De Filippis

 

De Filippis-Delfico

 

(Teramo, 1820)

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Stemma famiglia De Filippis-Delfico, Teramo, 1820

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Delfico

(Napoli, sec. XVIII)

(Teramo, sec. XV)

Stemma famiglia De Filippis, Napoli, sec.XVIII

Stemma famiglia Delfico, Teramo, sec.XV

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L'Ottocento dei Delfico: un destino civile

di Luigi Ponziani

Articolo pubblicato in Aa. VV.,  I luoghi della storia a Teramo - Il Palazzo Dèlfico, S.Atto di Teramo, Edigrafital, 2004.

Quando il 12 novembre 1842 si spense nella sua villa di Castagneto di Teramo Orazio Delfico, non solo veniva meno una personalità di primo grado della città e provincia aprutina, ma rischiava di estinguersi uno dei casati che più di ogni altro aveva fino ad allora rappresentato con Gianfilippo, Gianberardino e Melchiorre (quest'ultimo scomparso solo pochi anni prima, nel 1835) la cultura civile municipale (da essi stessi anzi creata) di Teramo. Essa si era arricchita nel tempo attraverso il multiforme rapporto con lo stato e la monarchia borbonica (compresa la parentesi murattiana); rapporto progressivamente affievolitosi e fattosi conflittuale secondo un percorso culturale e politico di buona parte della classe dirigente meridionale sortito dalla traumatica esperienza della Repubblica Napoletana così duramente repressa in un tentativo di cancellazione finanche materiale. Sotto questo profilo Orazio rappresentava quasi emblematicamente un tale itinerario umano e civile; egli che grazie ai buoni uffizi del grande zio Melchiorre aveva potuto, sotto la guida dell' Abate Quartapelle, educarsi e studiare a Pavia avendo come maestri Mascheroni, Spallanzani, Volta, per citare i più ragguardevoli, e mettere in pratica quegli insegnamenti una volta restituitosi a Teramo. Furono gli anni dedicati agli studi geografici, fisici, mineralogici culminati nel 1796 con le Osservazioni su di una piccola parte degli Appennini nelle quali dava conto della storica ascensione al Corno Grande del Gran Sasso d'Italia, della prima misurazione scientificamente provata della montagna appenninica finalmente "disvelata" nei suoi tratti naturali e fisici. Vissuto ed educato all'interno di un ambiente famigliare e culturale che sullo scorcio del Settecento aveva dato vita ad un corposo movimento che era insieme civile e politico e faceva leva su una sentita esigenza di rinnovamento sociale ed economico, il giovane Orazio era stato uno dei più autorevoli e accesi municipalisti che localmente organizzarono e nobilitarono l'effimera esperienza repubblicana del 1799: comandante dei "Granatieri Civici" della città, fu impegnato in prima persona nella repressione degli "insorgenti". Il suo dichiarato repubblicanesimo lo condusse a partecipare alle più vivaci e oltranziste manifestazioni pubbliche, dal1'innalzamento dell'Albero della Libertà, al "banchetto patriottico", alla rappresentazione di "commedie repubblicane". Cosicché, alla caduta della Repubblica, dovette riparare con la moglie Diomira Mucciarelli, di nobile famiglia ascolana spostata nel 1797 e lo zio Melchiorre, a San Marino. E' sulla base di tali premesse che l'erede dei Delfico potrà aderire pienamente (come del resto lo zio Melchiorre) alla vita amministrativa e politica del regno murattiano, ricoprendo nel così detto "decennio francese" importanti cariche militari nella provincia di Teramo, maturando il proprio distacco dalla monarchia borbonica, accentuatosi peraltro dopo la restaurazione del 1815: negli anni compresi tra il 1820-21, quando maturarono e si risolsero ancora negativamente per le sorti della riaffiorante democrazia gli avvenimenti del nonimestre costituzionale, lo ritroviamo "Gran Maestro" di una vendita carbonara accanto ad altri autorevoli personaggi della classe dirigente municipale quali Andrea Costantini, Giuseppantonio e Giovannantonio Massei, Lelio Cesi, Francesco De Rossi. Di qui deriva il progressivo isolamento e straniamento di Orazio Delfico che negli anni a seguire, quando a Teramo e nel Regno fu sedata e repressa ogni aspirazione civile e politica che fosse minimamente tacciabile di democrazia e libertà, tese a rinserrarsi entro orizzonti più ravvicinati (ma non meno chiari dei propri orientamenti). Gli ultimi anni egli li trascorse ritornando ai giovanili studi scientifici e botanici in primo luogo, «realizzando nel suo vasto giardino un orto botanico, ricco di scelte ed esotiche piante, le più delicate delle quali - scrive Palma - il cinnamomo, il caffè e la canna da zucchero, erano tenute in vita da apposite stufe», arricchendo così 1'avito  palazzo e la città di un ornamento che ancora per lungo tempo resterà elemento caratterizzante della fisionomia urbana di Teramo. 

