È
la favola bella, ma questa volta Ermione no, non c'entra, È la favola
bella, ma non c'entra nemmeno la pioggia che bagna il pineto.
Questa
volta Ermione assume le sembianze di una fanciulla fin troppo bella, fin
troppo nobile per il giovanissimo d'Annunzio che nei confronti del
sangue blu aveva una spiccata sensibilità che lo portò a condurre
sull'altare, qualche anno dopo, sia pure con un matrimonio riparatore
(siamo nel 1883), la duchessina Maria Hardouin di Gallese.
Ma
torniamo indietro di qualche stagione.
Vinca,
è lei la fanciulla della quale stiamo parlando, era la più giovane
delle quattro figlie di don Filippo De Filippis Delfico, nobile teramano,
discendente da uno dei personaggi più illustri d'Abruzzo, il filosofo
illuminista Melchiorre Delfico.
Aveva
16 anni quando d'Annunzio (di due anni più giovane) l'aveva
incontrata lungo la spiaggia di Montesilvano, dove trascorreva
l'estate nella residenza di famiglia.
Troppo
bella, ma soprattutto troppo nobile per il giovane pescarese che non
avrebbe mai potuto varcare gli austeri e patrizi cancelli di quella
dimora.
Eppure
la favola era destinata a continuare. Nel 1881, Vinca, appena ventenne,
sposò Simone Sorge, un 23enne proprietario terriero della Vibrata e,
naturalmente, seguì il marito nel palazzo avito di Nereto. Don Simone
era intimo di Francesco Paolo Michetti e, vista l'amicizia che legava
quest'ultimo allo scrittore, il gioco... era fatto.
Il
giovane rimase folgorato dall'avvenenza, dall'intelligenza di quella
donna, ma, di contro, dovette irritarlo il fatto che ella gli avesse
preferito un proprietario terriero. Così che, forse per spirito di
"vendetta", diede il suo nome alla protagonista di una novella,
affatto diversa nel carattere e nella moralità da Vinca, persona, come
un tempo si diceva, di preclare virtù.
A
madonna Vinca i giovani artisti del cenacolo francavillese dedicavano
dipinti, libri, note e stornelli: il ritratto eseguito da Michetti, le
prime edizioni dei romanzi di d'Annunzio, la gavotta di Vittorio Pepe.
Era
soprattutto Michetti a cercare di strappare la giovane nobile dalla
monotonia di quella vita con frequenti lettere, inviti a Francavilla e
visite improvvisate a Nereto,
A
queste ultime si univa, con entusiastico e spiegabile interesse,
Gabriele d'Annunzio.
A
questo punto si apre un capitolo -breve- della vita dannunziana,
ignorato dalla biografia ufficiale, ma non colpevole di questa lacuna.
Fu lo stesso Gabriele, in verità, a non trasformare mai l'amicizia
con Vinca in un evento letterario. Insolito appare il suo riserbo in
considerazione di quanto fosse solitamente prodigo nel descrivere i
luoghi visitati e le sue conoscenze. L'esperienza teramana passò,
quindi, sotto silenzio, relegando l'intera provincia in un angolo
d'Abruzzo, visti gli scarsi legami che con essa avrà anche in
seguito. Il silenzio sceso sulla aristocratica amicizia può però ben
comprendersi se si tien conto che c'era ben poco di cui vantarsi visto
che la Sorge, rimanendo fedele ai suoi principi, era riuscita a
resistergli.
Nel
periodo in cui ha inizio il carteggio, pubblicato da Paola Sorge con
l'editore romano "Le impronte degli uccelli", d'Annunzio, da
poco più di un anno, aveva irretito la "bella romana" Barbara
Leoni, l'ispiratrice del Trionfo della Morte. Il fitto epistolario con
Barbarella, edito nel 1954, precede solo di qualche giorno quello con la
Sorge: 9 giugno 1887, l'uno; 25 giugno 1887, l'altro. Eppure, se in
molte altre occasioni d'Annunzio darà la possibilità di sovrapporre
-quasi che si tratti di fotocopie - interi periodi di lettere inviate ai
vari corrispondenti, in queste è difficile, se non impossibile, trovare
elementi comuni. E comprensibile che volesse nascondere alla donna amata
(!) le gioie che gli procuravano le gite a Nereto, ma addirittura ogni
qualvolta che ne parlò alla Leoni lo fece sempre con tono seccato,
quasi che altri lo costringessero ad andarci.
Il
18 giugno, alla vigilia di una di queste sortite, scrive alla Leoni: «Lunedì
sono impegnato per un viaggio a Nereto e nella restante provincia di
Teramo. Cercherò di sottrarmi e di partire. Ma non so se riuscirò,
perché tu sai che non sono solo e che ho meco un ospite».
Una
settimana più tardi, il giorno 25, a madonna Vinca, nel comunicarle che
lui e gli amici non sarebbero più andati a trovarla, scrive: «Lunedì
dunque noi non verremo a battere alla vostra porta, non verremo a
chiedere ospitalità nella vostra casa che già ci accolse con tanta
larghezza di cortesia; né ci sederemo alla mensa illuminata
magnificamente dal vostro sorriso [...]. La memoria dei bei giorni di
Nereto sarà assai lunga e assai dolce per tutti».
«La
memoria dei bei giorni di Nereto» e quella casa che «già li accolse
con tanta larghezza di cortesia», lasciano intendere che gli amici del
Cenacolo da tempo fossero abituati a recarsi a Nereto, magari di ritorno
da qualche escursione sul Gran Sasso.
