Il giudizio sulla Rivoluzione
Francese |
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Capitolo II°
di
"Melchiorre Delfico. Riforme politiche e riflessione teorica di un
moderato meridionale", Pisa, Edizioni ETS, 1996
di Gabriele Carletti |
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Le considerazioni
sulla Francia rivoluzionaria, non certo numerose e talvolta
laconiche (1), sono per lo più rintracciabili nei suoi
appunti, in brani di memorie inedite o non terminate e,
soprattutto, nella corrispondenza con gli amici. Il
carattere frammentario dei suoi giudizi non deve però
indurre a credere in una scarsa o tardiva attenzione verso
la grande rivoluzione, della quale, anzi, subirà presto
l'influenza e la cui portata egli ritiene si estenda ben
oltre i confini francesi.
Già prima dell'89
Delfico guarda alla Francia, al pari di altri illuministi
napoletani, «non solo come alla potenza egemone dell'Europa
continentale, ma come alla nazione guida in fatto di
cultura, di costume, di moda»(2).
Un interesse particolare mostra per le opere di Necker, la
cui politica di riforme alimenta nuove e maggiori speranze
in quanti, come lui, vedono nell'assolutismo illuminato la
sola possibilità di rinnovamento del paese (3). Nei confronti
del banchiere ginevrino («illustre» e «sublime autore»,
«miglior conoscitore dei rapporti della pubblica economia
con la felicità nazionale» (4), che denuncia l'iniqua
distribuzione delle fortune e difende gli interessi
dei non proprietari rivendicando l'intervento dello Stato
per impedire che i privilegi della proprietà possano
generare sommosse e rivolte popolari, il Teramano nutre una
profonda ammirazione (5) che non gli impedisce tuttavia di
muovergli qualche garbata critica, convinto che «senza una
parità di circostanze» difficilmente le stesse leggi possono
essere adottate indifferentemente in paesi diversi.
Nel 1787 egli ha
il presentimento di un prossimo sconvolgimento della società
francese per le tante «difformità politiche ed economiche»
ancora esistenti, a causa della incapacità di rimuovere
vecchi «abusi radicati» (6). Nella persistenza degli abusi,
primo fra tutti «l'addensamento» delle ricchezze nelle mani
di pochi, lo scrittore abruzzese vede il formarsi di
«dispotiche aristocrazie», spesso all'origine di «frequenti
rivoluzioni», di «mostri politici» e di «feroci convulsioni
negli Stati» (7).
Con l'annuncio
della convocazione degli Stati generali [agosto 1788] e le
richieste del Terzo Stato, la sua curiosità per le vicende
d'oltralpe si fa ancora maggiore. Gli scrive Giuseppe
Gorani (8) il 28 marzo 1789:
La Francia non s'occupa d'altro che de' suoi prossimi Stati
Generali, i quali rigenereranno la monarchia. Da otto mesi
in qua non si stampa in Parigi se non cose relative a quel
grande avvenimento. E' da desiderarsi che non insorga in
questo tempo alcuna guerra che possa disturbare le misure di
Necker per lo stabilimento sicuro del credito della nazione
francese e per la felicità permanente di quella grande
monarchia. Il re è risoluto a sostenere il suo ministro e
tutto sembra promettere una rivoluzione felice nel tempo
istesso in cui tante altre monarchie tendono alla rovina (9).
Del dibattito
politico che si svolge in Francia alla vigilia dell'apertura
degli Stati generali Delfico non doveva essere del tutto
ignaro tanto più che, in quel periodo vivendo in
Lombardia (10), ha modo di frequentare gli ambienti
riformatori milanesi ed entrare in contatto con Beccaria,
Soave (11), i fratelli Verri, Parini, Spannocchi (12),
Amoretti (13) ed altri ancora, con alcuni dei quali manterrà
un rapporto di amicizia (14).
Né certo gli sarà stato difficile, durante la permanenza nel
Nord Italia, tenersi informato sugli avvenimenti francesi
attraverso la stampa. Infatti, non solo le rivendicazioni
del Terzo Stato, che incontrano favorevole accoglienza pure
sui fogli più moderati come la stessa «Gazzetta
Enciclopedica» di Milano redatta da Soave (15), ma anche la
presa della Bastiglia, i primi decreti dell'Assemblea
Costituente, la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del
cittadino trovano ampia risonanza sui numerosi periodici
e gazzette allora in circolazione (16). E' lecito credere
anzi che, oltre a seguire, egli guardasse con simpatia a
quanto stava accadendo oltralpe, come si ricava dalla
lettera del 7 agosto 1789 di Spannocchi, il quale si rivolge
a Delfico come ad un amico che condivide lo stesso
entusiasmo per le «nuove» di Francia, quasi queste
rappresentassero per entrambi la realizzazione di ideali
comuni:
Cosa dite dei francesi? Danno de' bei colpi al Dispotismo e
l'assemblea può finire tranquillamente il suo lavoro, tutta
l'Europa ne sentirà in breve l'influenza. Anche i vostri due
regni (17) parteciperanno di questo benigno influsso, e voi
sarete il Neker [sic] della nazione (18)
Nel Regno di
Napoli il dibattito sulla feudalità era andato accentuandosi
nel corso degli anni Ottanta. Prima con Genovesi, poi con
Galanti, quindi con Filangieri l'attacco contro il sistema
feudale si era fatto sempre più diretto ed esplicito (19). In
particolare Filangieri, nel terzo libro della Scienza
della legislazione, aveva accusato la feudalità di
dividere «lo stato in tanti piccoli stati, la sovranità in
tante piccole sovranità» (20) pur essendo egli per sua natura
indivisibile e inalienabile. Lo stesso Delfico, come abbiamo
visto, aveva partecipato al dibattito denunciando con le sue
memorie i mali sociali provocati dal regime feudale.
L'abolizione dei diritti feudali in Francia non può dunque
non trovare in lui un estimatore. Come affermano Spannocchi
e Verri, i «fatti» di Francia costituiscono un esempio per
tutti i «Regnanti di questa terra» (21) e «servono di modello
agli altri popoli» (22).
Tornato a Teramo,
Delfico decide di trasferirsi a Napoli sia perché «dopo aver
goduto e veduto tanto di buono», scrive a Fortis (23), la
vita di provincia gli sarebbe «insopportabile», sia,
soprattutto, «per la patria che quanto più è tapina, tanto
più ha bisogno degli uffizj di qualche anima che senta la
commiserazione» (24) e fornisca lumi ad un governo che, già
nell'estate dell'88, si era mostrato poco determinato nel
perseguire una politica riformistica, intento ad occuparsi
«moltissimo di baje» ed a trascurare invece «gli affari che
sarebbero stati della massima importanza» (25). E' convinto,
al contrario, che occorra intervenire al più presto e senza
alcuna incertezza. A rafforzarlo in quest'idea è anche
Spannocchi che gli scrive da Milano il 31 marzo 1790: «In
Francia siamo alle strette, spero che non la
scomunicheremo (26): veramente l'Europa è in una vera crisi,
ma almeno l'oggetto interessa tanto l'umanità da prendere
più in pace qualche malanno dei viventi» (27). Vi è nei due
amici la fiducia che la rivoluzione francese favorisca il
progetto riformatore e che, soprattutto nel Meridione, essa
possa e debba «portare finalmente a maturazione le questioni
da tanto tempo sollevate e discusse» (28). E' con
soddisfazione dunque che Spannocchi accoglie la decisione
del Nostro di pubblicare una memoria sui feudi,
incoraggiandolo a non desistere mai dallo scrivere, poiché
«questi - gli ricorda - sono i nostri cannoni per far
succedere la luce alla barbarie» (29).
Lo scritto, dal
titolo Riflessioni su la vendita dei feudi, uscito a
Napoli nell'estate del 1790, in cui si avvertono echi del
dibattito costituzionale d'oltralpe, è l'occasione per
portare più a fondo l'attacco contro le istituzioni e i
privilegi dell'Antico Regime. La critica investe
innanzitutto la persistenza di quelle «politiche
mostruosità» che sono i feudi, i quali impediscono la
mobilità della proprietà, base del progresso economico, e
provocano la concentrazione dei beni «quasi per una forza
attrattiva nelle mani di pochi» (30), costringendo gli uomini
a sottostare «ad altra autorità che a quella delle
leggi» (31). Al governo Delfico affida il compito di
rimuovere tali anomalie, attuando una politica
antilatifondista, che favorisca, come aveva sostenuto anche
Palmieri nelle Riflessioni sulla pubblica felicità
relativamente al Regno di Napoli del 1787 (32), la
creazione di una proprietà borghese, così che i proprietari
potessero moltiplicarsi. A differenza di quella stabilita
dalla natura, infatti, la disuguaglianza prodotta dalle
leggi che regolano la proprietà può e deve essere, a suo
avviso, non solo ridotta ma superata. E', questo, un
concetto ribadito con insistenza dall'illuminista
meridionale, che rifiuta l'idea di una società
«naturalmente» divisa in «oppressi ed oppressori», non
riconoscendo, al pari di Sieyès (definito ora «sublime» (33),
ora «il più gran Filosofo politico che abbia l'Europa» (34) e
di cui conosce gli scritti), nessun'altra divisione se non
quella in «governanti e governati» (35). Al di fuori di
questa gerarchia, per lui, come per l'abate francese, non
esistono che cittadini uguali, dipendenti non già gli uni
dagli altri, ma tutti, indistintamente, dalle leggi e dal
sovrano (36). La condanna della iniqua divisione delle
ricchezze e la necessità che i proprietari aumentino non
implicano nello scrittore abruzzese la negazione della
proprietà, essendo contrario «ad un eguale ripartimento
delle terre, o ad una legge agraria» (37) o ad un
frazionamento delle proprietà, tale da comprometterne
l'utilizzazione. Alla «frenetica uguaglianza che getta la
società negli orrori dell'anarchia» (38) egli contrappone
un'uguaglianza tutta politica e giuridica, convinto che ad
influire «perversamente» sul costume, più che la
disuguaglianza economica dei cittadini, sia la loro
diversità di condizione di fronte alla legge. E' la
distinzione dei «diritti» non dei «mezzi» che egli,
riecheggiando Sieyès (39), intende abolire. La proprietà non
soltanto non viene negata, ma resta un diritto che, come
sostenevano i Francesi, tutte le leggi devono assicurare,
anche perché da essa nasce «la vera affezione ed
attaccamento alle leggi, alla patria, ed al sovrano» (40).
Ispirata al clima
politico della Francia rivoluzionaria è la critica della
giurisdizione baronale, che diviene, a partire dalla metà
del 1790, più esplicita e radicale. Soprattutto l'abolizione
dei privilegi feudali e il principio che nessun corpo o
individuo possa più arrogarsi il diritto di esercitare
un'autorità che non emani espressamente dalla sovranità,
appaiono rivivere nelle argomentazioni di Delfico. Parte
integrante della sovranità, e come essa «indivisibile» e
«inalienabile», la giurisdizione non può non appartenere che
al solo sovrano, inteso come istituzione politica (monarca o
principe) e non come fonte della volontà generale, il quale,
pur potendone affidare l'esercizio a «diversi individui o
corpi», resta sempre «la fonte di ogni potere» (41). Dal
principio di indivisibilità e inalienabilità del potere egli
fa discendere la negazione di quella funzione mediatrice dei
corpi intermedi in seno alla monarchia, riconosciuta
da Montesquieu (42). «Non ci lasceremo abbagliare - scrive in
un'altra Memoria del 1790 (43) - dai Panegeristi de'
Feudi, né dalla celebrità del Presidente di Montesquieu, per
sostenere che i Feudi sono i sostegni della Monarchia, e che
i corpi intermedj impediscono gli eccessi del potere
assoluto, ed indipendente». Al contrario, essi si distaccano
dall'intero corpo sociale e formano «uno stato nell'altro»,
autonomo e illegale, a danno del sovrano e della nazione e
rafforzano quello spirito di corpo che li pone in
contrasto con l'utile comune, così da costituire un fattore
di dissoluzione della società (44).
Dal celebre
autore dell'Esprit des lois, verso cui, tuttavia,
nutre ammirazione (45), Delfico dissente sulla teoria della
divisione dei poteri e del necessario equilibrio fra di
essi. Di Montesquieu, che considera spesso «contraddittorio
con se stesso», non condivide l'idea che, per impedire di
«abuser du pouvoir, il faut que, par la disposition des
choses, le pouvoir arrête le pouvoir» (46). Egli ritiene che
«chi dice Monarchia dice unità, e unità di tutte le parti
che compongono il potere supremo; […] poiché
l'indivisibilità del potere, e l'inalienabilità di qualunque
parte giurisdizionale costituiscono nella sua vera integrità
questa forma di governo» (47).
Per il Nostro
dunque la giurisdizione deve risiedere unicamente nel
principe, in quanto «che che altri ne dica, anche nella
divisione dei due poteri, ciò appartiene al potere
esecutivo», che l'amministra attraverso «persone da
esso scelte e destinate» (48). E' evidente il riferimento
indiretto e piuttosto polemico alle tesi di coloro che
durante il dibattito all'Assemblea Nazionale sul nuovo
ordinamento giudiziario, tra il marzo e il maggio 1790,
avevano sostenuto l'indipendenza di quel potere dal re, cui
fu di fatto preclusa la nomina stessa dei giudici (49).
L'attribuzione della sfera giudiziaria al potere esecutivo
denota come Delfico abbia di mira esclusivamente gli ordini
privilegiati e non intenda affatto minare il potere regio
che ritiene, anzi, si possa rafforzare con l'eversione della
feudalità. Convinzione, questa, che emerge più chiaramente
dalla lettura di due sue memorie, rimaste interrotte
ed ancora inedite, entrambe databili intorno alla metà del
1790 (50). Rispetto ai testi già noti, le due memorie
presentano un tono decisamente più polemico e una condanna
più perentoria e radicale del regime feudale. Per lo
scrittore teramano i feudatari rappresentano «tanti esseri
dissimili e contrarj all'ordine pubblico», i cui abusi e
privilegi dopo aver generato in passato «particolari
tragedie» sono ora causa di «infinite gravezze» e
«disorganizzazione generale nella Società» (51). Non soltanto
essi nutrono «interessi particolari» che contrastano
«coll'interesse generale», ma, convinti di essere necessari
allo Stato, impiegano tutti i mezzi per «ingrandirsi alle
spese della Società» (52). Altrettanto dura è la replica delficina alle maliziose argomentazioni baronali in difesa
della legittimità dei loro diritti tratte dalle vicende
della Francia rivoluzionaria:
Chi sa la storia conosce, che non si è ivi attaccato il
potere de' Grandi, per diminuir quello del Sovrano, ma si è
alterato questo per distruggere un potere illegale; e se in
Politica è lecito di profetizzare, vorrei pur dire che fra
non molto il Re di Francia sarà più grande e potente di
quello ch' è stato insino ad ora, e tanto più quanto non vi
sarà un corpo intermedio, che interrompa la libera
espansione del potere supremo (53).
Previsione presto
contraddetta dagli sviluppi rivoluzionari, sulla quale non è
da escludere abbiano influito le notizie riportate dalla
stampa italiana che andava offrendo ai lettori «un'immagine
rassicurante» degli avvenimenti di Francia (54). «La
Rivoluzione della Gallia», continua Delfico, non solo non
rappresenta una minaccia, ma costituisce «un esempio
favorevole per i Principi savj, che non devono aspettare gli
eccessi de' disordini pubblici, ma ristabilire in tutti i
rami dell'Amministrazione la Giustizia relativa ai diversi
oggetti di essa» (55). E' convinto infatti, anticipando
un'interpretazione di Cuoco (56), che la causa della
rivoluzione vada ricercata principalmente nella mancanza di
un'ardita politica di riforme della monarchia francese:
Chi non sa quali e quanti erano i disordini della Francia, e
che si trovava oberata senz'essersi pensato mai ad alcuna
salutare riforma? Chi non sa che tutti i disordini erano
cagionati dai pretesi corpi intermedj, e che ad essi se n'è
voluto particolarmente, e si è venuto a limitare l'Autorità
del Sovrano, acciò essi non possano abusarne (57).
Diverso è il caso
di uno Stato dove lo scoppio rivoluzionario non è ancora
divampato e può essere pertanto evitato a condizione che il
«buon principe», negando qualsiasi utilità dei corpi
intermedi e la loro pretesa di contenere gli eccessi del
potere assoluto, apra la strada ad un sensibile mutamento
politico e sociale del paese. L'esempio viene ancora una
volta da Parigi dove, scrive a Fortis,
l'Assemblea dopo aver decretata l'emissione degli
assegnati (58), la salute della Francia, la base reale della
Costituzione (59), il maggior riparo contro la
controrivoluzione, ha cominciato ora a fare delle divine
disposizioni per le imposte territoriali. Sieno
benedetti! (60).
All'attività
dell'Assemblea Nazionale Delfico guarda con grande
interesse, mostrando entusiasmo per il lavoro svolto e
ottimismo per i provvedimenti da adottare. Egli stesso ne
ammette esplicitamente l'influenza sul suo pensiero,
dichiarando che il suo ultimo libro, Ricerche sul vero
carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori,
è nato oltre che «dalle impressioni continue e continuamente
ripetute della nostra Dispotica Anarchia», anche «da quelle
che ci vengono da più lontana parte ed eccitano nell'animo
salutari desiderj» (61). Ma poiché manifestare apertamente le
proprie idee si era rivelato spesso pericoloso, aveva voluto
comporre un'opera che somigliasse ad un apologo in
cui «la Giurisprudenza Romana vi sta in senso proprio e vi
sta in Allegoria» (62). A guardarlo bene, confida ad Amaduzzi, il libro «è un semplice desiderio patriottico» che
bisognava «ornare di qualche erudizione acciò con la sua
nudità non offendesse o scoraggiasse la Politica
regnante» (63).
Le Ricerche,
che provocano subito «molto chiasso» (64), sia per le
reazioni della classe togata (65), sia per gli elogi che
ricevono da più parti (66), rappresentano «la più forte
manifestazione del pensiero illuministico italiano nei
confronti del diritto romano» (67), cui viene negato
ogni valore. Ad emergere è l'idea di un sistema legislativo
nuovo, «uguale ed uniforme per tutti gl'individui» (68), che
a differenza di quello vigente, troppo legato alla
tradizione romana, risulti più inerente «all'indole delle
nazioni e dei governi presenti» (69). Evidente, nel discorso
generale e in quest'ultimo passaggio in particolare, la
convinzione della impossibilità di correggere «parzialmente»
i difetti della legislazione, senza cioè «una cura
integrale» (70), in polemica con quanti credevano invece che
bastasse «somministrare particolari riparazioni» o fosse
sufficiente richiamare all'onestà e alla virtù coloro che
proprio dal disordine e dal caos giuridico traevano i
maggiori vantaggi e si mostravano per questo diffidenti o
contrari verso ogni novità. La necessità di un codice tutto
nuovo nasce anche dal carattere di inadeguatezza che
qualsiasi codificazione inevitabilmente assume nel tempo, a
conferma della coesistenza in Delfico, come in altri
illuministi napoletani, di una componente relativistica, di
stampo montesquiano, e di un'esigenza razionalistica (71).
Al pari di altri
suoi scritti, l'opera presenta finalità pratiche. Attaccare
la giurisprudenza romana, mostrare le nefandezze di cui si
era macchiata nel corso dei secoli, significava mettere
sotto accusa l'impianto legislativo presente, condannarne la
«fangosa origine» e contestare la sua validità e legittimità
fino a chiederne la completa abolizione. La stessa denuncia
del carattere dispotico delle leggi romane suonava da monito
al governo napoletano. Sull'esempio di quanto accadeva
oltralpe, lo scrittore abruzzese rivendica, accanto ad
una legislazione stabile e regolare, una legittima
costituzione «che ne sia il presupposto e ne costituisca il
necessario fondamento» (72). E' convinto che un codice di
legislazione possa esistere solo in presenza di governi
legittimamente costituiti, mentre sia incompatibile con
quelli dispotici perché «distruttivo» dello stesso potere
assoluto, la cui peculiarità è la totale ed arbitraria
violazione delle norme esistenti. In altre parti dell'opera,
l'esperienza dell'Assemblea Nazionale influisce in modo
ancor più diretto. Basti pensare al principio della
divisione dei poteri che, respinto fino all'anno precedente
[1790], viene ora accolto come principale e più sicuro
rimedio contro il dispotismo (73). L'unità della «potestà
pubblica», più volte ribadita e successivamente riaffermata,
trova nelle Ricerche una ferma smentita. Manifesta è
soprattutto l'esigenza di autonomia del potere legislativo
di cui rivendica la legittima appartenenza al popolo, che
cessa così di essere considerato una massa amorfa (74), per
assurgere ad un ruolo di primo piano sulla scena politica,
chiamato com'è a «compir l'atto più degno, il più glorioso»
quale quello di «dar leggi a se stesso» (75). L'attribuzione
della potestà legislativa al popolo segna la negazione di un
sistema politico concepito ad esclusivo vantaggio delle
classi privilegiate. E' «una verità fondamentale che le
leggi debbano essere l'emanazione della pubblica o della
generale volontà», vale a dire «la vera espressione
legittima del potere legislativo» (76). Ne consegue che, ogni
qualvolta non siano emanate da questa autorità, esse non
possono considerarsi tali perché non costituiscono «un atto
del popolo» né tanto meno possono essere obbligatorie per i
cittadini quelle leggi che nella loro formulazione abbiano
avuto «più parte le opinioni private che la volontà
generale» (77).