Già alla morte di Orazio il futuro della famiglia, che sembrava destinata ad estinguersi per la fine di ogni diretta discendenza, appariva invece ben saldo e rinvigorito grazie ai matrimonio intervenuto nel 1820 tra il giovanissimo Gregorio De Filippis conte di Longano e Marina Delfico unica figlia di Orazio ed erede oltre che del nome, dei beni dell'illustre famiglia. La figura di Gregorio, sebbene ancora poco indagata, è invece destinata ad acquistare particolare importanza "non soltanto perché accettando di aggiungere al proprio cognome quello della famiglia teramana ne «pro1ungò» nel tempo ruolo e destini, ma soprattutto per quanto egli rappresentò sotto il profilo civile e culturale in decenni contrassegnati da conformismo di pensiero e difficoltà di libera espressione politica. Teramano per parte di madre (il padre Troiano aveva sposato Aurora Cicconi figlia del consigliere di stato Andrea, teramano e amico di Melchiorre Delfico) e ora per adozione, Gregorio prese progressivamente in mano le sorti della nuova famiglia restaurandone beni e finanze duramente provate dalle vicende rivoluzionarie degli ultimi decenni e nel contempo recuperando a se stesso e ai suoi eredi un ruolo di guida civile (se non politica) da giocare sia sul piano locale che su quello nazionale. Sebbene conosciuto parzialmente per la sua produzione letteraria (in tal senso Nicola Palma lo segnalava intorno al 1835 tra gli uomini illustri della provincia) che lo fa annoverare tra i frequentatori e seguaci della corrente romantica prevalente in quel tempo, Gregorio va ricordato in particolare per l'impegno amministrativo a favore della vecchia provincia aprutina e per la concezione civile della sua profonda cultura. Ebbe larga apertura mentale frutto di viaggi e frequentazioni con le migliori intelligenze italiane; allacciò e rinvigorì legami con uomini e ambienti che già avevano avuto dimestichezza col vecchio Melchiorre che ne trasse intima soddisfazione. Così l'autorevole prozio ne scriveva al degno nipote: «Non so dire quanto anche io sia contento nel dovervi ancora riguardare come conservatore di quella amicizia che ho goduto in più luoghi d'Italia, dove feci qualche dimora, come in Lombardia ed in Toscana ed in Napoli, dove ora avete riveduti tanti che lietamente mi rammentano nella mia decrepitezza». Sono i viaggi compiuti nel 1827 in Inghilterra, Francia e Svizzera e i soggiorni nelle maggiori città d'Italia e specialmente a Firenze a conferire a Gregorio una larghezza di vedute testimoniata dalla ricchezza del suo epistolario che dà conto della capillare e fitta circolazione e discussione di temi culturali di ampio respiro nell'Abruzzo dei primi decenni dell'Ottocento. Gli interlocutori sono Niccolò Tommaseo, Giovan Battista Niccolini, Giampietro Viesseux (per citarne alcuni), ma anche Giacomo Leopardi col quale (sebbene occasionalmente) ha uno scambio epistolare breve e tuttavia illuminante di una consonanza ideale che finisce per arricchire viepiù la figura e la levatura intellettuale di Gregorio. Tra i componimenti poetici e le prose che Gregorio De Filippis Delfico ha modo di presentare all'illustre recanatese vi è il Discorso sull‘importanza d'una storia generale dell'industria e del commercio degl'Italiani che, pubblicato nel 1836 costituisce prova evidente della dimensione esplicitamente nazionale dei suoi interessi pur in assenza di ogni chiara manifestazione di dissenso rispetto alla dinastia e al concreto operare del1'amministrazione borbonica. Noi non sappiamo quali temi e aspetti del Discorso che Leopardi aveva letto «con vivo piacere e profitto» fossero stati apprezzati, tenendo conto del carattere erudito dell'opuscolo nel quale, con qualche ingenuità, Gregorio rivendicava il ruolo degli italiani nella storia dei progressi delle tecniche produttive e delle scienze economiche. 

