, dal momento che con quel termine egli sembrava
volesse indicare particolarmente l’uguaglianza delle ricchezze,
mentre avrebbe mostrato di tenere in poco conto l’uguaglianza dei
diritti, ignorando così che compito precipuo dello Stato è quello se
non di «distruggere», almeno di «limitare» le differenze politiche
esistenti tra i cittadini. Credette Machiavelli di poterla scorgere
nella Roma repubblicana e non si accorse invece che non può esserci mai
eguaglianza laddove la qualità di cittadino è «distinta in classi». In
mancanza di tali idee, non ci si meravigli, afferma Delfico, come egli
riuscisse «poco felice» nell’impresa affidatagli da Leone X di
presentare un piano di riforma della sua città natale.
Da molti
considerato, alla sua uscita, l’Antiprincipe per antonomasia, il
testo che più di tutti rivelava l’animo repubblicano di Machiavelli
(36), il
Discursus florentinarum rerum, scritto tra il 1520 e il 1521
(37), ma
pubblicato la prima volta nel 1760 col titolo Discorso sopra il
riformare lo Stato di Firenze ad istanza di Leone X
(38), non
sembra invece conquistare pienamente Delfico. Il progetto di realizzare
«una Repubblica perfetta» gli appare infatti lacunoso e perfino
discutibile. Lacunoso perché in esso il Fiorentino passerebbe sotto
silenzio tutta una serie di problemi relativi alla formazione,
all’organizzazione e alla durata del corpo sociale. Criticabile, invece,
perché nel Discursus Machiavelli non porrebbe i cittadini tutti
sullo stesso piano, per distinguerli successivamente secondo funzioni e
ruoli necessari per il buon funzionamento dello Stato, ma li dividerebbe
in tre classi permanenti («primi, mezzani ed ultimi»
(39)),
legittimando così una politica costituzionale fondata sull’ineguaglianza
«legale», proprio lui che pure aveva osservato che «il più
terribile fomite delle civili disunioni era l’ineguaglianza»
(40).
Nei confronti
della concezione machiavelliana dell’uguaglianza Delfico alterna giudizi
talora contrastanti a seconda che la sua valutazione si fondi ora su una
versione giuridica ora su un contenuto economico. Se nei riguardi
dell’uguaglianza giuridica egli assume una concezione abbastanza
uniforme, non altrettanto avviene nei confronti di quella economica.
Infatti mentre da un lato si dichiara contrario ad una assolutizzazione
del principio di uguaglianza economica, secondo una convinzione già
manifestata negli Indizi di morale del 1775, in cui si era
espresso a favore soltanto di un eguale diritto alla proprietà,
dall’altro ritiene opportuno oltre che doveroso assicurare una maggiore
uguaglianza delle ricchezze. La moltiplicazione del numero dei
proprietari avrebbe infatti rafforzato l’«attaccamento» verso lo stato e
allontanato il pericolo di eventuali sconvolgimenti politici. Forte di
questo convincimento, Delfico concorda con Machiavelli sull’origine
delle discordie negli Stati, ricondotta non ad una divinità malefica o
all’avverso destino, e neppure alla presunta malvagità umana, né tanto
meno al mancato perfezionamento della specie, bensì a «quella
ineguaglianza di diritti e di beni» a cui le leggi non seppero o non
vollero porre riparo. A tal proposito egli ricorda un passo delle
Istorie fiorentine
(41) in cui
si afferma l’assoluta inconciliabilità tra gli «umori» del popolo (che
non vuol «essere comandato né oppresso dai grandi») e quelli
dei grandi (che vogliono
«comandare ed opprimere il popolo»).
Questa
contrapposizione tra il popolo e i potenti
(42)
rappresenta una fonte di notevole preoccupazione per l’anziano
scrittore, che la vede, sebbene attenuata, continuare ad esistere negli
anni della Restaurazione.
Grande è
l’interesse che egli mostra per il capitolo nono del Principe,
definito «eccellente», in cui Machiavelli prende in considerazione la
possibilità di instaurare un principato popolare
(43).