La lotta contro
la vecchia società gerarchica e aristocratica e la difesa
dei diritti non portano all'affermazione di una democrazia
diretta di stampo roussoiano, ma di uno stato di tipo
costituzionale e rappresentativo. Con Sieyès e contro
Rousseau, Delfico ha modo di sottolineare che la «volontà
pubblica» non è che «il risultato delle volontà
particolari» (78). Dall'abate sembra poi discostarsi per
quanto riguarda l'estensione del concetto di volontà
generale. Pur avvertendo la necessità di norme che ne
stabiliscano l'esercizio e le modalità, così che la libertà
popolare non degeneri in licenza, egli individua nel diritto
di suffragio l'elemento costitutivo della qualità di
cittadino, fino a riconoscere vero il principio che «tanto
più si è cittadino, quanto più il dritto del suffragio è
libero ed uguale» (79). Nonostante sia contrario a quanti in
Francia continuano a subordinare tale qualità al requisito censitario
(80), lo scrittore teramano non giunge ad una
esplicita formulazione del suffragio universale,
limitandosi, più genericamente, ad auspicare che la volontà
generale rappresenti «la volontà del maggior numero de'
cittadini» (81). Il sistema politico che sembra delinearsi è
basato sull'uguaglianza delle leggi, sulla divisione dei
poteri, sul conferimento dell'autorità legislativa al popolo
e sulla rappresentanza politica senza restrizioni di rango e
di censo. Egli matura inoltre la convinzione, in tema di
elezione dei magistrati, di lasciar «al pubblico stesso la
libera scelta di coloro che devono servirlo» (82), in
contrasto con quanto sostenuto in precedenza (83), e
rivendica il decentramento dell'amministrazione della
giustizia attraverso lo stabilimento di magistrature locali
e provinciali. La richiesta manifesta la volontà di superare
la vecchia dicotomia centro-periferia, che tiene diviso il
Regno «in due parti nella più strana maniera»: da un lato la
capitale che «succhiando sproporzionato nudrimento cade in
uno stato morboso per eccesso», dall'altro le province che
«per difetto corrono ad una mortale atrofia». E conclude:
Una capitale è sempre un male, e tanto maggiore, quanto essa
è sproporzionatamente più grande. […] Nella capitale si
crede concentrata la sublimità della ragione e della
giustizia. Se si dicesse della corruzione e della pigrizia,
il tema sarebbe forse più vero (84).
Di fronte ad una
crescita così fortemente differenziata, le conseguenze
risultano ugualmente rovinose sia per le province, nelle
quali qualsiasi progresso economico e culturale resta
precluso, sia per la capitale, dove sempre più stridenti
appaiono le contraddizioni tra «la miseria schifosa» dei
diseredati e «il lusso stolto» delle classi improduttive e
parassitarie (85).
Il Teramano,
tuttavia, non si allontanò mai da una soluzione di tipo
monarchico-costituzionale. Alla politica illuminata del
sovrano e ad una sua «certa sagacità ed attenzione» restano
per lui legate le condizioni di cambiamento della società
meridionale. A Ferdinando IV, «adorabile sovrano», che aveva
in passato invocato i «pubblici lumi» consentendo a chiunque
di venire «a' pie' del soglio» (86) ad esporre le proprie
idee, avrebbe voluto presentare le Ricerche per
«moltiplicargli le pruove e le ragioni su molti
articoli» (87) e spingerlo al ristabilimento della giustizia,
convinto che solo «sotto gli ottimi prìncipi risorgono
le speranze de' popoli» (88).
All'indomani
della fuga e dell'arresto di Luigi XVI a Varennes nel giugno
del 1791, di fronte al problema, assai discusso in Francia,
della forma costituzionale da preferire, se erigersi in
Repubblica o mantenere il Re «coll'assegnargli un Consiglio
permanente», lo scrittore abruzzese manifesta le proprie
simpatie politiche e si pronuncia a favore della seconda
soluzione dichiarando di essere «stato sempre monarchico» e
di ritenere la «vera Monarchia quella che ammette più
diverse libertà» (89). Sul tentativo di fuga della famiglia
reale, sul dibattito e gli avvenimenti che seguirono, egli
si mostra piuttosto informato, sebbene il timore del
contagio rivoluzionario avesse indotto la corte napoletana
ad adottare sin dalla fine dell'89 misure repressive (90),
preoccupata che si potessero «propagare per ogni dove le perniciosissime massime di una mal intesa libertà»
(91).
Già nella seconda
metà del 1791 è presente in Delfico un conflitto tra
l'ottimismo generato dalle vicende francesi, che lo spinge a
credere ancora nell'intesa tra dinastia borbonica e
intellettuali, e il crescente scetticismo nei confronti
della volontà governativa di attuare un programma di
rinnovamento. Un primo segnale di tale involuzione egli
riscontra nel Concordato che i Reali di Napoli, al loro
rientro da Vienna, hanno stipulato con la Santa Sede,
nell'aprile del 1791, su iniziativa dello stesso Acton:
I Vescovadi - spiega a Fortis - per i quali Roma ha avuta
tanta influenza han fatto nascer subito de' scrittori
Papalini, e quello ch'è stato più approvato da S.S. è
veramente un libro infame. Attacca nominatamente i scrittori
Realisti da sediziosi, rivoluzionari, e fin anche da club
des jacobins, e spesso con la fede più nera (92).
Emblematica è
anche la crisi del ruolo del Consiglio delle Finanze, un
tempo cassa di risonanza di molteplici proposte
riformistiche. Nonostante il rimpasto ministeriale del 1791,
con il quale spera, invano, di ottenere un posto di
consigliere soprannumerario (93), alimenti in lui un cauto
ottimismo sull'attività futura del Consiglio, non nasconde
una certa perplessità:
Con tutto ciò - scrive a Fortis - non nascono nel mio cuore
molte speranze d'un migliore avvenire. Le persone non sono
sufficienti per questo, e quando non si cangia lo stato
delle cose, sussistendo le cagioni fondamentali, la
differenza negli effetti non potrà essere molto
sensibile (94).
Timore che si
rafforza di fronte all'ennesima (ambigua) esitazione del
Consiglio di adottare provvedimenti contro la servitù degli
stucchi, più volte da lui sollecitati (95), e che trova
conferma nelle lettere che l'amico duca di Cantalupo gli
invia tra la fine del '91 e quella del '92 (96).
Deluso, decide di
abbandonare la capitale dove si sorprende sempre più spesso
«scontentissimo» e in cui si accorge di quanto la «lentezza
sciroccale» abbia contagiato perfino gli uomini migliori,
diffondendo ovunque «un moto di desolazione» (97). Il rientro
a Teramo, nel dicembre del 1791, segna la fine di un periodo
di grande impegno politico e letterario, al termine del
quale vede svanire la possibilità che la rivoluzione
francese imprima un nuovo impulso alla politica del governo
napoletano.
Nella lontana e
tranquilla provincia Delfico lamenta subito la «tardanza» e
la «scarsezza» delle notizie francesi (98), alle quali non
riesce a supplire con la puntuale lettura dell'«Analisi
ragionata de' libri nuovi» di Napoli e del veneziano «Nuovo
Giornale enciclopedico d'Italia» che Fortis, il quale vi
collabora, gli fa pervenire. E' probabile che del mensile
napoletano (99) il Nostro non condividesse appieno
l'orientamento. Il periodico, infatti, sebbene proiettato
verso una «decisa opzione riformatrice saldamente ancorata
alla monarchia assoluta» (100), aveva assunto sin dall'inizio
un atteggiamento antifrancese. I fatti di Francia venivano
giudicati come «effetto tutto di furor maniaco» (101), il
popolo appariva «tiranneggiato» da «demagoghi», «adulatori»
e «faziosi» (102), mentre l'intera nazione, per colpa di
«libri pestiferi» e di filosofi, era piombata in uno
stato di «anarchia» (103) che minacciava ora di estendersi al
resto dell'Europa. Le stesse Ricerche erano prese di
mira perché piene di «francesismi» (104). Per il Teramano,
invece, la Francia continua a rappresentare un polo
d'attrazione, nonostante non nasconda una certa
preoccupazione di fronte all'eccessiva celerità dei lavori
assembleari:
Temo sempre per l'interno - confida a Fortis - e nulla dal
di fuori per se stesso: ma alcune trascuraggini cadute nella
Costituzione e l'aver dismessa l'Assemblea Costituente (105)
affrettando delle risoluzioni che richiedevano esame più
maturo, per cui l'organizzazione interna, ed il Sistema
d'Amministrazione sono rimasti imperfetti, mi fa aver non
solo delle trepidazioni, ma mi attrista per i disordini
giornalieri (106). Sono stati avvisati da un pezzo, che lo
stabilimento regolare della Forza pubblica
era la pietra angolare della Costituzione: e pure è
stato sempre negletto e tuttora si negligge (107).
Oltre che per la
situazione interna, sempre più cresce la sua apprensione per
la politica estera della nazione francese, specie
all'indomani della dichiarazione di guerra all'Austria,
nell'aprile del '92. Da Napoli il duca di Cantalupo, sulla
base di indiscrezioni di corte, gli conferma che l'Europa è
«alla vigilia di grandi avvenimenti e tutti funesti
all'Umanità» (108), mentre un altro amico, temendo nuove
ripercussioni nel Regno, invita ad abbandonare ogni progetto
astratto per assumere un atteggiamento più realistico:
«Sodezza, sodezza - afferma - e non novità che non porta
altro che confusione, e desolazione. Fuori i Club, e tutto
andrà bene» (109). La stessa ansia si coglie nelle lettere
che Micali gli invia da Livorno (110). Nella capitale
partenopea, intanto, la preoccupazione di frenare
«l'invasione e l'irruzione di quelli orrorosi fanatici»
francesi, attraverso «un vigoroso ed efficace riparo» (111),
spinge il ministro Acton a farsi promotore di una lega
italica (112), che non sarà però mai realizzata. Più
fiducioso si mostra invece Spannocchi, per il quale la
Francia continua a rimanere un valido esempio per i paesi
europei (113). Ma di fronte alla caduta della monarchia e al
pericolo di un'invasione francese degli stati italiani (114),
ha presto modo di ricredersi:
Io contavo sopra un'ondulazione che rinfrescasse con un
placido moto le acque che fossero ristagnanti, ma questo è
un torrente che trae seco tutto ciò che se li para d'avanti.
Chi sa se la nostra gran muraglia, e le nevi serviranno a
farli argine. In caso che no, vediamo un diavolo di Kelerman
(115)
piantare l'albero della sedicente libertà nel
Campidoglio» (116).
Si capisce allora
come di fronte al deteriorarsi dei rapporti internazionali
il Teramano, ignaro dei retroscena, abbia interpretato
l'arrivo a Napoli della flotta francese e la sua immediata
partenza (117) come un atto politico «amichevole» che potesse
favorire il processo di pace (118), indotto forse dallo
stesso duca di Cantalupo, il quale nel riferirgli l'episodio
lo rassicurava quasi «nulla fosse accaduto» (119).
Più scettico e
senz'altro più disilluso appare all'inizio del nuovo anno,
dopo l'esecuzione di Luigi XVI e la dichiarazione di guerra
della Francia all'Inghilterra e all'Olanda che avrebbe di lì
a poco trascinato nella mischia anche il Regno di Napoli:
«Sempre più - scrive a Fortis - mi vado disponendo
all'inerzia intellettuale, per non aver il dispiacere di
un'attività gittata al vento, giacché i rovesci della
ragione crescono colle più veloci progressioni» (120). Nei
mesi successivi, la sua maggiore preoccupazione sarà
generata più che dagli sviluppi giacobini della rivoluzione
francese, dalla politica repressiva del governo napoletano,
a causa della quale sarà costretto a dare formale prova del
suo lealismo monarchico in seguito ad alcune delazioni. Da
Milano Spannocchi, che come lui scorge ovunque «argomenti di
lutto», gli rinnova la propria stima per il costante impegno
intellettuale alla ricerca del bene pubblico, mai
condizionato «da alcuna setta, da alcun partito» e per la
sua avversione per ogni forma di anarchia e di
dispotismo (121). Si legge nella missiva del Nostro a Fortis
del 7 novembre 1793:
Ti scrissi che de' malevoli di Napoli fra quali il
Vescovo (122) in unione colla magistratura mi avevano formata
la più estesa riputazione di giacobinismo. Si venne alla
denuncia formale contro vari cittadini […], ma la prudenza e
l'innocenza della mia condotta non diede campo ad essere
neppure occasionalmente nominato nell'inquisizione. […] Io
sono stanco di tanti orrori e spargimenti di sangue che si
ascolta tutto giorno. Vorrei esser sempre in silenzio su
questa materia; ma ora temo che dobbiamo piangere sul sangue
de' nostri concittadini; poiché da Tolone (123) si sentono
piuttosto cattive nuove (124).
E' un periodo di
grande sconcerto e delusione per quanti, come Delfico,
avvertono i limiti della politica ferdinandea. Né varrà ad
illuderlo qualche piccolo riscontro ottenuto presso le
autorità locali sulla questione degli stucchi, tanto che si
ripromette di non «impicciarsi mai più di simili
affari» (125), amareggiato dal generale «avvilimento» che
circonda la pubblica amministrazione. Alla fine del 1793 la
consapevolezza che la grande stagione riformistica sia
definitivamente conclusa è radicata nell'animo del Teramano.
Essa segna l'inizio di una lunga interruzione della sua
attività di scrittore, a conferma di come egli ritenesse
allora non solo vano ma addirittura pericoloso farsi
sostenitore di una politica di rinnovamento del Regno
napoletano. Completamente abbandonato è ogni riferimento
alla Grande Nation. La sua avversione per gli eccessi
rivoluzionari sembra anticipare un modulo
storiografico che avrà fortuna negli anni successivi: la
contrapposizione tra una prima fase della rivoluzione, l'89,
con le sue idee di libertà e di uguaglianza ed una fase
successiva, il '93, caratterizzata da «tanti orrori». Non
sorprende allora come egli abbia preso le distanze
dall'opera di Soave, Vera idea della rivoluzione di
Francia (126), che nel tentativo di denunciare i mali
della «popolare licenza» (127) faceva proprie le tesi più
retrive del conservatorismo italiano ed europeo e finiva per
condannare in blocco la rivoluzione considerando il 14
luglio nient'altro che una «giornata d'orrore», i
rappresentanti dell'Assemblea Nazionale «tiranni», quelli
del Terzo Stato «faziosi», i decreti dell'agosto '89
«sediziosi» e la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e
del cittadino una «promulgazione sediziosa» e un
«edificio informe e mostruoso» (128) di cui chiedeva la
completa soppressione.
La sfiducia del
Teramano diverrà pressoché totale durante il soggiorno nella
capitale partenopea tra la primavera e l'autunno 1794. A
Napoli s'imbatte in una città in preda alla più forte
«agitazione» (129). E' l'epoca della scoperta della congiura giacobina
(130) che porta all'arresto e alla condanna di
numerosi patrioti ed esponenti giacobini che, contrariamente
a quanto si è a lungo creduto in seguito all'interpretazione
di Cuoco (131), tanto «pochi» e così tanto «inesperti» oggi
sappiamo non erano (132). Coinvolto è pure l'amico e
concittadino Odazi (133) che Delfico considera innocente e
spera invano venga presto scagionato. Cresce l'insofferenza
per la capitale, che si traduce anche in un abbandono degli
interessi intellettuali (134), ed egli capisce che non è più
tempo di «restare con chi ha assunto un dispotismo
assoluto» (135). Ciò nonostante, Delfico è ancora dalla parte
del «buon Re», contro il «sedicente» Consiglio delle Finanze
e quanti approfittano del disordine generale per «regolare
le cose a loro piacere» (136). Dal Sovrano si reca per
perorare (ancora una volta) la causa degli stucchi e per
ottenere un beneficio personale (137), che evidenzia una
certa contraddizione con alcune posizioni precedentemente
assunte nella polemica antifeudale (138) anche se forse tale
richiesta era un tentativo per fugare ogni dubbio sulla sua
fede monarchica, di nuovo messa in discussione da
un'ennesima denuncia anonima (139).
L'inizio del
processo contro i rei di Stato segna, infine, il definitivo
distacco da un mondo divenuto per lui «più che mai odioso»,
dove «tutto è orrore» e in cui, scrive al fratello, non si
può che «o lasciarsi opprimere o in altro modo più fatale
soccombere» (140). Persuaso «che non è più tempo di
promuovere certi oggetti, e che si fa anzi male» (141),
anticipa la partenza dalla capitale e decide di non farvi
più ritorno fino a quando non fosse avvenuto un «cangiamento
di circostanze» (142) che avesse ristabilito «l'ordine, la
calma, la sicurezza e tutto ciò che può rendere aggradevole
un soggiorno» (143), sconsigliando chiunque a recarvisi (144).
Altrettanto
scettico si mostra sulla possibilità di un accordo fra le
potenze belligeranti, che gli sembra anzi sfumare con la
scomparsa del leader giacobino: «Io ho parlato per la
pace - spiega a Fortis - fino all'imprudenza ma i tentativi
fatti e dileguati nella morte di Robespierre non pare che
possano aprirci il cuore a nuove speranze» (145), quasi
intravedesse nella opposizione di Robespierre alla politica
espansionistica della Repubblica francese lo spiraglio per
una soluzione pacifica del conflitto europeo. Prima
ancora che psicologica, la pace è un'esigenza politica, una
condizione necessaria per la ripresa del processo di
sviluppo sociale delle nazioni e di graduale miglioramento
del genere umano. Lo preoccupa il destino dell'Italia e il
timore che i Francesi possano da un momento all'altro
invadere il Piemonte (146). «Tutti i miei pensieri sono
intorno alle speranze di pace e sono scontento di me per non
poterne escogitare i mezzi sicuri». Vantaggi ne trarrebbe
anche il Regno giacché «tutte le nostre cose si
ripristinerebbero alla loro tranquillità, ed il nostro buon
Re potrebbe rivolgere intieramente l'attenzione su tutti i
rami della pubblica Amministrazione, che ne sentono tanto il
bisogno» (147).
L'accentuarsi del
carattere reazionario della politica napoletana non
determina nel Nostro, come in altri illuministi, il
passaggio «da regalista in giacobino» (148) o repubblicano,
anche perché il Teramano, a differenza di molti di loro, non
vedeva più nella Francia del '93-94 concretarsi i suoi
ideali riformistici. L'atteggiamento di assoluto isolamento
che finisce per assumere di fronte alle forze politiche e
sociali esistenti, non segna però l'inizio di una profonda
sfiducia nei confronti della politica quale possibile
strumento di progresso, ma testimonia semmai la rassegnata
attesa di tempi e condizioni più favorevoli per una ripresa
del processo riformatore solo momentaneamente
interrotto. Nel «guazzabuglio» generale, reso ancor più
turbolento da una nuova ondata di arresti di altri sospetti
rei di Stato (149), che suggerisce di scrivere «con
moderazione» e limitarsi a «far intendere» quello che spesso
non può essere detto apertamente (150), le sue sole speranze
sono, anche agli inizi del '95, tutte per un «favorevole
accoglimento» della pace (151) e perché qualcuno (come Pommereul) «prenda il partito dell'Umanità»
(152) e scongiuri
il pericolo di una nuova campagna militare.
Alla fine di
ottobre del 1795 Delfico lascia di nuovo l'Abruzzo per
compiere un secondo viaggio fuori del Regno, dapprima a
Roma, restandovi per circa un mese, quindi in Toscana dove
rimane fino alla primavera successiva (153) A spingerlo verso
il Granducato è una certa simpatia politica per quello
Stato, condivisa tra l'altro da Fortis (154) e suscitata
dalla mitezza del suo governo e dalla libertà che ancora vi
regnava. Scriveva con entusiasmo all'amico Angiolini (155)
appena giunto a Firenze:
Nei
paesi dove la discussione è libera la libertà va ad
installarsi col tempo, e questa Nazione merita bene una tal
Sovrana. Non farò gli elogj della Toscana per ora, poiché
non nascerebbero da propria conoscenza, e quando avrò
acquistato questa non potrò forse far altro, che ripetere
ciocché fondatamente si è detto (156).