E tuttavia non pare azzardato riconoscervi un idem sentire, laddove si richiami quel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani nel quale Leopardi, poco più di un decennio prima, nel 1824, si cimentava in una descrizione oggettiva della società italiana individuandone i limiti identitari, specie delle classi dirigenti, la disgregazione, la povertà civile e culturale, la mancanza di carattere, l'assenza di industria e d'ogni sorta di altra attività «per cui l'uomo miri a uno scopo, e coll'aspettativa, coi disegni, colla speranza dell'avvenire, rilevi il pregio del1'esistenza». Un'esigenza questa che sembra affiorare nell'azione privata e pubblica di Gregorio per il quale l'impegno a migliorare e promuovere il bene delle proprietà di famiglia come pure l'ammegliamento delle condizioni economiche e sociali della provincia non erano fini a se stessi ma volti al progresso generale sorretti come erano da un'alta concezione di ruolo (e, modernamente, di funzione) da svolgere pur nelle ristrette maglie dell'amministrazione borbonica. Di qui l'impegno di Gregorio De Filippis Delfico nella Società Economica, prima come socio onorario (dal 1829), poi ordinario (dal 1841) e quindi come Presidente negli anni 1845-1846 quando si contraddistingue per impegno solerte e profondità di analisi: è di questi anni un suo pregevole discorso Sulla patria agricoltura nel quale compie una analisi puntuale dei dati di fondo ritenuti necessari per lo sviluppo agronomico della provincia con particolare riguardo ai capitali d'investimento agrario. Come pure autorevole ed efficace fu la sua presenza all'interno del Consiglio Provinciale del quale fu più volte Presidente. È del 1841 una sua relazione di ampio respiro (Poche idee di miglioramento per le contrade del 1° Apruzzo Ultra) nella quale sviluppa l'idea della necessità di un intervento di arginazione dei fiumi e di regimentazione delle acque; mentre nel 1843 propone e promuove la istituzione di due Casse di Risparmio, una a Teramo, l'altra a Città S.Angelo, secondo un modello organizzativo che faceva tesoro dell'esperienza compiuta nelle principali città dell'Italia Centro-Settentrionale. Ancora in qualità di Presidente del Consiglio Provinciale Gregorio intervenne nel 1843 nel dibattito in corso sul tracciato da darsi alla costruenda strada di collegamento tra la costa e L'Aquila sostenendo sia la direttrice Giulianova — Teramo — Montorio, sia un secondo tracciato che avrebbe dovuto svilupparsi dalla consolare adriatica attraverso la Vallata del Vomano per meglio collegarsi con Pescara la cui importanza futura veniva sottolineata secondo un indirizzo e una consapevolezza che già erano stati del grande Melchiorre. Ma v'è un altro tratto del profilo di Gregorio che si va tracciando a dover essere sottolineato. Egli infatti ebbe sempre piena consapevolezza di operare all'interno di una tradizione famigliare e civile che aveva avuto in Melchiorre Delfico la sua massima espressione. Di qui la ricerca continua di legami personali e culturali col vasto mondo che in periferia così come a Napoli aveva trovato nell'illustre prozio un punto di riferimento e, nel contempo, l'avvio di cui fu protagonista del primo inquadramento critico della figura di Melchiorre nel lucido tentativo di farne una sorta di archetipo culturale e civile al quale attingere in sede locale per dare maggior forza

all'azione di svecchiamento e ammodernamento che gli intellettuali abruzzesi e meridionali stavano compiendo. Già nel 1836, all'indomani della morte di Melchiorre, Gregorio pubblicò Della vita e delle opere di Melchiorre Dèlfìco, un'opera destinata a fornire un primo ritratto prosopografico cogliendone gli elementi salienti di pensiero e la vasta attività che la lunga vita e gli incarichi svolti gli avevano consentito di avere a partire dagli ultimi anni del riformismo tanucciano durante il regno di Carlo III, attraverso la crisi rivoluzionaria di fine secolo, il "decennio francese", fino al nonimestre costituzionale. All'interno di questo solco si colloca lo sforzo editoriale di Gregorio che negli anni successivi alla scomparsa di Melchiorre pubblicava a sua cura scritti inediti dell'uomo politico e filosofo (La fiera franca in Pescara  apparsa sul «Giornale abruzzese di scienze, lettere ed arti» nel 1838, Della solitudine pubblicato sulla stessa rivista nel 1840 e La Delficina pubblicata a Napoli nel 1841) a riproporre temi e suggerimenti che erano stati al centro della riflessione e dell'attività del vecchio Melchiorre e una prima  silloge del pensiero delficino quasi ad evocarne il ricco humus e prolungarne suggestioni ed efficacia.