Ugualmente eccellenti egli giudica le osservazioni contenute nel
capitolo sedicesimo del I libro dei Discorsi, in cui è ribadita
la necessità per i principi, per tutti i principi, compresi quelli che
per regnare hanno bisogno di ricorrere a «vie straordinarie», di fondare
il loro principato sul consenso della «moltitudine», di guadagnarsi il
popolo e di farselo amico
(44).
Come Machiavelli,
Delfico considera non solo necessario ma anche possibile assicurarsi il
favore popolare e se non condivide il radicalismo della proposta
machiavelliana, di «tagliare a pezzi tutti gli ottimati»
(45),
nessun dubbio però egli nutre sulla necessità da parte del sovrano di
renderli innocui, di tenere a freno la loro ambizione di dominio. Di
grande attualità egli trova in proposito il capitolo cinquantacinquesimo
del I libro dei Discorsi in cui Machiavelli tratta dei cosiddetti
«gentiluomini», di quegli uomini che «oziosi vivono dei proventi delle
loro possessioni abbondantemente, senza avere alcuna cura o di coltivare
o di alcun’altra necessaria fatica a vivere» e che, in quanto tali, sono
«al tutto nemici d’ogni civiltà»
(46).
Ma, dopo aver
condiviso le tesi di Machiavelli (che nelle Osservazioni suonano
come condanna implicita nei confronti della situazione politica in cui
vive), Delfico sottace la conclusione conseguenziale a cui giunge il
Segretario fiorentino:
Trassi adunque di questo discorso questa conclusione, che
colui che vuole fare dove sono assai gentiluomini una
repubblica, non la può fare se prima non gli spegne tutti: e
che colui che dove è assai equalità vuole fare uno regno o
un principato, non lo potrà mai fare, se non trae di quella
equalità molti d’animo ambizioso ed inquieto. […]
Costituisca adunque una repubblica colui dove è, o è fatta
una grande equalità, e all’incontro ordini un principato
dove è grande inequalità, altrimenti farà cosa senza
proporzione, e poco durabile (47). |
Machiavelli fissa in questo passo la duplice, stretta, correlazione tra
«equalità» e «repubblica» da un lato, e «inequalità» e «principato»
dall’altro
(48).
Egli identifica inoltre la «inequalità» e la «equalità» con la presenza
o l’assenza nello Stato dei «gentiluomini». Ne consegue che voler
«spegnere» i gentiluomini equivale a tendere verso l’«equalità» e
quindi, in definitiva, alla costituzione di una repubblica; al
contrario, mantenere o fare «gentiluomini in fatto» significa scegliere
l’«inequalità» e quindi avere come obiettivo la conservazione o la
creazione di un principato.
Ignote
sono ancora le ragioni per le quali Delfico sorvola sulle ultime
implicazioni della riflessione machiavelliana, se perché considera
quelle equazioni prospettate nei Discorsi, e di lì a poco
ripresentate nel Discursus florentinarum rerum
(49),
troppo rigide e schematiche o perché giudica, invece, una piena adesione
a quelle soluzioni teoriche troppo compromettente nei confronti del
potere costituito. Se da un lato, infatti, egli è attento a non
oltrepassare i limiti della tollerabilità, dall’altro considera il «bene
pubblico» adattabile ed eseguibile sotto qualunque specie di governo,
sebbene le sue preferenze vadano per la monarchia considerata «la più
vera forma di governi umani»
(50).
Dall’analisi machiavelliana,
pertanto, più che la tesi della contrapposizione fra l’eguaglianza della
repubblica e l’ineguaglianza del principato, Delfico riprende la ferma
condanna della persistenza di profonde sperequazioni economiche e
sociali. Rimuovere o anche semplicemente ridurre queste disuguaglianze
equivale per lui ad agire in direzione del «bene pubblico», che
costituisce l’oggetto costante e principale dei suoi pensieri e che
ritiene non essere prerogativa di alcun governo. La stessa esigenza di
«spegnere» i gentiluomini gli appare non come un passaggio esclusivo
della repubblica, bensì di qualsiasi forma politica.