La
cittadina costituiva una tappa obbligata anche in considerazione delle
lunghe distanze e soprattutto della difficile percorribilità delle
strade. Durante quelle accoglienti soste, d'Annunzio non era soltanto
attratto dalla «mensa fiorita» e dal «vino di topazio e di rubino»
di casa Sorge. Egli era letteralmente rapito dalla padrona di casa, così
vivacemente intellettuale e così severamente salda nei suoi principi
morali. Il poeta sperava di poterla conquistare, confidando nel fatto,
forse, che quella donna avrebbe finito col cedere alle lusinghe di un
mondo sicuramente più vicino (con le debite proporzioni!) ai salotti
intellettuali teramani dai quali la famiglia discendeva che non alla
angusta realtà di quella cittadina.
Il
2 luglio, in occasione di un'altra visita all'amica teramana, per
giustificare alla Leoni il suo silenzio scrive disperato: «Dovetti
partire per Nereto e son rimasto la tre giorni, fino ad oggi, vagando
per paesi dove non c'era posta e non c'era telegrafo... ».
Adorabile
bugiardo! A Nereto, non solo c'era l'ufficio postale; c'erano la
Pretura, la Cassa di Risparmio, un'associazione di mutuo soccorso
oltre ad avere una sviluppata attività commerciale e artigianale e a
vantare uno dei cinque mercati più importanti della provincia.
D'Annunzio
gioca, adesso, a carte scoperte. Il 9 marzo 1888 comunicò a donna Vinca
di doversi recare a Teramo ad una festa, sperando, poi, di poterla
andare a trovare, sia pure per «una visita breve»: «Ho un gran
desiderio di rivedervi».
Ma
è con la lettera dell'8 settembre dell'88 che il 25enne Gabriele
confida, ormai senza remore, le sue pene amorose: «Avete mai pensato
che da quasi dieci anni a intervalli io giro intorno a voi e sono
attratto dal vostro fascino? Ero fanciullo e camminavo lungo la riva del
mare, alla ventura, con la vaga speranza d'incontrarvi. Sono un uomo
corrotto dalla esperienza della vita, provato dal dolore, e tendo le
braccia verso di voi come verso la mia chimera più desiderabile. Che
avete voi? Qual segreta attrazione è ne' vostri occhi varianti come
un'acqua profonda che chiuda in sé strani tesori?».
Il
18 settembre, dieci giorni dopo la sconvolgente confessione, allo
scrittore, che si trovava a Francavilla, ospite dei Michetti, arrivò da
Nereto un cesto di pesche, e di altri splendidi frutti, forse gli ultimi
dell'estate che stava per finire. Sul biglietto che l'accompagnava
era scritto per il "Signor d'Annunzio": come a voler mostrare un
signorile distacco da quella dichiarazione.
Strano
destino subì la lettera dell'8 settembre. La Sorge la strappò nel
1890, forse dopo aver letto il Piacere, ma solo dopo averne fatto una
copia.
Il
13 maggio 1889 d'Annunzio aveva pubblicato il Piacere con la casa
editrice Treves. Ne mandò subito una copia con dedica a Vinca che il 21
maggio, appena una settimana dopo, gli rispose mostrandosi sconvolta
dalla lettura appena terminata. Nel protagonista Andrea Sperelli aveva
chiaramente ritrovato d'Annunzio ma, soprattutto, in Maria Ferres
(ipotizza Paola Sorge) aveva rivisto se stessa. «Voi non saprete mai
-confessa Sperelli- fino a qual punto la mia anima è vostra...».
Parole che a Vinca suonarono famigliari. Solo allora, però, si rese
pienamente conto della corruzione e del cinismo di quell'uomo. Eppure,
sorretta dalla Provvidenza e da una fede incrollabile, ella non aveva
ceduto.
Il
21 maggio si rivolse all'amico: «Ma perché scrivete voi questi
libri?... Un giorno dovrete renderne conto a Dio [...]. Perché la
vostra penna, che potrebbe sollevarsi altissima, la degradate così,
costretta incessantemente nella miseria la più triste? [...]. Voi siete
Andrea Sperelli, vi siete ricopiato in ogni minima piega dell'animo
[...]. Io non so capire come siete voi, chi vi ha traviato così... come
potete scrivere perennemente in un'atmosfera corrotta... Io non so
capire...». E chiude: «[...] rifugiandomi nella mia solitudine, ho
benedetto il mio piccolo paese e la semplicità della mia famiglia».
Quell'episodio,
quella lettera avrebbero potuto turbare un'amicizia, interrompere
bruscamente una favola bella. Così non fu. D'Annunzio si spogliò dei
panni del corteggiatore per tornare a vestire quelli dell'amico e
donna Vinca, ingenuamente, conservò la speranza di poterlo redimere.
Egli continuò a frequentare casa Sorge, insieme a Michetti, fino al
1894.
Qualche
anno più tardi, Vinca, che intanto si era tenuta informata delle
tumultuose vicende sentimentali di lui, gli scrisse un biglietto
firmandosi «una vecchia amica affatto diversa da tutte le vostre altre».
Prudentemente, però, quel biglietto non arrivò mai a destinazione.
All'età
di 49 anni Vinca Sorge fu colpita da una malattia che lo stesso prof.
Murri, un luminare dell'epoca, non seppe diagnosticare. Nel 1910, il
marito e i figli (ne aveva avuti sette) preoccupati per la sua salute,
cominciarono a far costruire una villa sulla riviera di Pescara,
sperando che il clima marino le avrebbe giovato. Ma in quella sontuosa
dimora ella non entrò mai. Mori il 23 maggio 1911.
Una
data nella cappella di famiglia, al cimitero di Nereto, racconta la fine
di questa favola.
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