Nel capoluogo
toscano, dove finalmente può tornare a condurre la sua vita
preferita, fatta di frequentazioni di ambienti e uomini di
cultura (si legò in particolare a Corsini (157)) e ricca di
sollecitazioni e curiosità (158), egli sembra ritrovare la
tranquillità necessaria per disporsi di nuovo favorevolmente
nei confronti della vita e degli uomini. Ed è col «massimo
dispiacere» che si allontana da Firenze, dolente di non
potersi trattenere ulteriormente (159), ma felice di poter
rincontrare a Pisa Giovanni Fantoni (160), non prima di aver
riabbracciato a Livorno l'amico Micali in partenza per la
Francia. Entusiatiche sono le impressioni che questi ne
trae. «Il mio amico Micali - riferisce Delfico al fratello -
scrive da Parigi, che vi stà nella massima allegria ed
abbondanza, ed è stato specialmente sorpreso nel traversar
la Francia, in avervi vedute le campagne così coltivate, che
non vi scorge punto lo stato di guerra di più anni» (161). I
rapporti amichevoli tra la Francia e il Granducato lo
inducono a dare poco credito alla voce, nella primavera del
'96, che i Francesi vogliano rompere la pace e invadere la
Toscana con il «pretesto» che Ferdinando III «accordi più
favore agli Inglesi che ai Repubblicani» (162).
Ritornato a
Teramo agli inizi di maggio del 1796, lo raggiungono le
notizie dell'avanzata napoleonica in Piemonte e in
Lombardia (163). Ma non ne resta affatto sorpreso, forse
perché a conoscenza della difficoltà che Francesi e
Piemontesi avevano incontrato nel concludere un accordo
prima dell'invasione: «Per gli affari d'Italia - confida ad
Angiolini - sono stato pur troppo profeta, come avrebbe
potuto esserlo ognuno che leggeva la gazzetta, e che non
voleva farsi illusione» (164). E' impaziente di conoscere i
risultati delle trattative di pace col Piemonte e auspica
che ad esse seguano presto quelle col Regno di Napoli, le
cui truppe avevano combattuto in Lombardia a fianco degli
Austriaci. Di qui la richiesta al ministro Acton di «essere
impiegato nella negoziazione della pace» (165), poi conclusa
il 10 ottobre di quell'anno. Riceve invece l'incarico di
organizzare un reggimento di volontari in provincia, una
pesante incombenza per le sue precarie condizioni fisiche
che accetta tuttavia «volentieri» nella convinzione che
sotto di lui non accadranno più «né vessazioni, né avanie, e
che questo sia del miglior servigio del sovrano» (166).
Nessun dubbio
nutre sulle mire espansionistiche di Napoleone, di cui
disapprova non solo le condizioni gravose imposte alle città
occupate, ma anche le innumerevoli requisizioni, ruberie e
saccheggi dei suoi soldati (167). Avuta notizia dell'entrata
dei Francesi in Romagna e della successiva tregua di Bologna
commenta: «Non vedo il momento di apprendere a quali
condizioni sarà accordata la pace alla S.S.; e si vuole che
costerà cara. A chi? Non vedo in questo la morale
Repubblicana, né la vantata amicizia per le Nazioni. Staremo
a vedere» (168). E' pertanto con sollievo che alla fine di
luglio vede allontanarsi il pericolo di un'incursione in
Abruzzo, dato «che i Francesi - scrive a Fortis -
hanno del tutto evacuata la Romagna. Se è vero che i
Francesi sieno calati in gran numero, ci è speranza, che
possano ancora tener occupati i Repubblicani dal rivolgersi
a questa parte, e che frattanto le cose cangino di
aspetto» (169), anche se non sembra riporre molta fiducia
nelle negoziazioni che Gallo (170) stava conducendo per conto
del governo napoletano. Ciò che conta è che comunque «i
Repubblicani non si rivolgeranno per ora da questa
parte» (171).
Nella seconda
metà del 1796 si riaccende nel Teramano l'interesse per la
Grande Nation. Non tanto perché a Parigi risiedono
alcuni suoi amici, come Corsini, Micali e lo stesso Fortis,
quanto perché nella vita politica del Direttorio vede
delinearsi la possibilità per la Francia di riprendere e
consolidare quel processo di trasformazione avviato negli
anni precedenti la parentesi giacobina. Non gli sembrano
neppure irrealizzabili le «spirituali profezie» di
Condorcet (172) contenute nel suo testamento ideologico (173),
sulla perfettibilità del genere umano e sul cammino
progressivo e inarrestabile della civiltà. Ma è necessario
che si elabori una «nuova vera» Costituzione onde evitare
che si verifichi ancora «qualche disordine» (174). L'idea di
una recrudescenza degli eccessi rivoluzionari lo atterrisce
e, come Fortis, spera che «le male arti de' giacobini» (175)
non abbiano il sopravvento. Sulle vicende d'oltralpe
tuttavia egli è «quasi al buio» dal tempo del soggiorno in
Toscana, dove aveva avuto modo di leggere «i giornali di
Parigi» (176) grazie soprattutto all'amicizia con Miot (177),
da Rambaud definito «un esprit très fin, modéré, actif,
sinon hardi, ennemi déclaré du jacobinisme» (178). Soltanto
da Fortis continua a ricevere, ora direttamente ora
attraverso il comune amico Toaldo (179), «piccoli cenni» (180)
e a lui si rivolge per avere anticipazioni sulla politica
del Direttorio in Italia e chiedere notizie degli amici Pommereul, Savioli
(181), Corsini e Micali (182). All'abate
padovano confida poi di essere particolarmente interessato
ai «nuovi metodi» e ai «progressi politici» della Francia e
di sospirare il momento della pubblicazione del nuovo Codice
di legislazione (183), manifestando, tra l'altro, il
desiderio (mai realizzato) di compiere un viaggio
transalpino: «Io penso a questa mossa, - gli scrive
all'inizio del 1797 - e più vi penso da che posso contare
sopra di te, ma prima dell'estate o dell'autunno io non la
vedo realizzabile» (184). Ma se da un lato cresce
l'entusiasmo per i progressi interni della Francia,
dall'altro Delfico ne condanna la politica espansionistica,
tanto da biasimare quanti in Italia continuano a riporre
nell'occupazione francese le proprie illusioni
rivoluzionarie: «Io compatisco quei luoghi - afferma - ne'
quali si è danzato intorno all'albero della libertà, e
dovranno ritornare allo stato antico» (185). Critico è anche
nei confronti del comportamento dei Francesi:
Già sai - scrive a Fortis - che abbiamo ancora vicini i
Repubblicani e sai ancora quello che hanno fatto. Nulla ci è
che ridire su ciò, ma non s'intendono le omissioni […].
Perché dunque parte [dello Stato papale] ripristinato alla
natia libertà e parte abbandonato al suo destino? Non
conosco ragioni generali per questa differenza, e non mi
accomoderei delle particolari (186).
Immutato è il
giudizio sulla corte napoletana. Nonostante infatti nel
corso del '97 egli accenni ad una ripresa di dialogo con il
governo borbonico (187), non scorge alcun cambiamento nella
sua politica e conclude con amarezza che «l'Africa sarà
Africa ancora per lunga pezza» (188). Sempre meno sopporta
l'«incommodo» del continuo accantonamento in provincia di
truppe regie (189) e la «sospettosa curiosità» (190) delle
autorità verso ogni forma di corrispondenza. Ciò spiega
talune parole di stima nei confronti di alcuni suoi
nemici (191). Dalle loro gelosie dovrà guardarsi soprattutto
nel 1798, quando verrà nominato portolano della città
di Teramo, con responsabilità amministrative di rilievo. La
situazione si aggraverà nell'estate di quell'anno, allorché
alle trepidazioni per una probabile invasione straniera si
uniranno quelle per una nuova infondata accusa di
giacobinismo costruita ai suoi danni. «Non è una bella
vita», confessa a Fortis, specie per «certe graffiature» da
parte dell'«Assemblea malignante» (192), sebbene si
auguri: «Il Cielo ci liberi di peggio» (193). Ma in
seguito si alimenta sempre più il sospetto di una sua
cospirazione antimonarchica, tanto che il 27 settembre
successivo sarà tratto in arresto, nel proprio palazzo,
assieme a tutta la famiglia (194). Liberato l'11 dicembre
1798 dall'arrivo a Teramo delle truppe francesi (195), è
posto a capo della Municipalità della città per poi essere
investito agli inizi del 1799 di importanti cariche nelle
istituzioni repubblicane di Pescara e di Napoli (196).
Non vi è dubbio
che la collaborazione di Delfico con i Francesi vada vista
come il tentativo di reinserirsi nel giro di quella politica
attiva, nella quale in definitiva egli da sempre confida.
Non crediamo invece che tale partecipazione segni il
passaggio dello scrittore teramano dalla prospettiva
monarchico-riformistica a quella
repubblicano-giacobina (197). Egli non tiene presente,
infatti, quello che può definirsi il momento «eroico» della
rivoluzione francese, le idee e la prassi dei jacobins,
che Saitta ha identificato «con il modello e il momento
robespierrista» (198); né l'esperienza provoca quella vera e
propria «lacerazione» e «rottura» nella sua biografia
intellettuale che Galasso ha riscontrato invece nei
riformisti meridionali passati alla rivoluzione (199).
Tensioni ideali e finalità pratiche continuano ad essere,
anche durante la parentesi repubblicana, le stesse che lo
hanno animato in tante battaglie del passato. Persino il
Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia (200),
l'atto legislativo del Consiglio Supremo pescarese da lui
presieduto (201), col quale viene introdotto un nuovo
ordinamento giudiziario e in cui maggiore è l'istanza
egualitaria, non sembra discostarsi da certi suoi principi e
aspirazioni precedentemente espressi. Il decentramento
dell'autorità giudiziaria, la giustizia amministrativa
garantita a tutti i cittadini, la «prontezza» e
«l'imparzialità» dei giudici nell'applicazione della
giustizia, il controllo dell'attività giudiziaria e la
possibilità di ricorrere in appello costituiscono infatti i
tratti salienti di un programma che Delfico avrebbe potuto
sottoscrivere già negli anni 1790-91 (202).
Non va
dimenticato inoltre che la forma di governo non rappresenta
una pregiudiziale per il pensatore abruzzese, che già nel
1782 aveva avuto occasione di precisare che «tutti i più
sublimi sentimenti di virtù e le più nobili idee della
ragione» (203) possono ugualmente esistere in qualunque
specie di governo, sia esso monarchico, che aristocratico o
democratico. Ciò che effettivamente a lui preme sono il
bene pubblico («primo scopo della politica»), il
progresso del genere umano, la sua elevazione ed
emancipazione, perseguibili attraverso buone leggi ed un
saggio governo, la cui "bontà", tuttavia, è determinata più
che dalla forma, dalla linea politica adottata. Si può
notare come tale posizione, se da un lato rispecchia la
logica riformistica che, come giustamente ha notato Venturi,
porta nel '700 italiano ad «accettare sostanzialmente la
situazione politica esistente» (204), dall'altro induce
l'Autore a non riconoscersi a priori in un governo
precostituito, bensì solo in quello la cui manovra politica
non si riveli inconciliabile con le sue aspirazioni di
rinnovamento sociale. Questa ragione spinge Delfico a
prendere le distanze dalla corte napoletana e a ricoprire
cariche anche nelle istituzioni repubblicane. La
collaborazione con i Francesi, tutt'altro che imposta
o fittizia, si rivela sin dall'inizio libera e attiva (205),
non solo per motivi di prestigio o perché la loro presenza
pone fine ad una incresciosa vicenda personale, quanto
soprattutto perché sembra fornire l'occasione per imprimere
una svolta politica nel Napoletano. Di qui il rammarico per
non poter partecipare all'attività legislativa del Governo
Provvisorio della Repubblica partenopea di cui fa parte e a
cui muove l'accusa, in seguito ribadita da Ricciardi anche a
proposito della situazione delle altre province del
Regno (206), di aver non solo «abbandonato» ma addirittura
«obliato» le province abruzzesi, lasciando che ovunque si
verificassero «le più ferali tragedie» ad opera di briganti
e di scorribande antifrancesi (207). A Napoli lo scrittore
teramano si sarebbe senz'altro inserito nel dibattito
sull'eversione della feudalità e sul tipo di Costituzione da
dare alla nuova Repubblica (208). Ciò nonostante, appare poco
probabile una sua partecipazione al concorso indetto
dall'Amministrazione generale della Lombardia il 6
vendemmiaio anno V della Repubblica francese [27 settembre
1796] sul quesito Quale dei Governi liberi meglio
convenga alla felicità d'Italia? (209) Elabora, invece,
secondo una prassi piuttosto diffusa in Italia nel triennio
rivoluzionario (210), una Tavola dei Dritti e dei Doveri
dell'uomo e del Cittadino (211) la cui stesura non è da
escludere possa risalire proprio alla vigilia del suo
mancato trasferimento presso il governo centrale della
Repubblica partenopea. La Tavola, che si ispira alle
Dichiarazioni francesi dei diritti del 1789, del 1793
e del 1795, proclama l'uguaglianza davanti alla legge;
riconosce i diritti inalienabili di libertà, sicurezza,
proprietà, resistenza all'oppressione e i doveri inviolabili
di subordinazione, benevolenza, giustizia e obbedienza alle
leggi. Fa risiedere la sovranità nella Nazione, cui spetta,
attraverso i suoi rappresentanti, emanare le leggi,
stabilire le imposizioni, cambiare la costituzione e il
governo. Ritiene la legge l'espressione della volontà
generale e afferma, in linea con quanto sostenuto anche nel
Piano di giustizia, la responsabilità dei funzionari
pubblici. Ammette la possibilità di armarsi contro ogni
forma di manifesta violenza e di tirannia e non esclude il
ricorso all'insurrezione, ma solo in casi estremi, mentre
condanna le rivolte e i perturbatori dell'ordine pubblico,
per odio forse delle sommosse che si stavano
verificando agli inizi del '99 e di quanti sobillavano le
masse contro le nuove istituzioni.
Il 28 aprile
1799, di fronte al crescente stato di abbandono delle
province abruzzesi e alla partenza dei Francesi da Teramo,
Delfico preferisce, prima ancora della caduta della
Repubblica napoletana, lasciare Pescara e sotto il falso
nome di Carlo Cauti riparare via mare nelle Marche, per poi
raggiungere nel settembre successivo San Marino, dove
rimarrà fino al 1806 (212).
Durante il
soggiorno sammarinese lo scrittore abruzzese si interrogherà
a lungo sulla «tempestosa crisi» di fine secolo di cui, come
Lomonaco (213), Arrighi (214) e soprattutto Cuoco, con il
quale è in contatto (215), critica l'«immatura ed
intempestiva» manifestazione (216), come pure il metodo
rivoluzionario, ritenuto «distruttivo». La confusione dei
principî, l'eccesso di passioni assieme a mal fondati
calcoli fecero nascere delle idee politiche così «mostruose»
che per i loro intrinseci difetti non poterono a lungo
sopravvivere. Si credette di
dimostrare che quel ben essere civile che si chiama libertà,
e ch'è naturalmente fondato su l'eguaglianza de' dritti, non
possa combinarsi e costituirsi coll'esistenza di quelle
famiglie le quali vantano più antica data nella società, o
maggior numero di servigj renduti alla patria e alla
nazione (217).
Tali idee
«esclusive» impedirono di comprendere che occorreva abolire
i corpi aristocratici, la distinzione dei cittadini fondata
sul rango e sulla ricchezza, la nobiltà ereditaria e
privilegiata che «viene dai feudi, dai titoli, dalle croci,
dalle insegne» e non già quella che nasce dalla virtù e dal
merito. Fu la Francia, afferma, a far «sorgere dei canoni
politici falsi e irregolari. Si disse - presto e male - e
forse questo fu giusto nella loro situazione; ma quando non
è dettato dalle circostanze, è una misura contraria al
fine» (218). Alla condanna dell'astrattezza dei «dogmi dei
politici novatori» segue il rifiuto di derivazione montesquiana del loro «portentoso progetto di estendere
questa forma di civile associazione su tutto l'universo» e
di voler applicare a tutti i popoli e a tutti gli stati «le
leggi di questa politica cosmogonia» (219). Per quanto
riguarda l'Italia,
abbagliata ed attonita non ebbe tempo a riflettere, che le
confuse proclamazioni di libertà, benché le provenissero da
quella nazione che aveva prodotti i più grandi filosofi
politici del secolo, Montesquieu, Rousseau, Sieyès, pure non
aveva mai essa veduta la libertà in propria casa, mai ne
aveva avuta la pratica né la finezza del senso e il gusto
per conoscerla, così non poteva avere le forze intellettuali
e le qualità morali per effettuare una tale
palingenesia (220).
Nella scarsità di
idee e nella loro non perfetta corrispondenza con la realtà
storica risiede dunque a suo avviso la causa del fallimento
dei nuovi esperimenti politici. Di fronte agli «interni
disordini» e all'«esterna violenza» i popoli preferirono
alla fine «i danni nascenti dalla natura delle cose» a
quelli «che dovevano nascere da una volontà illimitata,
permanente, insaziabile» (221).
Dal ripensamento
della vicenda rivoluzionaria Delfico trae l'indicazione
della necessità di un recupero della tradizione storica
nazionale: «Se si fosse consultata la storia d'Italia con
qualche diligenza, si sarebbe trovato, che lo spirito di
ragione e di moderazione fece dell'Italia il soggiorno o la
sede della libertà nei secoli più remoti» (222). A questo
senso di moderazione l'Italia deve continuamente richiamarsi
e «gli esempli recenti ed i fatti antichi devono
persuaderla, che non vi è altro mezzo alla sua tranquillità,
alla sua felicità» (223). La critica delficina
dell'esperienza rivoluzionaria si risolve in definitiva più
che in un «politico scetticismo», nella ricerca di una linea
politica «saggia» e realistica, che non miri alle «magiche
trasformazioni» ma proceda per «proporzionate graduazioni»
alla realizzazione di un programma costituzionale
(antifeudale e anticuriale), «cui è lecito di
aspirare» (224). Tutta l'attenzione è rivolta alla
individuazione di modi civili più adatti e convenienti
all'umana convivenza i quali, più che nelle forme politiche
stereotipe, egli ritiene realizzabili, riprendendo una
definizione vichiana (225), nei «governi umani», di cui
proprio il piccolo Stato di San Marino, nonostante il suo
processo di incivilimento avesse subìto arresti ed
involuzioni, rappresentava un modello politico reale che, in
modo non utopistico, «mostrava non essere impossibile alla
specie umana una tal forma di società» (226).
Non mancano,
tuttavia, momenti di sconforto (227). L'esilio, lo
stato politico dell'Europa ancora incerto, la difficoltà di
un ritorno alla normalità nel Regno di Napoli e l'assenza di
una benché minima prospettiva politica per cui impegnarsi
sembrano alimentare nel Teramano un certo disinteresse per
la politica e una visione fatalistica della stessa. Scrive
amareggiato:
Perché occuparsi della Politica? Perché tormentar lo spirito
e le facoltà intellettuali sopra i più sozzi materiali di
frodi, di ingiustizia, di sceleratezza? I dati sono sempre
indipendenti da noi, ed i calcoli fuori della strada della
ragione. Le divinazioni dei più cattivi sono quelle che più
si approssimano alla verità; e spesso gli elementi che
determinano le azioni dipendono da eventualità imprevedibili
e quasi impercettibili (228).
Ma si tratta solo
di uno sfogo, che contrasta con quanto afferma nelle stesse
Memorie storiche, in cui biasima l'apatia politica
come il «principal dissolvente dei corpi civili» e un «morbo
quasi letale della libera politica esistenza» (229). Radicata
invece è la convinzione che l'ordine sociale esistente sia
ancora talmente lontano dal costituire il «miglior
essere», che egli si accontenta «di augurare alle Nazioni,
che sieno presedute da buoni individui» (230). E «buon
individuo» riterrà certamente Giuseppe Bonaparte che,
divenuto re di Napoli, nel giugno del 1806 lo chiama al suo
fianco con la carica di consigliere di Stato.
Non sembra che
negli anni successivi Delfico sia più ritornato sugli
avvenimenti del 1799, mentre sulla rivoluzione francese ha
lasciato solo alcuni appunti che recano come intestazione
Viste politiche e morali sugli effetti della rivoluzione
(231).