Sempre in
tema di uguaglianza, Delfico riconosce inoltre al Fiorentino il merito
di aver compreso l’importanza e la necessità (da lui entrambe condivise)
di introdurre un criterio di uguaglianza anche nel sistema contributivo
(51).
Altro
momento di confronto è dato dall’affermazione machiavelliana: «A volere
che una Setta o una Repubblica viva lungamente, è necessario ritirarla
spesso verso il suo principio»
(52).
Il postulato sarebbe in contraddizione con quanto affermato dal
Segretario fiorentino nel capitolo diciottesimo del I libro dei
Discorsi circa la necessità di cambiare gli ordini e le leggi nel
corso del tempo: «verità importantissima – commenta Delfico, alludendo
alla realtà in cui vive – che i legislatori ed i governi sovente con
grave danno trascurano»
(53).
È questo l’argomento su cui le posizioni dei due autori divergono
maggiormente. La tesi di ritirare gli Stati verso il loro «principio»
(intesa da alcuni come una «trasposizione» sul piano profano del mito
religioso medievale del «rinnovo»
(54))
nasce, secondo lo scrittore meridionale, da un equivoco di fondo
generato da una fatalistica e malintesa concezione dello sviluppo delle
società civili
(55),
che porterebbe Machiavelli a credere che nel loro susseguirsi esse
corrano necessariamente più verso la «corruzione» che verso il
«progresso». Da questo punto di vista, ritirare gli Stati al loro
«principio» non significherebbe altro che creare le condizioni per farli
ritornare alla loro ottimale forma originaria.
Se si
considera però che le prime società – afferma Delfico – non ebbero
affatto un carattere di perfezione ma «nacquero quasi sempre sotto gli
auspici dell’ignoranza e della violenza» e che esse non poterono nel
tempo che migliorare, è evidente che voler mettere in pratica la teoria
machiavelliana equivarrebbe a respingere quelle società verso
«l’originale barbarie, privarle di ogni civile miglioramento e
rinunciare agli effetti di quella perfettibilità che fu il più singolare
dono che la Provvidenza facesse all’uman genere»
(56).
Alla
teoria machiavelliana della storia come «progressiva necessaria
corruzione» (argomento fatto proprio, commenta l’anziano scrittore, «dai
vari ipocriti lodatori del passato, e naturalmente disgustati del
presente»
(57)),
Delfico contrappone la sua visione illuministica di un processo storico
continuo e indefinito. Condividere quella concezione
piuttosto che questa significherebbe per il Teramano arrestare il
progresso umano e precludere quel naturale miglioramento delle società,
cui sembrano invece essere destinate.
Un eguale dissenso, infine, egli
esprime nei confronti della filosofia della storia di Machiavelli per il
suo carattere progressivo e regressivo al tempo stesso:
Perché non
essendo dalla natura conceduto alle mondane cose il fermarsi, come elle
arrivano alla loro ultima perfezione, non avendo più da salire, conviene
che scendino, e similmente scese che le sono, e per gli disordini ad
ultima bassezza pervenute, di necessità non potendo più scendere,
conviene che salghino, e così sempre dal bene si scende al male, e dal
male si sale al bene
(58). |
Un ampio
spazio nello scritto delficino viene riservato alla questione militare a
testimonianza dell’importanza che il tema assume per il Teramano e della
sua preferenza per il Machiavelli scrittore politico-militare rispetto
sia al Machiavelli storico (Discorsi) sia al Machiavelli
politico del suo tempo (Il Principe). Egli considera le vedute
militari del Fiorentino estremamente utili e pertanto meritevoli «di
essere portate ad una maggiore luce». Di fronte ad esse egli approva
perfino il richiamo di Machiavelli alle antiche istituzioni romane e ne
ammira la «grande conoscenza» storica, della quale sembra qui ammettere
l’utilità, lui che pure sarà considerato l’esponente più rappresentativo
dell’antistoricismo italiano
(59).
Nell’affrontare il problema militare, Delfico ha presente oltre all’Arte
della guerra, opera, diversamente dal Principe e dai
Discorsi, ancora poco nota e apprezzata agli inizi dell’Ottocento
(60),
anche gli scritti di militari precedenti
(61),
di cui ammira in particolare le due Provvisioni per istituire Milizie
nazionali nella Repubblica fiorentina del 1506 e del 1512.
Chiara è
in lui la consapevolezza della duplice valenza, militare e politica, del
pensiero del Segretario fiorentino, il quale ha considerato la guerra
non solo nella molteplicità dei suoi rapporti, ma anche, soprattutto, in
quelli che la legano più strettamente alla politica
(62).
Più che gli aspetti tecnico-militari
(63),
è la correlazione che egli stabilisce tra organizzazione militare e
costituzione politica
(64)
ad attirare l’attenzione del Teramano, che condivide l’enunciato
machiavelliano dei Discorsi, presente anche nel Principe,
secondo cui «il fondamento di tutti gli Stati è la buona milizia» e
«dove non è questa, non possono essere né leggi buone, né alcuna altra
cosa buona»
(65).
La
costituzione di «buone armi» risulta essere dunque un fattore
determinante per la formazioni di «buoni ordini». Se da un lato il
problema militare investe il problema politico, dall’altro esso viene da
questo fortemente condizionato
(66).
Occorre che il principe riorganizzi il potere militare sulla base di un
nuovo rapporto fondato sulla reciproca solidarietà tra il popolo, che
vede nel principe la realizzazione dei propri interessi, ed il principe,
che trae dal consenso del popolo una maggiore stabilità del proprio
potere
(67).
Della
fondatezza delle tesi militari di Machiavelli Delfico è pienamente
convinto, tanto da ritenerle ancora valide per il suo tempo, quando
continua ad esistere il problema della formazione di una milizia
nazionale, «fornita di forza fisica ed animata da forza morale»
(68).
Pertanto, se è indispensabile munire i soldati di «particolare
istruzione ed educazione» perché acquisiscano nuove abitudini e qualità
sia fisiche che mentali, lo è ancor di più infondere loro sentimenti di
amor patrio e offrire motivi di attaccamento allo Stato e alla società
civile, i soli in grado di legare i militari in modo permanente alla
causa per cui combattono, perché in tal modo essi verrebbero a
identificare la loro lotta con la difesa o il miglioramento del proprio
«ben essere» e dei «beni della vita civile»
(69).
Trae
origine da qui la polemica delficina contro gli eserciti mercenari il
cui limite di fondo consiste, come aveva affermato Machiavelli, nel non
avere «affezione» verso colui per cui essi combattono, tale da farli
diventare suoi «partigiani», senza la quale «non vi potrà essere tanta
virtù che basti a resistere ad uno nimico un poco virtuoso»
(70).
Scartata
l’ipotesi di un ricorso alle truppe mercenarie, il compito di
salvaguardare e fortificare le istituzioni civili e politiche spetta,
per Delfico, unicamente alle milizie proprie, che animate da una «vera
forza morale» spesso danno prova di grande coraggio e sono capaci di
imprese straordinarie. Milizie caratterizzate non più dai vecchi quadri
militari, bensì da una nuova figura che implica una continua e profonda
immedesimazione tra il cittadino e il soldato.
Il
problema assume a questo punto una connotazione politica. Perché sorga
nei cittadini l’«affezione» verso il proprio principe e diventino
essi soldati a lui fedeli, occorre, secondo lo scrittore abruzzese,
procedere ad una ridefinizione del rapporto tra sudditi e principi, che
presupponga da parte di questi ultimi un cambiamento radicale del modo
con cui avevano fino ad allora regnato e che abbandonino il principio,
criticato anche da Machiavelli, che bisogna «governarsi co’ sudditi
avaramente e superbamente»
(71)
per cercare, invece, come aveva ammonito ancora il Fiorentino, di
«guadagnarsi il popolo», di «satisfare al popolo, e tenerlo contento»
(72),
interpretando le sue aspirazioni e traducendole in programmi politici.