In essi l'Autore distingue il valore politico dal valore
storico della rivoluzione dell'89. Sul piano politico,
scrive, «la Rivoluzione non ha dato alcuna nuova verità o
teoria politica» (232). Sul piano storico, invece, la
rivoluzione di Francia ha assunto per l'umanità un
significato di grande rilievo per una serie di cambiamenti
introdotti nella politica, nella morale, nell'istruzione e
nella religione. Per quanto riguarda più specificamente la
politica, l'idea più importante «è risultata la preferenza
per l'abolizione dell'Aristocrazia e per lo stabilimento del
sistema rappresentativo» (233). Sebbene l'istituto della
rappresentanza non fosse del tutto nuovo ai popoli, la
rivoluzione francese ha mostrato che «la facoltà di far le
leggi appartiene al corpo della Nazione» e che pertanto
mentre «prima la formazione delle leggi era seguita da
qualche magistratura suprema sotto l'indicazione sovrana o
ministeriale, ora, anche dove non vi è rappresentanza, i
progetti di legge si appongono all'esame di qualche
Consiglio di natura differente dal giudiziario» (234). Queste
idee sono divenute così generali da appartenere ormai allo
spirito del secolo.
L'esperienza
quasi decennale nell'amministrazione francese porterà lo
scrittore teramano ad individuare nel moderatismo uno spazio
praticabile tra la conservazione e la rivoluzione e lo
persuaderà che in politica i veri cambiamenti si realizzano
gradualmente, attraverso piccole trasformazioni, mentre «i
grandi fenomeni sono sempre distruttori» (235). Concetto
questo che Delfico ribadirà nel 1835 quando rimprovererà
alla rivoluzione di Francia di aver preteso tutto «troppo
presto» al punto che il moto rivoluzionario finì per volgere
«altrove gli sguardi della umanità e della ragione». Ed egli
«si arrestò nell'aspettativa di tempi migliori» (236). |
_______________ |
(1) Spunti critici si trovano in
RICCOBONO, Contributo, cit., pp. 392-420, e
in AGRIMI, La vicenda rivoluzionaria e le
riflessioni sulla storia, cit., pp. 75-108.
(2) C. CAPRA, Il giornalismo
nell'età rivoluzionaria e napoleonica, in La
stampa italiana dal cinquecento all'ottocento, a
cura di V. Castronovo e N. Tranfaglia, vol. I,
Laterza, Bari 1976, p. 376.
(3) Sull'ammirazione che molti
riformatori italiani nutrono per Necker, cfr. a. M.
RAO, Napoli e la Rivoluzione (1789-1794), in
«Prospettive Settanta», a. VII (1985), n. 3-4, pp.
411-20; M. CUAZ, «Le nuove strepitose di
Francia»: l'immagine della rivoluzione francese
nella stampa periodica italiana (1787-1791), in
«Rivista storica italiana», a. C (1988), fasc. III,
p. 457 sgg.
(4) DELFICO, Memoria sulla
coltivazione del riso nella provincia di Teramo,
cit., p. 194.
(7) DELFICO, Indizi di morale,
cit., p. 47.
(8) Giuseppe Gorani [1740-1819],
scrittore politico milanese, legato all'ambiente dei
riformatori lombardi, soprattutto a Beccaria, e a
quello degli illuministi francesi, a Bonnet e a
Voltaire in particolare, aderì alla rivoluzione
dell'89 e si trasferì nel 1790 a Parigi, dove due
anni dopo prese la cittadinanza francese. Delfico
aveva conosciuto Gorani nel 1786 durante un viaggio
del conte nel Meridione e ne era rimasto
favorevolmente impressionato, tanto che tra i due
era sorto subito un rapporto di amicizia. Cfr. DE
FILIPPIS-DELFICO, Della vita e delle opere di
Melchiorre Delfico, cit., p. 98, n. 18. In
occasione del rifacimento della sua opera Il vero
dispotismo, pubblicata a Ginevra nel 1770,
Gorani chiese a Delfico, che in quel tempo si
trovava in Lombardia, di esaminare il manoscritto e
di comunicargli le sue impressioni (cfr. la lettera
di Delfico a Fortis da Pavia del 20 aprile 1789, in
LETTIERI, Epistolario di Melchiorre Delfico a San
Marino, cit., pp. 27-28). E sentito che «molti
rilievi e cambiamenti» egli aveva da fare, lo
scrittore milanese diede al suo amico «carta bianca»
e lo autorizzò a «prestarsi a tutte quelle
correzioni che si sarebbero giustificate opportune»
(lettera di Gorani a Delfico da Nyon del 29 aprile
1789, in BPT, Ep., n. 109). Sebbene notevolmente
ridotta, l'opera, che uscì a Losanna nel 1790 col
titolo di Ricerche sulla scienza dei governi,
non piacque a Delfico che la considerò un insieme di
«tanti saggi senz'ordine» (cfr. la lettera di
Delfico a Fortis del 30 ottobre 1790, in BGSM, n.
106). L'episodio, nonostante avvenga alla vigilia
della rivoluzione francese, non sembra assumere
nello sviluppo del pensiero politico delficino
quella particolare rilevanza che gli è stata
attribuita da VENTURI, Nota introduttiva [a
M. Delfico], cit., p. 1180. Dalle lettere di cui
disponiamo è evidente come la richiesta di Gorani,
più che l'avvio di un dialogo politico appaia a
Delfico come una fastidiosa incombenza, né d'altro
canto il dibattito si protrarrà ulteriormente. Negli
anni successivi l'amicizia tra i due scrittori andrà
sempre più affievolendosi fino a scomparire,
soprattutto per volontà di Delfico che disapproverà
gli improvvisi e molteplici cambiamenti ideologici e
politici del Milanese, tanto da affermare di non
aver «fatto mai gran conto dei talenti del Cittadino
Gorani» e di dubitare «che possa dare al pubblico
qualche buona idea nuova», mostrandosi addirittura
preoccupato di restare danneggiato da sue
dichiarazioni compromettenti come quelle presenti
nei Mémoires secrets et critiques des cours, des
gouvernements et des moeurs des principaux Etats de
l'Italie [Paris 1793] in cui Gorani lo ricorda
più volte per «son patriotisme». Cfr. la lettera di
Delfico a Fortis da Teramo del 30 gennaio 1792, in
CLEMENTE, Rinascenza teramana e riformismo
napoletano, cit., pp. 391-92 e, soprattutto,
quella da Chieti del 7 novembre 1793, in RICCOBONO,
Contributo per l'epistolario di Melchiorre
Delfico, cit., pp. 413-16 corredata di numerose
note esplicative della curatrice.
(9) In VENTURI, Nota introduttiva
[a M. Delfico], cit., p. 1181.
(10) «Nel mese di Novembre [1788] -
scrive Delfico all'amico archeologo e vescovo danese
Friedrich Münter - partii per Pavia per
accompagnarvi il mio nipote [Orazio], che desiderava
istruirsi nelle Scienze naturali sotto la direzione
dei celebri Professori Volta e Spallanzani; e poichè
quel soggiorno non mi dispiacque, feci compagnia a
mio nipote per tutto l'anno scolastico, cioè a tutto
Giugno. Di là per Cremona e Mantova passai a Verona
dove restai due mesi: dindi Vicenza, Padova, Venezia
e Ferrara mi trattennero per altro tempo, e mi
ritirai qui a Novembre [1789]» (lettera del 10
febbraio 1790, in DI NARDO, Storia e scienza in
Melchiorre Delfico, cit., p. 143). Secondo
quanto riferisce De Filippis-Delfico, il nostro
autore e suo nipote sarebbero partiti alla volta di
Pavia prima del mese di novembre, «il dì 8 ottobre
1788» (Della vita e delle opere di Melchiorre
Delfico, cit., p. 25). Delfico conobbe Lazzaro
Spallanzani [1729-99] negli ultimi giorni del 1788,
dopo che il celebre biologo, amico di Alberto Fortis
ed autore nel 1765 del Saggio di osservazioni
microscopiche, aveva fatto ritorno a Pavia da un
viaggio nel Regno di Napoli, durante il quale aveva
visitato anche Teramo e compiuto un'escursione sul
Vesuvio con il naturalista teramano Vincenzo Comi di
cui racconterà nell'opera Viaggi alle due Sicilie
ed in alcune parti dell'Appennino, t. I, Stamp.
B. Comini, Pavia 1792, p. 10 sgg. Sull'amicizia tra
Spallanzani e Comi, cfr. G. PANNELLA, Vincenzo
Comi e le sue opere [Napoli 1886],
Amministrazione Provinciale di Teramo, Teramo 1992,
pp. 21-30.
(11) Francesco Soave [1743-1806],
filosofo e pedagogista, tradusse nel 1775 il
Saggio sull'intelletto umano di Locke e scrisse
nel 1791 le Istituzioni di Logica, Metafisica ed
Etica, con le quali contribuì alla diffusione
del sensismo in Italia. Contrario sin dall'inizio
alla rivoluzione francese, espresse la propria
avversione nel volume Vera idea della Rivoluzione
di Francia [1793]. Riparato a Lugano all'arrivo
dei Francesi [maggio 1796], ricoprì cariche nel
settore educativo nella Repubblica italiana
presieduta da Napoleone [1802].
(12) Giovanni Buonaventura Spannocchi
[1742-1832], giurista senese, fu nominato nel 1782
presidente del Tribunale di prima istanza della
Lombardia e, successivamente, del Tribunale di
appello. Con i Francesi ricoprì diverse cariche
giudiziarie, fino a divenire ministro della
Giustizia nella seconda Cisalpina.
(13) Carlo Amoretti [1741-1816], noto
studioso di scienze agrarie ed economiche, amico di
Soave e di Alberto Fortis, fu nel 1783 nominato
segretario della Società patriottica milanese. Di
idee moderate, non simpatizzò per la Repubblica
Cisalpina (venendo per questo estromesso dalla
Società stessa), mentre aderì più tardi al governo
napoleonico, dal quale ricevette cariche ed
onorificenze.
(14) Sulla permanenza di Delfico nel
Nord Italia e sulle amicizie che egli strinse, cfr.
DE FILIPPIS-DELFICO, Della vita e delle opere di
Melchiorre Delfico, cit. , pp. 25-34.
(15) Si veda CUAZ, «Le nuove
strepitose di Francia», cit., p. 466. Un
atteggiamento completamente opposto il periodico
assumerà dopo il 14 luglio, quando condannerà, con
toni spesso aspri, sia la rivoluzione che i tumulti
popolari che seguirono.
(17) Spannocchi si riferisce
probabilmente al Regno delle due Sicilie.
(18) In Opere complete, cit.,
vol. IV, p. 145. I «bei colpi» non sono che i
provvedimenti del 4 agosto con i quali l'Assemblea
Nazionale dichiarava «interamente» abolito il regime
feudale. In realtà, solo una parte dei diritti e
doveri feudali, quelli inerenti alla manomorta reale
o personale e alla servitù personale, che gravavano
cioè sulla persona, venivano soppressi senza
indennità. Tutti gli altri diritti come i canoni, i
censi, i vincoli, gli oneri, che gravavano sulla
proprietà, venivano dichiarati riscattabili, per cui
continuavano a sussistere.
(19) Cfr. VILLANI, Il dibattito
sulla feudalità nel Regno di Napoli dal Genovesi al
Canosa, cit., pp. 252-331.
(20) FILANGIERI, La scienza della
legislazione, cit., lib. III, cap. XVIII, p.
572. «Uno deve essere il fonte del potere, uno il
centro dell'autorità», poichè «senza questa unità di
potere non vi può essere ordine nel governo, o, per
meglio dire, non vi è più governo, giacché
l'anarchia non è altro che la distruzione di questa
unità» (ivi, p. 571).
(21) Lettera di
Spannocchi a Delfico da Milano del 13 settembre
1789, in AST, b.20, fasc. 294, n. 6.
(22) P. VERRI, Alcuni pensieri
sulla rivoluzione accaduta in Francia,
pubblicati in C. MORANDI, Pietro Verri e la
Rivoluzione francese, in «Archivio storico
lombardo», a. LV (1928), fasc. IV, p. 536.
(23) Alberto Fortis [1741-1803],
naturalista veneto, nel 1774 pubblicò la sua opera
principale, Viaggio in Dalmazia, che gli
procurò risonanza europea. Nel 1780 ricoprì la
carica di mineralogista presso la corte napoletana,
ma la rivalità e la gelosia che sorsero in seguito
alla scoperta da lui fatta di una grande nitriera
naturale fecero naufragare l'iniziativa. Viaggiò
molto per motivi di studio e di ricerca e fu autore
di numerose memorie scientifiche. Altrettanto
intensa fu la sua attività giornalistica: collaborò
a diversi periodici tra cui il «Nuovo Giornale
enciclopedico» e «Notizie letterarie», e fu
promotore del «Genio letterario d'Europa», che
uscì a Venezia dal 1793 al 1794. Coinvolto in un
precedente processo per sentimenti filo-francesi e
successivamente accusato di giacobinismo,
nell'estate del '96 riparò in Francia dove pubblicò
nel 1798 De la Toscane, in cui ribadiva la
propria ammirazione per il riformismo leopoldino.
Nel 1801 fu nominato prefetto della Biblioteca
dell'Istituto di Bologna e due anni dopo segretario
dell'Istituto nazionale italiano. Delfico conobbe
Fortis nel 1779 in occasione di un viaggio che
questi fece nel Meridione (cfr. la lettera di
Delfico a Pompilio Pozzetti del 3 dicembre 1803 in
RICCOBONO, Contributo per l'epistolario di
Melchiorre Delfico, cit., p. 393). Tra i due
nacque subito una profonda amicizia, che durò tutta
la vita. Di questo legame è testimonianza una
intensa corrispondenza (senza dubbio la più
rilevante dell'intero epistolario delficino)
attraverso la quale il riformatore abruzzese ed il
naturalista veneto si scambiarono idee su argomenti
di diversa natura, nonché notizie e considerazioni
riguardanti avvenimenti del tempo. Parte di questa
nutrita corrispondenza è stata già pubblicata. Cfr.
DELFICO, Opere complete, cit., vol. IV, pp.
109-14 e 205; BALSIMELLI, Epistolario di
Melchiorre Delfico, cit., pp. 15-42; RICCOBONO,
Contributo per l'epistolario di Melchiorre
Delfico, cit., pp. 403-20, la quale fornisce
nell'Introduzione ulteriori ragguagli sul
rapporto di amicizia tra i due scrittori; LETTIERI,
Epistolario di Melchiorre Delfico a San Marino,
cit. pp. 15-30; S. SMITRAN, Dalla corrispondenza
di Alberto Fortis a Melchiorre Delfico,
in Atti del convegno di studi storici
L'Abruzzo e la Repubblica di Ragusa tra il XIII e il
XVII secolo, t. I, Associazione Archeologica
Frentana, Ortona 1988, pp. 121-32. Numerosi stralci
di lettere, inoltre, sono stati pubblicati da vari
studiosi di Delfico, in particolare da CLEMENTE,
Rinascenza teramana e riformismo napoletano,
cit. La parte più cospicua delle lettere ancora
inedite è conservata nella Biblioteca Governativa di
San Marino e nell'Archivio di Stato di Teramo.
(24) Lettera del 26 dicembre 1789, in
CLEMENTE, Rinascenza teramana e riformismo
napoletano, cit., p. 300.
(25) Lettera di Delfico ad Amaduzzi
del 12 agosto 1788 da Teramo, conservata presso la
BAFS, Cod. n. 14, Camera I - III - 3/14, n. 47.
Giovanni Cristoforo Amaduzzi [1740-92], originario
di Savignano di Romagna, visse a Roma dove fu
professore di greco e ispettore della tipografia del
Collegio di Propaganda. Noto filologo, legò la sua
fama agli Anecdota litteraria ex mss. codicibus
eruta, usciti a Roma in quattro volumi dal 1773
al 1780.
(26) Spannocchi sembra qui temere
possibili reazioni della Chiesa contro i
provvedimenti fino allora adottati dall'Assemblea
Costituente nel settore ecclesiastico-religioso.
Dopo aver infatti soppresso l'11 agosto 1789 le
decime di qualsiasi natura, comprese quelle
ecclesiastiche, l'Assemblea aveva decretato, il 2
novembre 1789, che tutti i beni del clero venissero
messi a disposizione della nazione e aveva disposto,
il 13 febbraio 1790, la soppressione degli ordini e
delle congregazioni regolari e la proibizione dei
voti monastici.
(27) AST, b. 20, fasc. 294, n. 9.
(28) VENTURI, Nota introduttiva
[a M. Delfico], cit., p. 1173.
(29) Lettera del 28 luglio 1790, in AST,
b. 20, fasc. 294, n. 11.
(30) DELFICO, Riflessioni su la
vendita dei feudi, cit., p. 420.
(31) Ivi, p. 408.
(32) Sulla necessità per Palmieri di
una trasformazione dei feudatari in proprietari
borghesi, cfr. A. LEPRE, Contadini, borghesi ed
operai nel tramonto del feudalesimo napoletano,
Feltrinelli, Milano 1963, pp. 41-51.
(34) Cfr. la lettera di Delfico a
Fortis del 20 dicembre [1796], in BGSM, n. 174.
(35) Cfr. DELFICO, Ricerche sul
vero carattere della giurisprudenza romana e de'
suoi cultori, cit., vol. I, pp. 211-12, e
E.-J. SIEYÈS, Essai sur les privilegès
[1788], trad. it. Saggio sui privilegi, in
Opere e testimonianze politiche, t. I,
Scritti editi, vol. I, a cura di G. Troisi
Spagnoli, Giuffrè, Milano 1993, pp. 96-98.
(36) Cfr. DELFICO, Riflessioni su
la vendita dei feudi, cit., p. 420.
(37) Ivi, p. 419.
(38) Ivi, p. 409.
(39) «Le diseguaglianze di proprietà e di
professione sono della stessa natura di quelle
d'età, di sesso, di taglia, di colore, ecc. Esse non
snaturano affatto l'eguaglianza civile […].
La legge non accorda nulla, protegge ciò che già
esiste finché non venga a nuocere all'interesse
comune» (E.-J. SIEYÈS, Qu'est-ce que le tiers
état? [1789], trad. it. Che cos'è il Terzo
Stato?, in Opere e testimonianze politiche,
t. I, Scritti editi, vol. I, cit., p. 280).
(40) DELFICO, Riflessioni su la vendita
dei feudi, cit., p. 420.
(41) Ivi, p. 426.
(42) Cfr. De l'Esprit des loix, cit.,
tome premier, livre II, chap. IV, pp. 29-35.
(43) DELFICO, Sull'importanza di abolire
la giurisdizione feudale, e sul modo, cit., p.
355. Datata da Venturi al 1788 (Nota introduttiva
[a M. Delfico], cit., p. 1173), la memoria è
più correttamente fatta risalire dalla Rao al 1790,
alla vigilia del viaggio dei Reali napoletani a
Vienna [agosto 1790 - marzo 1791] cui Delfico fa
riferimento nella lettera con la quale presenta lo
scritto alla regina (L'«amaro della feudalità»,
cit., pp. 69-70).
(44) Anche per Sieyès, un corpo intermedio
«non avrà minimamente a che fare con le funzioni
essenziali del potere pubblico» poiché esso è «una
massa estranea, nociva, sia perché intralcia dei
rapporti diretti fra governanti e governati, sia
perché grava sul meccanismo della macchina pubblica»
(Saggio sui privilegi, cit., p. 99).
(45) Piuttosto frequenti sono i riferimenti a
Montesquieu, che viene di volta in volta definito
«grande uomo» (Saggio filosofico sul matrimonio,
cit., p. 115), «immortale Autore» per aver stabilito
i principi di governo (Indizi di morale,
cit., p. 35), «illustre moralista» e «nome immortale
per i progressi della filosofia» (Elogio del
marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p.
247), fino ad essere considerato, assieme a Rousseau
e Sieyès, «il più grande filosofo politico del
secolo» (Memorie storiche della Repubblica di S.
Marino, cit., p. 472). Ma col Presidente di
Bordeaux egli si trova non di rado in disaccordo.
Gli rimprovera innanzitutto di aver creduto che la
virtù fosse un principio necessario alla
repubblica e non alla monarchia, che riteneva invece
avesse più bisogno dell'onore (Sull'importanza
di abolire la giurisdizione feudale, e sul modo,
cit., p. 358), di cui il Teramano dà peraltro una
diversa accezione (Discorso sullo stabilimento
della milizia provinciale, cit., p. 172).
Critico è anche nei confronti sia della
classificazione montesquiana delle forme di governo
che, soprattutto, dell'ammirazione che il Francese
nutriva per i Romani, nei quali troppo spesso «in
favor suo credeva trovarci la ragione», cadendo
«pure sovente in contraddizioni, paradossi, ed
errori, per aver voluto argomentare su le parabole
della storia» (Memoria sulla libertà del
commercio, cit., p. 47 e Pensieri su
l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della
medesima, cit., pp. 85-86). Contrario, infine,
alla teoria climatica (Ricerche sul vero carattere
della giurisprudenza romana e de' suoi cultori,
cit., p. 98), egli muterà in seguito opinione,
riconoscendo a Montesquieu il merito di aver provato
«l'influenza de' climi su la morale e su la
politica» (Memorie storiche della Repubblica di
S. Marino, cit., p. 459), per poi rifiutarla di
nuovo, ritenendo «falsa ed insussistente l'idea di
una politico-geografico-fisica determinatrice delle
forme dei governi pel solo effetto dei gradi di
latitudine» (Pensieri su l'istoria e
sull'incertezza ed inutilità della medesima,
cit., pp. 82-83). Molte delle critiche delficine a
Montesquieu sono anticipate nelle Note che
Genovesi appose alla seconda edizione napoletana
[1777] dello Spirito delle leggi. Cfr. DE
MAS, Montesquieu, Genovesi, cit., sp.
pp. 104-28 e 149-56. Sul rapporto tra Delfico e
Montesquieu, cfr. BERSELLI AMBRI, L'opera di
Montesquieu nel Settecento italiano, cit., pp.
160-62.
(46) MONTESQUIEU, De l'Esprit des
loix, cit., tome premier, livre XI, chap. IV, p.
256.
(47) Lettera di Delfico al duca di Cantalupo
del 1° aprile 1795, sui feudi, in Opere complete,
cit., vol. IV, pp. 15-16. Cfr. inoltre Memoria
per la vendita de' beni dello Stato d'Atri,
cit., p. 354; Riflessioni su la vendita dei feudi,
cit., p. 426.
(48) DELFICO, Sull'importanza di
abolire la giurisdizione feudale, e sul modo,
cit., p. 358.
(49) Già avviata alla fine del 1789, la
discussione sull'organizzazione del potere
giudiziario fu ripresa dall'Assemblea Nazionale il
24 marzo 1790. Il 30 aprile fu riconosciuto
l'istituto della giuria alle sole cause penali,
respingendo la tesi dei democratici, in primo luogo
di Robespierre, di estendere tale istituto anche
alle cause civili. Il 24 maggio 1790 l'Assemblea
decretò la facoltà di impugnare le sentenze
giudicate in ultima istanza presso la Cassazione e
il 25 maggio iniziò a discutere del Tribunale di
Cassazione, del quale Robespierre, seguito da altri
deputati del Terzo Stato, sostenne l'appartenza al
corpo legislativo, di cui doveva considerarsi un
completamento, essendo il suo compito quello di
sorvegliare i giudici e impedire la violazione della
legge. Si veda in proposito il discorso
all'Assemblea Nazionale, Sur l'organisation du
Tribunal de cassation, del 25 maggio 1790, trad.
it., Il diritto del parlamento di giudicare in
materia di cassazione, in M. ROBESPIERRE, I
principî della democrazia, a cura di a. M.
Battista, Trimestre Editrice, Pescara 1989, pp.
133-35. Per un'analisi dell'iter
giuridico-politico della costituzione francese del
1791, cfr. A. SAITTA, Costituenti e costituzioni
della Francia rivoluzionaria e liberale (1789-1875),
Giuffrè, Milano 1975, pp. 27-85.
(50) In BPT, segnate rispettivamente Ined.,
n. 402 e Misc. 3, n. 849. La corrispondenza di molti
brani delle due memorie con quelli dell'altra
già edita, Sull'importanza di abolire la
giurisdizione feudale, e sul modo, inducono a
credere che si tratti di due precedenti stesure di
quest'ultima.
(51) Inedito delficino, cit., n. 402.
(52) Ibid. «Ogni corpo -
continua Delfico - desideroso d'ingrandirsi, altro
non ha in mira, che ottenere considerazioni,
ricchezza e potere; e la propria realità è la sua
prima legge e di tutti i suoi membri, poiché tutti
credono partecipare ai vantaggi comuni. I differenti
corpi dunque che si formano in uno stato cercano di
tirare a loro i vantaggi che dovrebbero essere
comuni a tutta la società. Il bene generale serve
intanto di velo alla loro ambizione, è il pretesto
di tutti i loro sforzi, e facilmente ne impongono
perché agevolmente ne persuadono se stessi, e
sicuramente immaginano che la loro gloria sia quello
dello Stato, e che se essi non fioriscono, tutto
debba essere in languore. In conseguenza tutti
sagrificano al loro ingrandimento. Ogni corpo ha
quindi i suoi principj ed i suoi segreti, che sono i
mezzi che impiegano per ingrandirsi alle spese della
Società; perciò li custodiscono con gelosia, ne
formano l'opinione comune che diventa l'abitudine
dei loro pensieri, e ciò è che si chiama
propriamente spirito di corpo». Alcune di
queste considerazioni riecheggiano il Sieyès del
Saggio sui privilegi, cit., p. 94 sgg.
(53) Inedito delficino, cit., n. 402.
(54) Cfr. CUAZ, «Le nuove strepitose di
Francia», cit., p. 485.
(55) Inedito delficino,
cit., n. 849.
(56) Cfr. CUOCO, Saggio storico sulla
rivoluzione napoletana del 1799, cit., p. 45
sgg. Dello stesso autore si veda la recensione all'Essai
sur l'art de rendre les révolutions utiles di
Jean Esprit Bonnet [Paris 1801], pubblicata da S.
NUTINI, Vincenzo Cuoco a Milano (1800-1806),
Istituto storico italiano per l'età moderna e
contemporanea, Roma 1989, pp. 215-18, il quale
sottolinea (pp. 211-14) alcuni punti di contatto tra
la recensione e il Saggio storico. Definito
dallo stesso Molisano un «libro pieno di buon senso»
(Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del
1799, cit., p. 64), il volume di Bonnet
costituisce una importante fonte cuochiana. Sulla
presenza nel Saggio storico di spunti teorici dell'Essai,
cfr. M. PARIGI, Per una rilettura del «Saggio
storico sulla Rivoluzione Napoletana del 1799» di
Vincenzo Cuoco, in «Archivio storico italiano»,
a. CXXXV (1977), n. 491-92, pp. 250-56.
(57) Inedito delficino, cit., n. 849.
(58)
L'Assemblea Nazionale, dopo aver decretato il 2
novembre '89 l'appartenenza dei beni ecclesiastici
alla Nazione, ne autorizzò la vendita per 400
milioni da utilizzare per estinguere il debito
pubblico. Per assicurare un rapido introito nelle
casse dello Stato, il 19 dicembre 1789 furono emessi
dei buoni del Tesoro, gli «assegnati» appunto, che
fruttavano un interesse del 5% ed erano rimborsabili
in terre anziché in moneta. Ma contrariamente a
quanto sembra credere Delfico, gli «assegnati» non
sortirono l'effetto sperato, poiché il pubblico non
accordò loro molta fiducia, in quanto il clero,
sebbene spossessato dei suoi beni, continuava di
fatto a conservarne l'amministrazione. Sulla vicenda
degli assegnati, cfr. J. LAFAURIE, Les assignats
et les papiers-monnaies émis par l'Etat au XVIIIe siècle,
Le Léopard d'Or, Paris 1981.
(59) Delfico si riferisce probabilmente
all'incarico che il 23 settembre 1790 l'Assemblea
affidò al Comitato della Costituzione di «esaminare
tutti i decreti resi dall'Assemblea Nazionale,
separare quelli che propriamente formano la
costituzione da quelli che sono semplicemente
legislativi o di regolamento, fare in conseguenza un
corpo di leggi costituzionali, rivedere gli articoli
al fine di rettificare gli errori che potessero
esservisi introdotti». Cfr. SAITTA, Costituenti e
costituzioni della Francia rivoluzionaria e liberale,
cit., p. 232.
(60) Lettera da Napoli del 6 novembre 1790,
in RICCOBONO, Contributo per l'epistolario di
Melchiorre Delfico, cit., p. 409.
(61) Lettera ai fratelli da Napoli del 25
giugno 1791, in B.P.T., Ep., n. 281.
(63) Lettera da Napoli del 2 luglio 1791, in
BAFS, n. 49.
(64) Si veda la lettera di Delfico a Fortis
del 12 luglio 1791, in BGSM, n. 127. L'opera, di cui
venne fatta nel 1791 «un'edizione numerosa», fu
ristampata a Firenze nel 1796 e una terza volta di
nuovo a Napoli nel 1815. Il 15 settembre 1791 Fortis
ne tesse l'elogio sul n. 37 delle «Notizie
letterarie», non mancando di sottolineare l'impegno
intellettuale e teorico dell'Autore, che con il suo
libro aveva voluto «rendere efficace il desiderio di
tutti i veri filosofi», qual era quello di un
legislatore che «propagasse al suo popolo leggi
chiare, brievi, intelligibili, e soprattutto
adattate all'indole, alla natura, alla religione, ai
costumi, allo stato, ed al governo della nazione»
(p. 284). La recensione uscì anche sul «Nuovo
Giornale enciclopedico d'Italia» nel fascicolo di
novembre 1791, pp. 3-13. A Fortis lo scrittore
abruzzese aveva inviato diverse copie delle
Ricerche perché le diffondesse nell'Italia
settentrionale e, forse, anche un estratto
che l'abate gli aveva richiesto per poterlo «diriggere
oltre Monti» (cfr. la lettera a Fortis del 2 agosto
1791, in CLEMENTE, Rinascenza teramana e
riformismo napoletano, cit., p. 390). In Francia
il libro era giunto abbastanza presto, come lo
stesso autore comunicava a Fortis: «A Parigi
dev'essere capitata qualche copia e credo a
Condorcet ed al sublime Syeies [sic]»
(lettera del 23 agosto 1791, cit.). Altre sette
copie il Teramano aveva spedito a Roma ad Amaduzzi
perché, trattenutene due, provvedesse a far
pervenire le altre agli amici della Romagna (cfr. la
lettera di Delfico ad Amaduzzi del 2 luglio 1791,
cit.). A Milano, dove ebbe ampia diffusione, il
libro ricevette molti elogi (cfr.
la lettera di Amoretti a Delfico del 13
dicembre 1791, in VENTURI, Nota introduttiva
[a M. Delfico], cit., p. 1179). Grande era
l'ammirazione che gli esprimeva Spannocchi, anche se
non mancava di muovergli qualche rilievo (cfr. la
lettera da Milano del 26 dicembre 1791, in AST, b.
20, fasc. 294, n. 14). Ma alla replica di Delfico
qualsiasi divergenza tra i due amici era pressoché
scomparsa, tanto che Spannocchi lo invitava a
«imbarazzarsi» più che di lui, «della facoltà legale
dell'università di Pavia, scandalizzatissima, che
abbiate osato toccare al Santuario, e che freme in
sentire che il vostro libro sia assai ricercato
oltre i monti, e in specie nella Germania» (lettera
da Milano del 13 giugno 1792, in Opere complete,
cit., vol. IV, p. 146, erroneamente datata 1790).
Della reazione della Facoltà legale di Pavia Delfico
rimase alquanto sorpreso e non nascose il proprio
disappunto a Fortis nella lettera da Teramo del 26
giugno 1792, in BGSM, n. 142. Dell'opera si parlò
anche sul periodico napoletano «Analisi ragionata
de' libri nuovi» [febbraio 1792], dove apparve un
lungo estratto, seguito da un commento altrettanto
lungo ad opera di Giovan Leonardo Marugi. Nel
suo intervento, il medico pugliese, nato a Manduria
nel 1753, principale ispiratore della rivista,
muoveva più di una critica al libro del Teramano, il
cui stile riteneva abbondasse di «Francesismi» (p.
63). Ma soprattutto cercava di limitarne il
carattere eversivo, sostenendo che dalla
«mostruosità» di certe leggi romane non si dovesse
dedurre, attraverso un «parallogismo», la
mostruosità di quelle attuali (p. 48) e che le
Ricerche dimostravano in definitiva molto più
«la malizia de' Giureconsulti» che non «quella de'
Patrizj, o degli Imperatori, come vuoleva darci ad
intendere il N.A.» (p. 58).
(65) Cfr. la lettera di Delfico ai
fratelli del 25 giugno 1791, cit., nella quale
prevede l'opposizione dei magistrati per essersi
espresso contro l'incremento economico a loro favore
nella Memoria contro l'aumento dei soldi ai
Magistrati, cit., pp. 394-96. Si veda, inoltre,
la lettera al Fortis del 5 luglio 1791, in
RICCOBONO, Contributo per l'epistolario di
Melchiorre Delfico, cit., pp. 411-12.
(66) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del 19 luglio 1791, in BGSM, n. 113. L'opera,
che riceve gli «elogi de' Francesi patrioti»
(lettera a Fortis del 12 luglio 1791, cit.), pur
avendo, scrive il Teramano, «dei detrattori nella
classe tabularia, ha de' panegeristi nella
marziale, e fra essi sento che sia il Sig. Pommereul,
che sicuramente non mi conosce» (lettera a Fortis
del 5 luglio 1791, cit., p. 412). François René Jean
de Pommereul [1745-1823], generale francese, dopo
aver partecipato alla conquista della Corsica, nel
1787 fu chiamato a Napoli dal ministro Acton per
riorganizzare l'artiglieria sul modello di quella
francese. Dalla capitale partenopea si allontanò
dopo che il Regno napoletano era entrato in guerra
con la Francia [luglio 1793], per fare in seguito
ritorno in patria, dove si mise al servizio della
Repubblica. Nei confronti del Francese il Nostro
nutriva da tempo grande stima (cfr. le lettere di
Delfico a Fortis da Pavia del 10 aprile 1789, in
BGSM, n. 92 e del 20 aprile successivo, cit., p.
27). Con gli anni questo sentimento si rafforzerà al
punto che il Teramano gli sottoporrà il suo
Discorso sulla pena di morte, redatto molto
probabilmente nell'estate del '95 e non più
rintracciato, Discorso che lo stesso
Pommereul si impegnerà a tradurre perché fosse
conosciuto in Francia (cfr. il brano della lettera
di Delfico a Micali da Firenze del 19 novembre 1795
riportato dallo stesso Micali nella lettera che
invia a Gregorio de Filippis da Firenze il 10 giugno
1836, in Opere complete, cit., IV, pp.
288-91).
(67) GHISALBERTI, La giurisprudenza
romana nel pensiero di Melchiorre Delfico, cit.,
p. 432. Sullo sviluppo in Italia nella seconda metà
del Settecento di una letteratura critica della
legislazione romana, cfr. R. BONINI, Crisi del
diritto romano, consolidazioni e codificazioni nel
Settecento europeo, Pàtron, Bologna 1988, in cui
viene analizzata anche la posizione di Delfico
(pp. 145-67).
(68) DELFICO, Ricerche sul vero carattere
della giurisprudenza romana e de' suoi cultori,
cit., p. 225.
(70) Ivi, p. 100. Cfr., in proposito,
A. DE MARTINO, Tra legislatori e interpreti.
Saggio di storia delle idee giuridiche in Italia
meridionale, Jovene, Napoli 1975, p. 97.
(71) L'idea di una legislazione «adattabile
allo stato attuale de' governi e delle nazioni» (Ricerche
sul vero carattere della giurisprudenza romana e de'
suoi cultori, cit., p. 189) è una tesi più volte
espressa nel corso dell'opera e ancor più lo sarà
nelle successive Memorie storiche di S.
Marino. Di conseguenza, la stessa accusa di
astrattezza di cui si è talvolta troppo
frettolosamente tacciato il Teramano per aver
rivendicato un codice «secondo i principj della
natura e della ragione» (Ricerche sul vero
carattere della giurisprudenza romana e de' suoi
cultori, cit., p. 161), la cui validità
trascendesse i limiti di tempo e di spazio, crediamo
vada in qualche modo rivista. Sulla dicotomia
razionalismo/relativismo presente in alcuni
illuministi napoletani cfr. retro, p. 12,
nota 52.
(72) C. GHISALBERTI, Le costituzioni
«giacobine» (1796-1799), Giuffrè, Milano 1957,
p. 43.
(73) Cfr. DELFICO, Ricerche sul vero
carattere della giurisprudenza romana e de' suoi
cultori, cit., pp. 167, 168, 174 e 190.
(74) Cfr. DELFICO, Memorie sul Tribunal
della Grascia, cit., p. 287; Memoria sulla
coltivazione del riso nella provincia di Teramo,
cit., pp. 210 e 216.
(75) DELFICO, Ricerche sul vero
carattere della giurisprudenza romana e de' suoi
cultori, cit., p. 158.
(77) Ivi, pp. 168, 183 e 189.
(80) In opposizione a quanto
stabilito dalla Dichiarazione dei diritti dell'uomo
e del cittadino, l'Assemblea Nazionale aveva votato,
tra l'ottobre e il dicembre 1789, la legge
elettorale che riconosceva la distinzione tra
cittadini passivi, titolari dei soli diritti
naturali e civili, e cittadini attivi che godevano
dei diritti politici, secondo una classificazione
operata da Sieyès nei Préliminaires de la
Constitution française. Reconnaissance et exposition
raisonnée des droits de l'homme et du citoyen,
Baudovin, Paris 1789. Avevano diritto di voto
solo coloro che pagavano un'imposta annua pari
almeno al valore di tre giornate lavorative. A
costoro non spettava eleggere i deputati, ma solo
scegliere gli elettori, categoria limitata anch'essa
sulla base del censo, della quale potevano far parte
i cittadini che versavano un contributo
corrispondente al valore di dieci giornate
lavorative, mentre gli eleggibili dovevano essere
proprietari e pagare un contributo pari al valore di
un marco d'argento.
(81) DELFICO, Ricerche sul vero carattere
della giurisprudenza romana e de' suoi cultori,
cit., pp. 158-59.
(84) DELFICO, Ricerche sul vero carattere
della giurisprudenza romana e de' suoi cultori,
cit., p. 216.
(85) Ivi, p. 217.
(86) M. DELFICO, Memoria per l'abolizione
o moderazione della servitù del pascolo invernale
detto de' regj stucchi, s.d., s.l. [ma Napoli
1791], p. V.
(87) Lettera di Melchiorre ai
fratelli del 25 giugno 1791, cit.
(88) DELFICO, Ricerche sul vero carattere
della giurisprudenza romana e de' suoi cultori,
cit., p. 212.
(89) Lettera ai fratelli da Napoli, 30
luglio 1791 in AST, b. 24, fasc. 453c, n. 8.
(90) Le prime reazioni della corte napoletana
colpirono soprattutto le fonti d'informazione. «Sin
dall'agosto il governo fece sopprimere l'articolo
riguardante le notizie di Francia nella ristampa
napoletana della "Gazzetta universale" di Firenze.
La sorveglianza sui libri e le stampe che si
potevano introdurre nel Regno e sui discorsi che si
facevano in pubblico intorno alle cause e ai
progressi della rivoluzione fu intensificata nei
mesi seguenti. Nell'ottobre venne ordinato di
intercettare le corrispondenze sospette e si vietò
ogni riunione segreta delle logge dei Liberi
Muratori; il 15 dicembre 1789 venne proibita "nel
modo più rigoroso" l'introduzione dell'opuscolo
dell'abate Mably, Dei diritti e dei doveri del
cittadino» (CUAZ, «Le nuove strepitose di
Francia», cit., p. 484). Sull'atteggiamento del
governo napoletano verso gli stranieri, cfr. la
Correspondance inédite de Marie Caroline reine de
Naples et de Sicile, avec le marquis de Gallo
publiée et annotée par M.H. Weil et C. Di Somma
Circello, Emile Paul, Paris 1911. Per un'analisi
della stampa partenopea all'indomani dei fatti
dell'89, cfr. a. M. RAO, La Rivoluzione francese
nella stampa periodica napoletana, in
«Prospettive Settanta», a. XI (1989), n. 1-2,
pp. 44-61.
(91) Lettera di Acton al ministro
napoletano a Madrid del 7 dicembre 1790, in A.
SIMIONI, Le origini del Risorgimento politico
dell'Italia meridionale, Principato,
Messina-Roma 1925, vol. I, p. 385 sgg. Sulla
preoccupazione governativa di una sollevazione
antimonarchica a Napoli nel 1790, cfr. i Racconti
storici di Gaetano Rodinò ad Aristide suo
figlio, a cura di B. Maresca, in «Archivio
storico per le province napoletane», a. VI (1881),
fasc. II, p. 270.