Quando dunque - conclude Delfico - i Governi con le
buone istituzioni, colle buone leggi ed ordini rendono piacevole la
vita, quando una istituzione militare ben immaginata è eseguita da
corrispondenti istruzioni ed ordinanze, quando il militare può
riguardarsi come un essere dotato di più utili qualità che prima non
aveva, e quando può essere condotto a tale da stimar la sua condizione,
e conoscersi in grado da poter adempiere le publiche mire per la sua
destinazione, e ciò con tutte le cure corrispondenti, che gli ne faccino
nascere il sentimento, allora l'uomo della guerra dovrà considerarsi
come un funzionario dello stato, e pronto ad eseguire i doveri che si
avrà imposti verso la patria e il Sovrano i quali dal canto loro avranno
contribuito alla sua formazione. Ma se - continua egli con accenti
machiavelliani - le condizioni del ben vivere politico mancano in uno
Stato, se l’ineducazione da una parte e la miseria e l’oppressione
dall’altra rendono poco gradita la civile coesistenza […] e non fanno
nascere i nobili sentimenti di affezione per i governi, né il
desiderio di accrescere le proprie forze fisiche e morali. […] E se
veggiamo talora che il bastone, le catene, ed i più severi castighi
prendono il luogo di una ragionevole educazione, è facile il giudicare
che da essi potranno sorgere piuttosto de’ satelliti della Tirannia, che
de’ difensori di quella libertà, cui sempre usarono ospitalità gli umani
governi
(73). |
Delfico pone qui
esplicitamente il problema di una riforma dello Stato, delle sue
istituzioni e di una nuova visione della politica, che concepisca la
gestione del potere a vantaggio non esclusivamente del principe, ma
anche dei cittadini. Dalla capacità o meno dei governanti di creare «le
condizioni del ben vivere politico» dipendono, a suo avviso, la coesione
all’interno dello Stato, la nascita nei cittadini di sentimenti di
solidarietà e di «affezione» o, al contrario, di assoluta apatia nei
confronti dei governi, la trasformazione cioè dei sudditi-soldati o in
«satelliti della tirannia» o in paladini della libertà.
Eppure,
nonostante l’invito all’azione, non si può non avvertire il tono
distaccato dell’esortazione, un certo disincanto nei confronti delle
possibilità dei governanti.
Se si
paragona l’atteggiamento pacato delle Osservazioni con quello
appassionato e ottimistico delle Memorie giovanili o degli
scritti dei primi anni della rivoluzione si ha l’impressione che Delfico
ripercorra la parabola che era stata propria del Segretario fiorentino
quando era passato dalla fiducia totale, nel Principe, in una
rigenerazione della politica italiana, all’amara constatazione, nell’Arte
della guerra, della «negatività della situazione»
(74) alla quale era ormai impossibile opporsi.
In
realtà, pur alimentando in Delfico molti dubbi e perplessità, il clima
politico degli anni in cui scrive il saggio su Machiavelli non incrina
la sua fiducia nel progresso, sempre configurato come un processo
ineluttabile verso forme e condizioni di vita politica e civile più
elevate. Ma la loro attuabilità dipende, per il Teramano, diversamente
dal passato, assai più che dal favore delle circostanze o di un principe
illuminato, da una ridefinizione dei fondamenti della «vera politica» e
dei suoi contenuti. E in ciò consiste la novità maggiore delle
Osservazioni.
A
rafforzare in lui l’avversione verso qualsiasi gestione arbitraria e
repressiva del potere, che rende «retrograda l’umanità […] vietandole
ogni avanzamento»
(75),
vi è la convinzione, consolidata dalla lettura di Machiavelli, che «la
politica è una scienza, e non altro che la pratica della universale
filosofia, che si propone il bene di tutti, di chi comanda e di chi
obbedisce», dei governanti come dei governati.
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