(92) Lettera da Napoli del 27 settembre 1791,
in BGSM, n. 120.
(93) Ai fratelli, che attribuivano la sua
esclusione al carattere antifeudale dei suoi
scritti, spiegava il 24 settembre 1791: «Non vorrei
che pensaste che le due operette dell'anno passato e
di questo m'abbino potuto far male. Le avrei
sicuramente fatte, ancorché questo fosse stato
sicuro, e che avessero d'altronde potuto produrre
qualche pubblico bene; ma sono sicurissimo che la
rabbia baronale e la forense sono state affatto
impotenti, e potrei dir anche vantaggiose» (in DE
FILIPPIS-DELFICO, Della vita e delle opere di
Melchiorre Delfico, cit., p. 102, nota 44).
Infatti, all'inizio dell'estate aveva rifiutato un
incarico ministeriale: «Il Governo - confidava a
Fortis - ha tentato ritenermi con favorevole offerta
che io ho creduto dover rinunciare e non l'ho fatto
sapere agli amici, che mi avrebbero dato del matto
mille volte: non sono però ancora fuori del
pericolo, e mi fermeranno certamente se mi daranno
ciocché mi può convenire, e che io solo credo dover
desiderare. Forse non sarà, ed io resterò
tranquillo, libero ed indifferente» (lettera da
Napoli del 12 luglio 1791, cit.). Si trattava, con
ogni probabilità, di un posto nel ministero togato
come risulta da una successiva lettera a Fortis
dell'8 novembre 1791, in CLEMENTE, Rinascenza
teramana e riformismo napoletano, cit., p. 308.
(94)
Lettera da Napoli del 13 settembre 1791, in
BGSM, n. 124.
(95) Sin dal 1786 Delfico aveva chiesto
l'abolizione del «diritto del pascolo invernale» nei
paesi costieri dell'Abruzzo, ma sempre con scarso
successo. Alla fine del '91 ne sollecitava di nuovo,
ma invano, la soppressione nella Memoria per
l'abolizione o moderazione della servitù del pascolo
invernale detto de' regj stucchi, cit.
Amareggiato, scriveva ad Amaduzzi: «Vorrei poter far
più spesso simili opuscoli per godere d'un tanto
piacere, ma in un paese come questo, cadono le
braccia a chi si occupa della pubblica utilità più
che della Gloria […]. Spesso ho dovuto dolermi della
mia attività perduta, e non è stata poca quella che
ho dovuta impiegare per l'affare presente; e dopo un
anno e mezzo di assistenza ed altri antecedenti,
parto da Napoli senz'alcuna conchiusione, giacché
nel Consiglio di ieri dopo molti dibattimenti fra i
deliberanti, de' quali uno solo [il duca di
Cantalupo] fu per la ragione, nulla si conchiuse, se
non che prepararsi per una decisione infelice»
(lettera da Napoli, s.d. [ma 29 novembre 1791], in
BAFS, n. 52). Uguale amarezza manifestava a Fortis
in una lettera del medesimo giorno (in BGSM., n.
119). Lo stesso abate riteneva «fra le imprese
difficili, situate al confine dell'impossibile, il
far cose buone a Napoli, stante la venalità della
Segretaria, la loro illimitata influenza, e la paura
che ognuno ha quando si tratti di dire ai Sovrani
delle verità, che urtino gli interessi dei più
tristi fra' loro servidori» (lettera di Fortis a
Domenico Cotugni del 14 agosto 1791, in G. CALABRO',
Tradizione culturale gesuitica e riformismo
illuministico. Juan de Osuna e le «Notizie
letterarie» (1791-92), in Saggi e ricerche
sul Settecento, cit., p. 557).
(96) A Teramo, il duca gli scriverà il
23 dicembre 1791: «Il Marchese Palmieri [nuovo
direttore del Consiglio delle Finanze] a me pare che
voglia fare al contrario di quello che ha stampato.
I suoi sentimenti nel Consiglio si oppongono
diametralmente alle di lui massime scritte. Io ne
rimango sorpreso, e mi quieto riflettendo, che
quella sede di direttore sarà la cagione del cangiamento subitaneo». E il 1° febbraio 1792: «A
ragione il fu abate Galiani rassomigliava il
Consiglio delle Finanze alla notte di Natale, nella
quale si mangia assai, e poi tutto termina in una
fiera indigestione. Così nel Consiglio grandi
progetti, ordinazioni di piani, riforme, ben
pubblico, commercio, agricoltura, arti, mestieri,
ecc. Ed indi o sempre da capo senza concludersi
cosa, o si conclude il peggio. Caro D. Melchiorre,
voi è vero mi persuadeste a non lasciar mai
d'intervenire in Consiglio. Ma intanto che ne ho
cavato di profitto colla mia assistenza? Quattro
forensi tenaci nel loro dispotismo dispongono a
voglia propria degli affari che ivi si propongono».
E ancora l'11 novembre 1792: «Le noie, e seccature
forensi sono state le medesime, anzi maggiori […].
La pratica giornaliera dimostra, che l'esecuzione in
questo nostro Paese fa odiose tutte le
operazioni più utili, e le avvelena in modo, che si
bestemmiano e da chi le ha proposte e da chi
le ha ordinate. Quindi è nata fra noi quella
grandissima, micidiale e reciproca diffidenza che
passa fra il governo e li sudditi, e per cui si ama
piuttosto il disordine antico, che l'uscirne fuori
col timore d'inciampare nel peggio. Caro amico se la
nostra Costituzione tutta forense, e litigiosa, e
per la quale va tutto a colare il denajo nazionale
nella borsa dei Paglietti supremi, medii, ed infimi,
non si cangia, e non se ne forma altra veramente
politica, e statistica, si starà sempre male, nulla
mai otterremo di buono, e ci stropicciaremo il
cervello a scrivere e declamare inutilmente». Le
lettere, parzialmente pubblicate dal Clemente (Rinascenza
teramana e riformismo napoletano, cit., pp.
309-10), sono conservate presso l'AST, b. 20, fasc.
281, rispettivamente nn. 2, 3 e 6.
(97)
Cfr. la lettera di Delfico ad Amaduzzi da Napoli del
29 novembre 1791, cit.
(98) Cfr. la lettera a Fortis da Teramo del
30 gennaio 1792, cit.
(99) La rivista, che aveva iniziato
le pubblicazioni nell'ottobre del '91, uscì fino al
dicembre 1793. Tuttavia, in seguito a contrasti
interni, nell'agosto del '93 si giunse ad una
scissione che portò, a partire da quel mese, alla
pubblicazione, accanto all'«Analisi ragionata», di
un altro periodico, il «Giornale letterario di
Napoli per servire di continuazione all'Analisi
ragionata de' libri nuovi», che uscì fino al gennaio
1799. Vera prosecuzione dell'«Analisi ragionata»
furono però le «Effemeridi enciclopediche per
servire di continuazione all'Analisi ragionata de'
libri nuovi» pubblicate a Napoli dal gennaio 1794 al
dicembre 1796. Sulla nascita e le vicissitudini di
queste riviste, cfr. a. M. RAO, Note sulla stampa
periodica napoletana alla fine del '700,
in «Prospettive Settanta», a. X (1988), n. 2-3-4,
pp. 333-66. Un vero e proprio giornalismo politico a
Napoli, come altrove, si avrà soltanto con
l'esperienza repubblicana. Cfr. Napoli
1799. I giornali giacobini, a cura di M.
Battaglini, Libreria A. Borzi, Roma 1988.
(100) RAO, Note sulla stampa
periodica napoletana alla fine del '700, cit.,
p. 342.
(101) Cfr. Storia dell'Umana Società,
in «Analisi ragionata», ottobre 1791, pp. 17-18.
(102) Cfr. Ou sont-ils les
defenseurs du peuple, in «Analisi ragionata»,
novembre 1791, pp. 54-56.
(103) Cfr. Realtà del progetto filosofico
Anarchia e Deismo pubblicata da M. Mercier nel sogno
Profetico intitolato l'«Anno 2440» interpretato da
altro soggetto, in «Analisi ragionata»,
dicembre 1791, pp. 4-5. Nella Introduzione al
volume, il cui vero titolo è Realtà del progetto
filosofico Anarchia e deismo pubblicata da Monsieur
Mercier intitolato Anno 2440 interpretato ora da un
altro sogno, s.e., s.l., 1791, Louis-Sébastien
Mercier finge di presentare un libro, scritto nel
1768, contenente quelle idee e finalità dei Filosofi
che stavano trovando attuazione nella Francia del
1791. Sulla scia di quei principi filosofici,
sostiene l'Autore, «vuolsi cancellare dalla mente, e
sradicare dal cuore ogni idea di Religione rivelata,
voglionsi sbalzare dal Trono tutti i Regnanti;
vuolsi finalmente una libertà senza limiti
d'autorità divina od umana. […] Ma l'evidenza dei
fatti, il linguaggio dei Filosofi, lo spirito di
vertigine, che dappertutto prevale nella Francia,
convince ognuno, che sotto le belle apparenze di
patriottismo, d'umanità, e di libertà nascondeasi
l'infausto progetto di sbalzare dal Trono il
Monarca, cancellando ogni vestigio di Religione, per
introdurvi poscia il deismo, e piantar l'Anarchia».
E conclude affermando che «tempo è ormai di
riflettere sopra il resto dell'Europa», minacciata
dallo stesso destino «che ora opprime la Francia» (Introduzione,
cit., pp. IV, XXII e XXIV).
(104) «Analisi ragionata», febbraio
1792, p. 63. Per il giudizio della rivista sulle
Ricerche, cfr. retro, p. 81, nota 64.
(105) Come è noto, con il giuramento di
fedeltà alla Costituzione da parte di Luigi XVI [14
settembre 1791] si ritenne conclusa l'attività della
Costituente, la quale si sciolse il 30 settembre
successivo, non prima di aver eletto l'Assemblea
legislativa, che si riunì il 1° ottobre 1791.
(106) L'Autore si riferisce
probabilmente ai disordini del 17 luglio 1791,
quando la Guardia nazionale aveva sparato sulla
folla recatasi al Campo di Marte a reclamare la
Repubblica, provocando numerosi morti. Violente
manifestazioni nelle città e nelle campagne si
verificarono anche nell'autunno e nell'inverno
successivi contro il carovita e per la completa
soppressione del regime feudale.
(107) Lettera da Teramo del 30 gennaio
1792, cit.
(108) Lettera del 21 febbraio 1792, in AST,
b. 20, fasc. 281, n. 4.
(109) Brano di lettera non autografa
riportata di seguito alla lettera del duca di
Cantalupo a Delfico del 21 febbraio 1792, cit.
(110) Si vedano le lettere del 20 febbraio
1792, in Opere complete, cit., vol. IV, pp.
173-75, del 9 aprile 1792, in AST, b.
20, fasc. 290a, n. 2 e quella del 13
maggio 1792, in BPT, Ep., n. 190. Giuseppe Micali
[1769-1844], storico e archeologo, fu noto
soprattutto per le ricerche sulla civiltà etrusca,
che ebbe il merito di rivalutare. Recatosi a Parigi
al tempo del Direttorio, vi rimase fino al 1798.
Ritornato in Toscana riprese gli studi sulla storia
antica e pubblicò le sue due opere principali,
L'Italia avanti il dominio dei Romani [1810] e
la Storia degli antichi popoli italiani
[1832]. Conobbe Delfico ancora prima della
rivoluzione, durante uno dei suoi viaggi a Napoli.
(111) Lettera di Acton a Gallo del 12 ottobre
1792 in G. NUZZO, Italia e rivoluzione francese.
La resistenza dei principi (1791-1796),
Liguori, Napoli 1965, pp. 104-105.
(113) Cfr. la lettera di Spannocchi a
Delfico da Milano del 13 giugno 1792, cit.
(114) Il 22 settembre 1792 la Francia, senza
esplicita dichiarazione di guerra, attaccò la Savoia
con la quale aveva rotto le relazioni diplomatiche
sin dal maggio precedente, conquistando nei mesi
successivi diverse località. In ottobre, la flotta
francese si presentò davanti ad Oneglia volendovi
porre un presidio. La popolazione resisté, ma la
città venne bombardata, occupata e messa al sacco.
Invano cercò poi di imporre un presidio a Genova e
Savona.
(115) Si tratta del maresciallo di Francia
François Etienne Christophe Kellermann [1735-1820],
che si distinse nella battaglia di Valmy del 20
settembre 1792. All'inizio del '93 assunse il
comando delle due armate delle Alpi e d'Italia,
riuscendo nell'ottobre di quell'anno a rioccupare la
Savoia, riconquistata nel frattempo dai Piemontesi.
Dopo varie vicissitudini, nel gennaio del '95
riprese il comando delle due armate ma fu
soppiantato dal giovane Napoleone a cui nel 1796 il
Direttorio decise di affidare la campagna d'Italia.
(116)
Lettera di Spannocchi a Delfico da Milano del 4
dicembre 1792, in AST, b. 20, fasc. 294, n. 16.
(117) Alla fine di ottobre 1792 il
governo francese aveva ordinato che una divisione
della propria flotta si presentasse nel porto di
Napoli per ottenere dal Re «una giusta riparazione»
ad un incidente diplomatico provocato dal ministro
napoletano Ludolf (sembra che questi avesse convinto
l'impero ottomano a non accettare il nuovo
ambasciatore francese a Costantinopoli perché
ritenuto pericoloso per la sicurezza interna).
Quando il 15 dicembre la divisione, al comando
dell'ammiraglio Latouche-Tréville, giunse nel golfo
di Napoli, Ferdinando IV, che nel frattempo si era
affrettato a riconoscere la Repubblica francese,
presentò immediate scuse. Dal capoluogo partenopeo i
Francesi ripartirono il 17 dicembre, ma colpiti da
una tempesta furono autorizzati a rientrare in porto
per riparare i danni subiti e vi restarono fino al
30 gennaio 1793. Sull'episodio e sulle conseguenze
politiche, cfr. A. SIMIONI, La spedizione
dell'ammiraglio La Touche-Tréville a Napoli nel
dicembre 1792,
in «Archivio storico per le province napoletane», a.
XXXVII (1912), n. 1, pp. 90-119 e n. 2, pp.
175-210; N. NICOLINI, La spedizione
punitiva del Latouche-Tréville (16 dicembre 1792) ed
altri saggi sulla vita politica napoletana alla fine
del secolo XVIII, Le Monnier, Firenze 1939.
(118) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del natale 1792, in BGSM, n. 132.
(119) Lettera da Napoli del 22
dicembre 1792, in AST, b. 20, fasc. 281, n. 7.
(120) Lettera del 18 febbraio 1793, da
Teramo, in BGSM, n. 157.
(121) Cfr. la lettera del 12 giugno 1793, in
AST, b. 20, fasc. 294, n. 17, parzialmente
pubblicata da DE FILIPPIS-DELFICO, Della vita e
delle opere di Melchiorre Delfico, cit., pp.
102-103.
(122) Si tratta di Luigi Maria Pirelli
[1740-1820], nobile di Ariano, religioso dell'Ordine
dei Regolari teatini, vescovo di Teramo dal 1777 al
1804 e sin dal suo arrivo avverso alla famiglia
Delfico. Sul periodo teramano del prelato, cfr. N.
PALMA, Storia della città e diocesi di Teramo,
vol. III [1833], Cassa di risparmio della provincia
di Teramo, Teramo 1980, pp. 487-509. Tra le carte
Delfico della Biblioteca Provinciale di Teramo si
conserva una breve memoria, in parte pubblicata da
CLEMENTE, Rinascenza teramana e riformismo
napoletano, cit., pp. 475-76, probabilmente del
1797-98, in cui il Nostro dà giudizi severi e
sferzanti sul Pirelli: «Il Vescovo di Teramo ha la
disgrazia di aver un carattere inclinato alla
maleficenza. Tutta la sua vita ne sarebbe una pruova;
né si può coprire col manto dello zelo religioso,
poiché com'è stato inteso a perseguitare la gente di
garbo ed onesta così si è fatto un pregio di
proteggere le persone spregevoli e di pessimo
talento […]. Tutto il paese sa come ha perseguitato
alcune persone di lettere benché fossero della più
illibata condotta. […] Per mettersi al coverto di
ricorsi, che si potevano fare al Sovrano contro la
di lui irregolare condotta, come il lupo della
favola, prese il manto dell'agnello attaccando con
relazioni e con denuncie di mano aliena la religione
e la fedeltà de' Cittadini, accusandoli
d'irreligiosità e di massime ed azioni contrarie al
governo. Le più orribili calunnie non furono
risparmiate, ma la Sovrana intelligenza e giustizia
non ne restarono ingannati». E conclude: «Da tutto
ciò si rileva che il Vescovo di Teramo è un vero
spirito malefico, e che il piacere di maleficare e
dominare a torto o a dritto fanno il suo gusto ed il
suo carattere deciso» (BPT, Ined., n. 411).
(123) Consegnatasi agli Inglesi il 28
agosto 1793, Tolone verrà liberata da Napoleone
Bonaparte entro la fine dello stesso anno. Delfico
teme per i suoi concittadini poiché il Regno di
Napoli, facendo parte dal luglio 1793 della
coalizione antifrancese, aveva inviato, in aiuto
degli Inglesi, navi e truppe per la sua occupazione.
(124) In RICCOBONO, Contributo per
l'epistolario di Melchiorre Delfico, cit., pp.
415-16. Da Napoli, il 7 dicembre 1793, il
consigliere Codronchi comunica a Delfico l'esistenza
di una nuova denuncia anonima nei suoi confronti
affinché «possa produrre i suoi discarichi e
dileguare qualunque dubbio potesse insorgere lesivo
della Sua opinione» (in CLEMENTE, Rinascenza
teramana e riformismo napoletano, cit., p. 452).
Nella Relazione risponsiva alle accuse del 18
dicembre 1793 il Teramano non nasconde il suo
«rammarico ed una specie di umiliazione» a dover
difendere la propria reputazione dinanzi al Supremo
Consiglio a causa di «vaghe» e «calunniose
imputazioni» di qualche delatore, pur essendo stato
sempre «un buon servitor del Re ed un onesto e
meritevole cittadino» (ivi, p. 86). La
denuncia del '93, pur non avendo gravi conseguenze,
riesce tuttavia ad impedire che Delfico succeda al
fratello nella presidenza della Società Patriottica
di Teramo.
(125)
Lettera a Fortis del 19 novembre 1793, da Teramo, in
BGSM, n. 152.
(126) Lo scritto fu pubblicato a
Milano nel 1793 senza l'indicazione del luogo e
della data e con il nome arcadico dell'autore Glice
Ceresiano. Sempre nello stesso anno l'opera ebbe
un'edizione torinese (ancora con il nome di Glice
Ceresiano) ed una napoletana nella quale comparve
per la prima volta il nome di Francesco Soave.
(129) Lettera di Melchiorre al fratello
Giamberardino del 12 aprile 1794, da Napoli, in AST,
b. 24, fasc. 453c, n. 11.
(130) Per una ricostruzione di quegli
avvenimenti si veda lo studio di A. SIMIONI, La
congiura giacobina del 1794 a Napoli, in
«Archivio storico per le province napoletane», a.
XXXIX (1914), fasc. II, pp. 299-366; fasc. III, pp.
495-535 e fasc. IV, pp. 788-808. Sul programma
politico dei congiurati, cfr. M. BATTAGLINI, La
Repubblica napoletana. Origini, nascita, struttura,
Bonacci, Roma 1992, pp. 18-39.
(131) Cfr. CUOCO, Saggio storico
sulla rivoluzione napoletana del 1799, cit., pp.
37-38.
(132) Cfr. PEDÌO, La congiura
giacobina del 1794 nel Regno di Napoli, cit., il
quale attraverso la pubblicazione dell'inedito
«Fatto fiscale», contenente l'accusa a carico dei
congiurati del '94, dimostra, contro la tesi del
Cuoco, del Colletta, del Rodinò e di altri,
l'esistenza a Napoli, in quegli anni, di un «vasto
movimento rivoluzionario» che dalla capitale si
estendeva alle province.
(133) Troiano Odazi [1741-94], nativo di
Atri, in provincia di Teramo, fu tra i maggiori
economisti napoletani della seconda metà del
Settecento. Allievo del Genovesi, nel 1768 ne curò
l'edizione milanese Delle lezioni di commercio o
sia d'economia civile. Nominato nel 1779
professore di Etica nel Reale convitto della
Nunziatella, nell'ottobre del 1781 fu chiamato a
ricoprire la cattedra di Economia e Commercio che
era stata del Genovesi e rimasta vacante per diversi
anni. Esponente della massoneria napoletana, fu
coinvolto nel fatti del '94. Arrestato, morì suicida
nelle carceri della Vicaria il 20 aprile di
quell'anno. Sulla fine dell'Odazi, cfr. G. BELTRANI,
Don Trojano Odazi. La prima vittima del processo
politico del 1794 in Napoli, in «Archivio
storico per le province napoletane», a. XXI (1896),
fasc. I, pp. 853-67.
(134) «Fra le occupazioni, le noje, i
dispiaceri, e il mal di capo non ti dee far
meraviglia - confessa a Fortis - che io non mi sono
rivolto a cercar della letteratura del paese. L'Analisi
ragionata ed insensata è il solo giornale che io
conosco e non leggo» (lettera del 23 settembre 1794,
da Napoli, in BGSM, n. 163. Il corsivo è nostro).
Come è stato in precedenza ricordato, l'«Analisi
ragionata de' libri nuovi» aveva interrotto la
pubblicazione nel 1793. Difficile quindi stabilire
se Delfico si riferisse al «Giornale letterario di
Napoli per servire di continuazione all'Analisi
ragionata» o alle «Effemeridi enciclopediche per
servire di continuazione all'Analisi ragionata», che
costituirono entrambi, al di là delle differenze, la
prosecuzione della precedente rivista. Non è da
escludere neppure che egli alludesse a tutti e due i
periodici, dal momento che avevano assunto nel corso
del '94 una linea chiaramente reazionaria, in difesa
dell'oltranzismo cattolico svolgendo,
soprattutto le «Effemeridi», un'aperta propaganda
controrivoluzionaria, il che spiegherebbe perché il
Teramano avesse definito «insensata» la rivista.
Cfr., in proposito, RAO, Napoli e la Rivoluzione,
cit., pp. 474-76.
(135)
Lettera da Napoli al fratello Giamberardino del 2
agosto 1794, in BPT, Misc.4, n. 934.
(137) Si tratta della richiesta del titolo di
conte di Giulianova e della concessione di «alcuni
beni di poco profitto» per l'erario, come ricompensa
dei «dispendj sofferti» e dei «servigj» resi
gratuitamente alla Corona. Cfr. il Carteggio per
ottenere il titolo di Conte di Giulia e benefondi
annessi, del 1794, in CLEMENTE, Rinascenza
teramana e riformismo napoletano, cit., pp.
492-502.
(138) Cfr. C. PETRACCONE, Rivoluzione e
proprietà: i repubblicani abruzzesi e molisani nel
1799,
in «Archivio storico per le province napoletane»,
terza serie, a. XXI (1982), p. 208 sgg.
(139) Nel 1794 una nuova denuncia
anonima è all'origine del rifiuto del Supremo
Consiglio di accogliere la richiesta del Teramano
del titolo di conte. «Molto più mi duole - scrive
amareggiato ad Acton il 19 luglio 1794 - di essere
stato e prima e nuovamente in questa occasione
attaccato nel Supremo Consiglio dal dente
dell'invidia, da un calunnioso ed anonimo delatore.
[…] Se l'aver passata la mia vita in travagliare per
la gloria del Sovrano e per la pubblica beneficenza
non basta per assicurarmi da una ostinata ed
efficace persecuzione, non mi rimarrebbe altro che
condannar me stesso alla volontaria pena
dell'ostracismo» (Carteggio per ottenere il
titolo di Conte di Giulia e benefondi annessi,
cit., p. 500). Egli non otterrà il titolo neppure in
seguito, ma con decreto del 25 marzo 1815 Gioacchino
Murat gli conferirà quello di barone (AST, b. 19,
fasc. 231).
(140) Lettera a Giamberardino da Napoli del
13 settembre 1794, in BPT, Ep., n. 283.
(141) Lettera a Fortis del 23 settembre '94,
cit.
(142) Lettera a Fortis da Napoli del 14
ottobre 1794, in CLEMENTE, Rinascenza teramana e
riformismo napoletano, cit., p. 464.
(143) Lettera a Fortis
da Teramo del 4 novembre 1794, in RICCOBONO,
Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico,
cit., p. 417.
(144) «Nello stato attuale delle cose, -
scrive Delfico a Fortis - in cui si fanno nascere
sospetti senz'alcun principio governativo, crederei
che ora dovessi sospendere il pensiero di quel
viaggio che mi accennavi. La nazione è piena di
malvagi gratuiti e spontanei, e naturali e costanti
nemici del merito e della virtù. […] E' contro cuore
che io ti fo queste riflessioni, ma par che avrebbe
torto chi lasciasse un mare tranquillo per andare
fra le tempeste» (lettera del 9 marzo 1795, da
Teramo, in BGSM, n. 150). Ma subito si pentirà di
«quegl'insoliti pensieri» dettati da «un momento di
malumore» e pregherà l'amico di raggiungerlo senza
alcun indugio. Cfr. la lettera del 28 aprile 1795,
in BGSM, n. 177.
(145) Lettera da Teramo del 28 ottobre 1794,
in RICCOBONO, Contributo per l'epistolario di
Melchiorre Delfico, cit., p. 416.
(146) Delfico aveva temuto che potesse essere
«repubblichizzato il Piemonte» sin dall'agosto del
1794 quando aveva sentito delle «nuove veramente
desolanti», che i Francesi «avevano già introdotto
[in Italia] un esercito di sopra a centomila uomini,
e che stavano bombardando Cuneo, ed avevano di più
presi quattro posti avanzati innanzi a Turino, dove
il Re e tutta la famiglia reale erano intanto
obbligati a rimanere per non mettere in bisbiglio il
popolo; […] che il Re di Sardegna aveva chiesto pace
per sé e per l'Italia, e che aveva avute risposte
negative. Vedete, dunque, che se queste notizie sono
vere, l'agitazione non dev'essere piccola» (lettera
da Napoli al fratello Giamberardino del 2 agosto
1794, cit.). In effetti, il piano d'invasione
francese del Piemonte, attraverso Cuneo, era pronto
dalla fine di giugno e avrebbe dovuto attuarsi ai
primi di agosto, ma già in luglio l'armata d'Italia
ne sollecitò l'esecuzione, facendo scendere la
divisione Macquard sin nelle vicinanze di Cuneo.
(147) Lettera a Fortis del 14 ottobre 1794,
cit., p. 464.
(148) Cfr. CROCE, La rivoluzione
napoletana del 1799, cit., p. 24.
(149) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del
9 marzo 1795, cit.
(150) Massima accortezza Delfico aveva usato
nella stesura della lettera al duca di Cantalupo
sulla vendita dei feudi devoluti del 1° aprile 1795,
cit., tanto che nessun timore egli mostrò nel
vederla pubblicata, senza la sua autorizzazione, sul
«Giornale letterario di Napoli», (15 aprile '95, pp.
77-104), per iniziativa dello stesso Cantalupo (cfr.
la lettera a Fortis del 28 aprile 1795, cit.). La
lettera venne accolta con favore sulle «Effemeridi
enciclopediche», nel numero di aprile del 1795, pp.
91-93.
(151) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del
5 maggio 1795, in BGSM., n. 166.
(152) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del
28 aprile 1795, cit.
(153) Sulle tappe di
questo viaggio e sui legami di amicizia che ebbe
modo di stringere e di rinsaldare, cfr. DE
FILIPPIS-DELFICO, Della vita e delle opere di
Melchiorre Delfico, cit., pp. 38-46.
(154) «Nello stato attuale delle cose -
scriveva l'abate veneto agli inizi del '96 - in
Toscana solamente e fra noi rimane la libertà di
pensare e parlare d'un povero Italiano» (lettera
a Delfico del 23 marzo, da Vicenza, in SMITRAN,
Dalla corrispondenza di Alberto Fortis a
Melchiorre Delfico, cit., p. 130).
(155) Luigi Angiolini [1750-1821] di
Seravezza (Lucca), esperto di problemi di finanza,
industria e commercio, tra il 1787 e il 1789 compì
un viaggio in Europa che raccontò nelle Lettere
sopra l'Inghilterra, la Scozia e l'Olanda del
1790, nelle quali manifestava ammirazione per il
sistema politico e sociale inglese. Ottenuto nello
stesso anno un impiego negli affari esteri di
Toscana, nel 1794 fu nominato da Ferdinando III
incaricato di affari a Roma e nel febbraio 1798
inviato quale ministro del Granducato a Parigi.
Nonostante le offerte di Napoleone, rimase legato al
suo Sovrano quando questi fu cacciato dalla Toscana
e continuò a rappresentarlo in forma ufficiosa
presso il governo francese, rientrando
definitivamente in Italia nel 1809.
(156)
La lettera, datata 1° dicembre 1795, fa parte
del blocco della corrispondenza inviata al Cav.
Luigi Angiolini e conservata presso la BMRM, Busta
I, plico II, n. 32885.
(157) Si tratta del nobile fiorentino Neri
Corsini [1771-1845], destinato sin da giovane alla
carriera diplomatica. Divenuto nel 1793 segretario
onorario del Consiglio di Stato del Granducato di
Toscana, fu successivamente incaricato da Ferdinando
III di ristabilire relazioni amichevoli con la
Francia, deterioratesi in seguito all'alleanza della
Toscana con l'Inghilterra. I negoziati furono
conclusi dal conte senese Francesco Saverio Carletti
[1740-1803] che fu poi improvvisamente espulso dalla
Francia [29 dicembre 1795] e sostituito dal Granduca
co Corsini il 5 gennaio del '96. Rimasto a Parigi
fino alla primavera del '98, questi si prodigò
invano per impedire l'intervento delle armate
repubblicane in Toscana, che fu occupata nel marzo
1799. Rifiutatosi di collaborare con i Francesi,
riparò in Sicilia, ma dopo l'annessione del
Granducato alla Francia fece parte nel 1809 del
Consiglio di Stato a Parigi per poi, caduto
Napoleone, ritornare a Firenze come direttore della
Segreteria degli Interni e quindi partecipare quale
ministro plenipotenziario al Congresso di Vienna.
Così Delfico scriveva ad Angiolini dell'improvvisa
missione di Corsini in Francia: «Avete già saputo le
nuove del brusco congedo dato a Carletti dal
Direttorio esecutivo e della destinazione e partenza
del nostro Sig. D. Neri. Se non vi è più di quel che
communemente si dice, pare che il Direttorio sia
stato esecutivo al quanto da accostarsi al
Dispotico. Non ho potuto riveder l'amico prima della
partenza e non posso dirvi quanto sono stato
contento di lui nelle poche volte che ci siamo
veduti» (lettera da Firenze del 26 dicembre 1795, in
BMRM, cit.). Sulla stima che il Nostro nutriva per
Corsini cfr. la lettera a Fortis del 20 dicembre
[1796], cit.
(158) Cfr. la lettera di Delfico ad Angiolini
da Firenze dell'8 dicembre 1795, in BMRM, cit.
(159) Cfr. la lettera di Delfico ad Angiolini
del 26 dicembre 1795, cit.
(161) Lettera da Livorno del lunedì di Pasqua
del 1796, in AST, b. 24, fasc. 453c, n. 17.
(162) Ibid. Come è noto i Francesi
occuparono Livorno il 27 giugno 1796 col pretesto di
cacciare gli emigrati francesi qui rifugiati, ma in
realtà per danneggiare il commercio britannico nel
Tirreno. A Livorno le armate repubblicane restarono
fino al maggio del '97.
(163) Il 28 aprile 1796 l'armistizio di
Cherasco segnò la resa dei Piemontesi ai Francesi, i
quali si diressero nei giorni successivi in
Lombardia, giungendo a Piacenza e quindi, dopo aver
battuto a Lodi gli Austriaci, a Milano dove
Napoleone Bonaparte fece il suo ingresso trionfale
il 15 maggio.
(164) Lettera del 16 maggio 1796, in BMRM,
cit.
(165) Cfr. la lettera di Acton a Delfico del
4 giugno 1796, in BPT, Misc. 6, n. 1060, in risposta
alla missiva del Nostro del 27 maggio '96.
(166) Lettera di Delfico ad Angiolini, da
Ascoli per Teramo, del 5 giugno 1796, in BMRM, cit.
Le stesse considerazioni si trovano nella lettera a
Fortis, sempre dello stesso giorno, in CLEMENTE,
Rinascenza teramana e riformismo napoletano,
cit., p. 472.
(167) «Chi sa quanti belli quadri e statue
costerà a Roma la pace!» si chiede con ironia
Delfico alla vigilia dell'occupazione napoleonica
delle legazioni pontificie (cfr. la lettera ad
Angiolini del 5 giugno '96, cit.).
(168) Lettera di Delfico ad Angiolini del 28
giugno 1796 da Teramo, in BMRM, cit.
(169) Lettera di Delfico a Fortis del 26
luglio 1796, in BGSM, n. 169. Come è noto, alla fine
di luglio 1796 Napoleone Bonaparte, in previsione
dell'offensiva austriaca del Trentino, concentrò le
sue divisioni lungo una linea che dalle valli
bresciane andava sino al basso Adige. Iniziava così
la seconda fase della campagna d'Italia che si
protrasse fino al febbraio successivo e che registrò
importanti vittorie del generale francese a
Castiglione (30 luglio - 5 agosto) a Bassano (2-8
settembre) ad Arcole (14-17 novembre) e a Rivoli
(13-16 gennaio 1797), cui seguì infine la resa di
Mantova con la quale i Francesi si assicurarono il
dominio dell'Italia settentrionale.
(170) Marzio Mastrilli duca di Gallo
[1753-1833], diplomatico e uomo di Stato napoletano,
fu ministro a Torino [1782] e a Vienna [1786]. Nel
1796 rappresentò Ferdinando IV nelle trattative di
pace con la Francia e per conto degli Austriaci
stipulò con Napoleone Bonaparte i preliminari di
Leoben [18 aprile 1797] e sottoscrisse la pace di
Campoformio [17 ottobre 1797]. Caduti i Borboni,
collaborò con i Francesi, divenendo ministro degli
Esteri prima con Giuseppe Bonaparte [giugno 1806]
poi, dal 1808, con Gioacchino Murat, che lo fece
duca.
(171) Lettera di Delfico a Fortis del 2
agosto 1796, in BGSM, n. 76, parzialmente pubblicata
da CLEMENTE, Rinascenza teramana e riformismo
napoletano, cit., p 472.
(172) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del
20 dicembre [1796], cit.
(173) Si tratta del celebre Esquisse d'un
tableau historique des progrès de l'esprit humain
scritto dall'illuminista francese negli ultimi mesi
della sua vita [1794] in cui afferma che «le
perfectionnement de l'espèce humaine doit être
regardé comme susceptible d'un progrès indéfini» (in
Oeuvres de Condorcet, Firmin Didot Frères,
Paris 1847, tome sixième, p. 273). Per l'influsso di
Condorcet sull'illuminista abruzzese si veda CAPONE
BRAGA, La filosofia francese e italiana del
Settecento, cit., vol. II, pp. 186-87 e pp.
195-99. Sul concetto di perfettibilità, cfr. F.
RIGOTTI, Nascita ed evoluzione di un'idea e di
una parola: «perfectibilité» nel settecento francese,
in «Trimestre», a. X (1977), n. 1-2, pp. 23-43.
(174) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del
20 dicembre [1796], cit.
(175) Cfr. la lettera di Fortis a Giuseppe
Toaldo del 20 marzo 1797 da Parigi, in
Illuministi italiani, t. VII, Riformatori
delle antiche repubbliche, dei ducati, dello Stato
pontificio e delle isole, a cura di G.
Giarrizzo, G. Torcellan e F. Venturi, Ricciardi,
Milano-Napoli 1965, pp. 389-90.
(176) Si veda la lettera di Delfico a Fortis
del 9 gennaio 1797 da Teramo, in RICCOBONO,
Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico,
cit., p. 419.
(177) André-François Miot [1762-1841],
uomo di Stato ed erudito francese, iniziò la
carriera politica nel Ministero della Guerra.
Divenuto nel 1793 segretario generale degli Affari
Esteri, nel 1795 fu inviato come ministro
plenipotenziario in Toscana per concludere la pace
con il Granduca e nel '96 partecipò alle trattative
di pace tra la Repubblica francese, il Regno di
Napoli e lo Stato pontificio. Ritornato a Parigi nel
1798 fu nominato segretario generale del Ministero
della Guerra e dopo il 18 brumaio fece parte del
Consiglio di Stato. Seguì Giuseppe Bonaparte a
Napoli nel 1806 come ministro dell'Interno e poi in
Spagna nel 1808. Nominato conte di Melito nel 1814,
si ritirò l'anno successivo a vita privata.
(178) J. RAMBAUD, Naples sous
Joseph Bonaparte 1806-1808, Plon-Nourrit et Cie,
Paris 1911, p. 236.
(179) Giuseppe Toaldo [1719-97],
matematico e astronomo padovano, amico di Fortis,
curò la ristampa delle opere di Galilei. Viaggiò
molto e fu autore di numerose opere, alcune delle
quali tradotte in diverse lingue, e di altrettante
memorie scientifiche pubblicate su riviste straniere
e italiane, in particolare sul «Giornale
astro-meteorologico» di cui si fece promotore nel
1773. Delfico conobbe Toaldo nel 1786 in occasione
di un viaggio che questi fece nel Regno di Napoli.
Tra i due nacque subito un rapporto di amicizia che
si consolidò nell'estate del 1789 durante il
soggiorno del Teramano nel Veneto.
(180) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del
9 gennaio 1797, cit.
(181) Ludovico Vittorio Savioli Fontana
Castelli [1729-1804], poeta e storico bolognese, fu
dal 1772 al 1796 gonfaloniere di giustizia. Tra l'84
e il '95 compose gli Annali bolognesi dall'anno
di Roma 363 al 1274 che gli valsero nel 1790 la
cattedra di «Storia universale profana» presso
l'università bolognese. Nel 1796 fu mandato in
missione diplomatica a Parigi e nel 1800 partecipò
alla consulta della Repubblica Cisalpina.
(182) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del
4 aprile 1797 da Teramo, in BGSM, n. 173.
(183) Si veda la lettera del 9 gennaio 1797,
cit.
(184) Ibid. Gli scriveva, in seguito,
nella citata lettera del 4 aprile '97: «In quanto
alle disposizioni itinerarie ne conservo sempre il
desiderio il più vivo; ma per maggio devo essere a
Napoli per affari di famiglia. Non conto di restarvi
più di un mese o due; ma questo guasta molto i miei
calcoli economici. Ci sentiremo meglio, se sarai in
Italia».
(185) Lettera a Fortis datata
Teramo, 7 marzo 1797, in BGSM, n. 172.
(186) Lettera del 4 aprile, cit. Uguale
stupore aveva espresso nella lettera sempre a Fortis
del 7 marzo '97, cit.
(187) Sono del 1797 le delficine Memoria
per la Decima imposta al Regno; Memoria intorno a'
danni sofferti nella provincia di Teramo dalla
cattiva monetazione dello Stato pontificio, e de'
mezzi opportuni da ripararli ed infine
Osservazioni su la nuova monetazione dello Stato
papale per rapporto al commercio delle provincie
confinanti del Regno, ancora tutte inedite.
(188) Lettera di Delfico ad Angiolini del 12
settembre 1797 da Teramo, in BMRM, cit.
(189) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del
7 marzo 1797, cit.
(190) Cfr. la lettera di Delfico ad Angiolini
del 15 agosto 1797, in BMRM, cit.
(191) Cfr. la lettera di Delfico ad Angiolini
del 12 settembre 1797, cit. e quelle a Fortis del 3
e 5 maggio 1798, in F. BALSIMELLI, Melchiorre
Delfico e la Repubblica di San Marino, Arti
Grafiche Della Balda, San Marino 1935, p. 13 e
soprattutto quella del 20 luglio 1798, in BGSM, n.
178.
(192) L'espressione è usata da Giacinto Tullj
nella Minuta relazione dei fatti sanguinosi
seguiti in Teramo dall'anno 1798 all'anno 1815,
scritta da G. Tullj, con postille e con la
continuazione del Can. N. Palma (in BPT, «Carte
Palma», t. XI, n. CLXXVII), per indicare il
partito capeggiato dal vescovo Pirelli avverso ai
Delfico e ad altri «dotti e probi uomini» di Teramo,
e responsabile delle accuse di giacobinismo che
porteranno la famiglia Delfico agli arresti.
(193) Lettera del 20 luglio 1798, cit.
(194) Il pretesto è fornito da alcune lettere
«rivoluzionarie» sequestrate ad una loro domestica,
da poco licenziata, mentre faceva ritorno ad Ascoli
Piceno. Interrogata, la donna avrebbe affermato di
averle ricevute da Alessio Tullj e da Eugenio
Michitelli, entrambi frequentatori di casa Delfico.
Si veda in proposito la Memoria della
persecuzione subita dalla famiglia Delfico nel 1799,
scritta presumibilmente da Giamberardino «allo scopo
- è precisato in un'annotazione - di ottenere il
dissequestro dei propri beni». Avvenuta la
restaurazione borbonica, egli fu infatti condannato
dai Regi inquisitori nel processo contro «i rei di
Stato» e trasferito nell'agosto del 1800 nei
castelli di Puglia. Ritornato in libertà in seguito
all'indulto generale del 1° maggio 1801 (cfr. AST,
«Reali Dispacci», b. 24, vol. 84, pp. 452-53)
ottenne il dissequestro dei beni l'11 luglio dello
stesso anno (cfr. AST, «Fondo Delfico», b. 27, fasc.
597). Con ogni probabilità quindi la Memoria
è collocabile tra il maggio e il luglio del 1801.
Recentemente essa è stata pubblicata da Vincenzo
Clemente su «Storia e civiltà», a. IV (1988), n. 4,
pp. 368-85 e a. V (1989), n. 1-2, pp. 39-56.
L'episodio che portò all'arresto dei Delfico è a p.
375 sgg.
(195) Sulla venuta dei Francesi a Teramo
fondamentale è l'opera di L. COPPA-ZUCCARI,
L'invasione francese negli Abruzzi (1798-1810),
voll. I e II, Vecchioni, L'Aquila 1928,
rispettivamente pp. 729-35; 740-42 e pp. 624-36;
680-89; 709-18; vol. III, Tip. Consorzio Nazionale,
Roma 1939, pp. 52-74. Cfr., inoltre, V. MOSCARDI,
L'invasione francese nell'Abruzzo teramano nel
1798-99,
in «Bollettino della Società di storia patria»,
L'Aquila, a. XII (1900), pp. 125-49.
(196) Nominato dal generale Duhesme
presidente dell'Amministrazione Centrale del Basso
Abruzzo, è il 12 gennaio 1799 chiamato dal generale
Coutard a presiedere il Consiglio Supremo che ha
sede a Pescara. Il 23 gennaio, il comandante in capo Championnet, occupata Napoli, lo nomina membro del
Governo Provvisorio della Repubblica partenopea
assegnandolo al Comitato delle Finanze (ma nella
capitale non si recherà mai) e il 14 aprile è scelto
a far parte, assieme a Giuseppe Abbamonte, Giuseppe
Albanese, Ignazio Ciaja ed Ercole D'Agnese, della
Commissione Esecutiva istituita dal commissario del
governo francese Abrial. Cfr. E. DE FONSECA PIMENTEL,
Il Monitore Napoletano 1799,
a cura di M. Battaglini, Guida, Napoli 1974, p. XXXI
sgg. Sull'esperienza pescarese di Delfico, cfr. F.
MASCIANGIOLI, Melchiorre Delfico e
Pescara. Per una storia del rapporto tra
intellettuali ed esperienze giacobine in Abruzzo,
in «Trimestre», a. XX (1987), n. 1-2, pp. 41-69; M.
BATTAGLINI, Abruzzo 1798-1799. Una Repubblica
giacobina, in «Rassegna storica del
Risorgimento», a. LXXV (1988), fasc. I, pp. 3-18,
ora, con alcune integrazioni, in La Repubblica
napoletana, cit., pp. 171-98.
(197) Cfr. DI NARDO, Storia e scienza in
Melchiorre Delfico, cit., p. 84; PETRACCONE,
Rivoluzione e proprietà: i repubblicani abruzzesi e
molisani nel 1799, cit., p. 203; MASCIANGIOLI,
Melchiorre Delfico e Pescara, cit., pp.
54-55.
(198) A. SAITTA, Giacobini italiani,
in «Cultura moderna», n. 26, giugno 1956, p. 6. Cfr.
inoltre D. CANTIMORI [a cura di], Giacobini
italiani, vol. I, Laterza, Bari 1956, p. 412.
Sull'argomento cfr. da ultimo Il giacobinismo
italiano nella storiografia, saggio introduttivo
di Francesco Perfetti al volume di R. DE FELICE,
Il triennio giacobino in Italia (1796-1799),
Bonacci, Roma 1990, pp. 7-56. Spunti critici anche
in Il mondo contemporaneo, vol. XI: Il
modello politico giacobino e le rivoluzioni, a
cura di N. Tranfaglia e M.L. Salvadori, La Nuova
Italia, Firenze 1984, in particolare i saggi di
Stefano Nutini, Claudia Petraccone e Salvo
Mastellone.
(199) Cfr. G. GALASSO, I giacobini
meridionali, in «Rivista storica italiana», a
XCVI (1984), fasc. I, p. 78 sgg., ora in La
filosofia in soccorso de' governi, cit., p. 519
sgg.
(200) Per il testo della legge, il cui titolo
per esteso è Piano di una amministrazione
provvisoria di giustizia pei tribunali dei
dipartimenti e giudici dei cantoni del 24
piovoso anno VII [12 febbraio 1799], si veda R.
PERSIANI, Alcuni ricordi politici nella massima
parte abruzzesi al cadere del XVIII e principio del
XIX secolo con documenti e note, in «Rivista
abruzzese di scienze, lettere ed arti», a. XVII
(1902), fasc. VII-VIII, pp. 435-39. Sulle
innovazioni che il Piano di giustizia
introduce nel sistema giuridico, cfr. MASCIANGIOLI,
Melchiorre Delfico e Pescara, cit., pp.
49-52; BATTAGLINI, La Repubblica napoletana,
cit., pp. 192-95.
(202) A questa conclusione giunge anche il
Diaz a proposito dei giacobini italiani, le cui
rivendicazioni spesso non si discosterebbero da
quelle dei riformisti illuminati. Cfr. DIAZ, Per
una storia illuministica, cit., p. 477 sgg.
(203) DELFICO, Discorso sullo stabilimento
della milizia provinciale, cit., p. 169.
(204) F. VENTURI, La circolazione delle
idee, in «Rassegna storica del Risorgimento», a.
XLI (1954), fasc. II-III, p. 207.
(205) Inattendibile è la tesi sostenuta nella
Memoria della persecuzione subita dalla famiglia
Delfico nel 1799 di una scelta obbligata del
Teramano, che sarebbe venuto a trovarsi «nella dura
necessità di ubbidire per non mettere in pericolo e
vita, e sostanze, ed anche l'intera Città di lui
Padria» (ivi, p. 45), non solo perché la
Memoria, contrariamente a quanto si è creduto,
non è autografa di Melchiorre Delfico, tanto da non
essere menzionata da De Filippis-Delfico fra le
opere del Nostro, ma soprattutto perché lo scritto,
come è stato ricordato, ha una funzione puramente
strumentale. Sull'impegno profuso da Delfico durante
l'esperienza repubblicana cfr. la lettera che
invia a Fortis da Teramo il 30 germinale a. I della
Repubblica napoletana [19 aprile 1799], in Opere
complete, cit., vol. IV, pp. 112-13.
(206) Cfr. A. RICCIARDI, Memoria sugli
avvenimenti di Napoli nell'anno 1799, scritta
presumibilmente agli inizi del 1800 e pubblicata da
Benedetto Maresca in «Archivio storico per le
province napoletane», a. XIII (1888), p. 60 sgg.
(207) Cfr. la lettera di Delfico al
Governo Provvisorio, da Pescara, datata 7 germile an.
7 Rep. [27 marzo 1799], in Il Monitore Napoletano
1799, cit., pp. 695-96. Sulle insorgenze
antifrancesi nelle province, cfr. T. PEDÌO, La
Repubblica napoletana del 1799, Levante, Bari
1986, pp. 43-62. Per una diversa valutazione
dell'atteggiamento di Delfico durante l'invasione
francese, cfr. L. POLACCHI, Da Melchiorre Delfico
a Clemente De Caesaris. Storia politica e letteraria
del Risorgimento in Abruzzo sulla base della
fortezza di Pescara 1798-1860, Tip. Stea, Urbino
1960, p. 44; G. INCARNATO, Le «illusioni del
progresso» nella società Napoletana di fine
Settecento, vol. II, Tra rigori
modernizzatori e aspettative di assistenza,
Loffredo, Napoli 1993, pp. 196-97.
(208) Cfr. fra tanti G. GALASSO, La legge
feudale napoletana del 1799,
in «Rivista storica italiana», a. LXXVI
(1964), fasc. II, pp. 507-29, ora in
La filosofia in soccorso de' governi, cit., pp.
633-60. Sulla fiducia che il triennio giacobino
potesse generare un momento di grande partecipazione
politica, cfr. E. PII, La ricerca di un modello
politico durante il triennio rivoluzionario
(1796-99), in Modelli nella storia del pensiero
politico, vol. II, cit., p. 279 sgg.
(209) L'ipotesi di una partecipazione
al concorso origina dalla biografia di De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di
Melchiorre Delfico, cit., p. 122, il quale
riporta tra le opere delficine «non-terminate» uno
scritto dal titolo Sul quesito: Quale sia il
miglior de' governi per l'Italia?, Opuscolo pp.
26. In un articolo del 1931 dal titolo Il ceto
dei Patrioti e l'idea italiana dal 14 maggio 1796 al
12 giugno del 1797,
in seguito raccolto nel volume L'idea
nazionale italiana dal secolo XVIII all'unificazione,
Tipografica Modenese, Modena 1941, p. 61, Renato
Soriga segnala l'esistenza di una dissertazione
delficina, redatta in occasione del celebre concorso
e rimasta sconosciuta. L'indicazione di Soriga ha in
seguito attirato l'attenzione di Armando Saitta che
dopo accurate ricerche, pur lasciando aperto il
campo a diverse ipotesi, ha manifestato qualche
dubbio sulla effettiva partecipazione del Teramano
al concorso del 1796 (cfr. Alle origini del
Risorgimento: i testi di un «celebre» concorso
(1796), vol. I, Istituto storico italiano per
l'età moderna e contemporanea, Roma 1964, pp.
XXIII-XXVI). Il dubbio sulla partecipazione al
concorso mi sembra possa essere sciolto in senso
negativo. Non solo perché, come ha notato Saitta, il
titolo della dissertazione non è di Delfico, ma del
nipote De Filippis, che aveva trovato l'opuscolo
privo di intestazione; ma anche perché si tratta di
uno scritto non terminato, di cui per altro
non vi è finora alcuna traccia nell'opera delficina.
Né va esclusa infine l'ipotesi che l'Autore avrebbe
potuto iniziare a redigerlo in diverse altre
circostanze storiche: durante, ad esempio, la
permanenza a San Marino, dove vede «adombrato un
tipo dei veramente umani governi» (Memorie
storiche della Repubblica di S. Marino, cit., p.
250); o nel corso del decennio francese [1806-1815]
quando tornerà a Napoli al fianco di Giuseppe
Bonaparte prima e di Gioacchino Murat dopo, e gli
sembrerà che la capitale finalmente «incominci a
risorgere» (lettera a Münter del 16 febbraio 1810,
in DI NARDO, Storia e scienza in Melchiorre
Delfico, cit., p. 149); o in occasione dei moti
del 1820 quando l'8 luglio re Ferdinando I gli
affiderà l'incarico di tradurre la Costituzione
spagnola di Cadice del 1812.
(210) Cfr. GHISALBERTI, Le
costituzioni «giacobine», cit., pp.
209-15.
(211) Rimasto finora inedito, il
testo, conservato presso l'AST («Fondo Delfico»,
b.
15, fasc. 171, nn. 92 e 93) recita:
Tavola dei Dritti dell'uomo e del Cittadino
Gli uomini sono eguali ne' dritti.
Questi dritti inalienabili sono: la
libertà,
la sicurezza, la
proprietà, e la resistenza all' oppressione.
La libertà è il diritto di dire, di
fare, di scrivere
ciocché si vuole senza
nuocere altrui o allo Stato, o a se stesso.
La sicurezza è il dritto di esser
protetto
dalla Forza
pubblica contro de' malfattori convinti in giudizio.
La proprietà consiste a poter
disporre delle
sue facoltà, quando non
si è mentecatto o minore.
La resistenza all'oppressione è il
diritto di armarsi
contro la violenza
manifesta e la coazione illegale o tirannica.
La Nazione sola è Sovrana: ogni
pubblico potere
è delegato da essa, e
per essa dev' essere impiegato.
Ogni depositario d'un potere pubblico
è risponsabile verso la Nazione,
ma dev'esser solo
giudicato dal Tribunale a tal fine stabilito.
La Nazione sola o i suoi
rappresentanti liberamente eletti
possono far le leggi e
stabilire le imposizioni.
La legge è l'espressione unica della
volontà generale, e la regola suprema
di tutti i poteri
particolari. Non si può né eliggere né essere
eletto;
non si può né giudicare,
né esser giudicato;
non si dee ubbidire o
dissubbidire che in virtù della legge.
Tolti questi dritti un popolo è schiavo.
Tavola dei Doveri dell'uomo e del Cittadino
Gli uomini sono legati da reciproci
doveri.
Questi doveri inviolabili sono: la
subordinazione, la benevolenza,
la giustizia, e
l'ubbidienza alle leggi.
La Subordinazione è il rispetto e la
docilità dovuta dai figli ai genitori,
dai discepoli ai
maestri, dagl'inferiori ai loro capi.
La Benevolenza consiste nei riguardi,
nelle attenzioni, nei soccorsi,
che ci dobbiamo
reciprocamente in tutte le situazioni penose della
vita.
La Giustizia ci obbliga ad osservar
le promesse, a rispettar le proprietà,
ad esser riconoscenti
dei servigi ricevuti, e pronti a renderli
nelle occasioni.
L'ubbidienza alle leggi include
l'osservanza di regolamenti, la fedeltà ai
Magistrati, l'unione de'
Cittadini per rispingere ogni rivolta.
L'insurrezione non è permessa che nei
casi estremi, e dopo
le rimostranze legali.
Ogni perturbatore dell'ordine
pubblico merita non solo di essere arrestato
e punito, ma anche di
essere esecrato.
La Nazione sola o i suoi
rappresentanti liberamente eletti,
possono cangiare
l'ordine stabilito o il governo.
La legge fatta dal corpo
legislativo e sanzionata dal Monarca è una specie
di religione civile, che
deve unire tutti i cuori e tutte le braccia:
ed il nome solo della
legge deve stare in luogo di fucili e bajonette.
Tolti questi doveri un popolo è selvaggio.
(212) Fu, quello successivo alla
partenza, un periodo particolarmente tormentato per
il Nostro se ancora nei mesi di giugno e di luglio Fortis si mostrava preoccupato per la sorte
dell'amico non avendo ricevuto più alcuna lettera
dopo quella del 19 aprile. Cfr. le lettere di Fortis
a Delfico del 3 giugno, del 15 e del 18 luglio 1799,
in BGSM. Sulla permanenza del Teramano nella
Repubblica sammarinese, cfr. BALSIMELLI,
Melchiorre Delfico e la Repubblica di San Marino,
cit.; GAROSCI, San Marino, cit., pp. 165-226.
(213) Cfr. F. LOMONACO, Analisi della
sensibilità, delle sue leggi e delle sue diverse
modificazioni considerate relativamente alla morale
e alla politica [1801], in Opere, Ruggia,
Lugano 1834, vol. V, p. 103 sgg. Successivamente
l'Autore pubblicherà i Discorsi letterarj e
filosofici, Silvestri, Milano 1809 in cui
difenderà la monarchia come la migliore forma di
governo, immaginando di rivolgersi ad alcuni
protagonisti della Repubblica napoletana, tra i
quali Galdi, Russo, Cuoco e «l'incomparabile»
Delfico. Quest'ultimo verrà ricordato nel cap. III,
Dello spirito d'imitazione (pp. 81-109), in
cui Lomonaco si scaglierà contro le «tragicomiche
scene rappresentate da giacobini» italiani per aver
voluto seguire pedissequamente i Francesi nonostante
questi avessero vissuto realtà ed esperienze
completamente diverse dalle loro. Robespierre,
scrive, «elevò insensatamente il grido:
democrazia universale; e mezza Europa più
insensatamente ripetè: democrazia universale.
In mezzo all'eclissi dell'umana ragione chi ponderò
lo stato fisico, economico, morale e politico del
suo paese? […]. Tutti riputandosi solenni politici,
leggevano, rileggevano e tornavano a leggere la
stravaganza di Rousseau, l'homme est né libre.
Nessuno studiava Aristotele il quale sentenziò, che
alcuni sono fatti per comandare, altri per ubbidire
[…]. Nessuno aveva digerita la massima di
Machiavelli, che quando uno stato è corrotto,
bisogna che una mano regia tenga a freno gli
scapestrati cittadini […]. L'anarchia delle idee
produsse l'anarchia delle passioni, l'anarchia delle
passioni quella dei costumi, più tremenda
dell'anarchia delle leggi» (pp. 96-98).
(214) Cfr. G.M. ARRIGHI, Saggio
storico per servire di studio alle rivoluzioni
politiche e civili del Regno di Napoli, t. III,
Stamp. del Corriere, Napoli 1813, pp. 211-21. I
primi due tomi uscirono sempre a Napoli nel 1809.
(215) Cfr. CUOCO, Saggio storico
sulla rivoluzione napoletana del 1799, cit., p.
96 sgg. I due s'incontreranno a Milano prima del
loro ritorno a Napoli nel 1806, in occasione della
pubblicazione delle Memorie storiche di San
Marino. Per un confronto tra Delfico e Cuoco, cfr.
F. TESSITORE, Da Cuoco a De Sanctis. Studi sulla
filosofia napoletana nel primo Ottocento,
Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1988, pp.
12-24; P. VIOLA, Delfico, Cuoco e la libertà
antica e moderna, in «Annali della Scuola
Normale Superiore di Pisa», serie III, vol. XVIII
(1988), 2, pp. 589-97.
(216) Si veda l'ormai nota
Prefazione alle Memorie storiche della
Repubblica di S. Marino, cit., pp. 249-50.
(217) DELFICO, Memorie storiche della
Repubblica di S. Marino, cit., p. 472.
(218) Foglio di appunti inedito (BPT, Misc.
2, n. 625).
(219) DELFICO, Memorie storiche della
Repubblica di S. Marino, cit., p. 250.
(220) Ivi, p. 472.
(223) Foglio di appunti di Delfico pubblicato
da SAITTA, Alle origini del Risorgimento,
cit., p. XXV, la cui stesura più che al 1796 risale
probabilmente al periodo sammarinese per una sua
certa affinità con alcuni concetti espressi nelle
Memorie storiche.
(224) DELFICO, Memoria su la
perfettibilità organica, cit., p. 511.
(225) Cfr. VICO, Principj di Scienza nuova,
cit., lib. IV, p. 772.
(226) DELFICO, Memorie storiche
della Repubblica di S. Marino, cit., p. 250.
(227) Cfr. le lettere che Delfico scrive
dalla fine del 1800 alla primavera del 1804 a Fortis
e al fratello Giamberardino, in BALSIMELLI,
Epistolario di Melchiorre Delfico, cit., pp.
15-52.
(228) Lettera di Delfico a Giuseppe Neroni
del 30 giugno 1804 da Milano, conservata presso la
BCM, «Lettere a Giuseppe Neroni Cancelli», Ms. 948,
n. 395. Già qualche anno prima Delfico lamentandosi
del «disordine Caotico o infernale» aveva scritto a
Fortis: «Lo stato delle cose è tale, che le persone
ragionevoli rinunciano a tutti i desiderj Politici,
ed accetterebbero anche un Governo Mussulmanico, che
riconducesse la tranquillità» (lettera da San Marino
dell'11 ottobre 1801, in BALSIMELLI, Epistolario
di Melchiorre Delfico, cit., p. 19).
(229) DELFICO, Memorie storiche della
Repubblica di S. Marino, cit., pp. 428 e 429.
(230) Lettera di Delfico a Neroni del 30
giugno 1804, cit.
(231) Cfr. MARINO, Scritti inediti di
Melchiorre Delfico, cit., pp. 111-12.
(236) Lettera di Delfico a Neroni, s.d. [ma
Teramo 1835], in AST, b. 24, fasc. 464, n. 1.
Pubblicata in Opere complete, cit., vol. IV,
pp. 126-28, e assegnata inspiegabilmente dai
curatori al 24 aprile 1835, la lettera è la prima di
tre in cui Delfico discorre degli «Stabilimenti
di Beneficenza». In un biglietto di
accompagnamento, datato Teramo 4 [senza
l'indicazione del mese] del 1835, il Nostro chiedeva
a Neroni di trascrivere le lettere e farne avere una
copia all'amico maceratese conte Leopoldo Armaroli.
Cfr. BCM, cit., n. 32.
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