Né diverso intento aveva ìl secondo libro dell'opera Della vita e delle opere... nel quale Gregorio avviava una prima schedatura e un primo ordinamento degli scritti di Melchiorre conservati nel vecchio archivio di famiglia, da egli ereditato, secondo un «suo progetto di depositare in luogo di pubblica ragione gli autografi egualmente che le altre carte (...)», proponimento che si sarebbe realizzato a distanza di un secolo circa quando tutto l'archivio della famiglia Delfico andò a costituire i ricchi Fondi tutt'ora conservati presso la Biblioteca Provinciale e l'Archivio di Stato di Teramo. Cosicché l'antiveggenza ancora impregnata di pensiero illuminista del vecchio Melchiorre si congiungeva idealmente e concretamente col moderno sentire civile dei suoi discendenti, a partire da Gregorio, che dotavano Teramo di un patrimonio documentario e bibliografico di grande rilevanza affidandolo a pubbliche istituzioni che ne portano l'impronta.

La prematura morte di Gregorio De Filippis Delfico nel 1847 avviene a ridosso di avvenimenti che segneranno profondamente gli ambienti civili e culturali abruzzesi e meridionali e vedranno protagonisti, sebbene ancor giovani, i figli Trojano, Filippo e Melchiorre; mentre i primi

due compiranno a Teramo il loro apprendistato politico legandosi a uomini e ambienti del liberalismo cittadino, il terzo si affermò negli ambienti culturali di Napoli dove la sua penna di caricaturista ed il suo estro musicale divennero elementi caratterizzanti della vita artistica della città capitale del Regno già negli anni che precedono l'unificazione nazionale. Una tale affermazione di spiriti liberi potè manifestarsi nell'ambito di una famiglia che, come abbiamo già visto, aveva dato ampie prove di patriottismo e di forte sentire civile a cui non fu estranea Marina Delfico che, rimasta vedova, mantenne unita la famiglia in larga parte dispersa in seguito agli avvenimenti del 1848-49 facendo della sua casa il luogo di ritrovo delle maggiori personalità della vita culturale e politica cittadina secondo una consuetudine che risaliva a suo padre. Fu Raffaele De Cesare nel suo La fine di un Regno a darci una vivida descrizione di questo ambiente nel quale le consuetudini di società erano intimamente legate a una comune aspirazione civile e politica che aveva difficoltà ad esprimersi in altra maniera. «In Teramo una nobile donna raccoglieva nel suo palazzo (...) ricco di opere d'arte e di un magnifico giardino pensile, i cittadini notoriamente avversi al regime borbonico; ed era la contessa Marina Delfico, ultima della sua stirpe, vedova di Gregorio De Filippis, conte di Longano, e madre di Trojano e di Filippo, esuli in Grecia e in Francia, e di quel Melchiorre juniore, spirito di fine caricaturista (...). Nelle sontuose sale del Palazzo Dèlfico, dove morì il grande Melchiorre, e dove si accede per una scala addirittura regia, convenivano Vincenzo Irelli, che fu il sindaco della rivoluzione, e poi fra i primi senatori del regno d'Italia; Berardo e Settimio Costantini, Francesco e Berardo Bonolis, (...) Giuseppe Antonio Crocetti, Stefano de Martinis protettore della Milli, Niccola Forti, Giovanni de Benedictis, letterato e poeta, e le famiglie Ginaldi, Pompetti, Valentini, Michitelli. Prima del 1848 avevano frequentato l'ospitale casa dei Delfico il Gammelli, i fratelli Bucciarelli, uno dei quali morì pure nel bagno di Pescara; e Michelangelo Forti, prete liberale di gran cultura e carattere eroico, morto nella galera di Nisida. Ricordo pure Pasquale della Monica, pittore napoletano, andato a Teramo col conte di Longano, e padre dell'insigne artista, che conobbi a Teramo nell'ottobre scorso, quando vi fui ospite dei giovani conti Delfico, figli del defunto senatore e degni discendenti dell'ultimo degli Enciclopedisti (...)». Quando la reazione antiliberale del 1849 costrinse alla fuga e all'esilio i figli, fu Marina Delfico a reggere le sorti della famiglia attorno alla quale difficile si era fatto il clima sociale e politico e, nel contempo a mantenere fitti rapporti epistolari con Trojano e Filippo verso cui manifestò, pur nell'apprensione materna, simpatia e adesione per le scelte compiute e fu prodiga di suggerimenti, consigli e aiuti materiali.

Né tralasciò in simili frangenti di occuparsi degli affari di famiglia: le lettere inviate ai figli durante gli anni dell'esilio ci parlano di «fortificazioni» lungo il fiume Salino nelle proprietà di Montesilvano, di «bonifiche in campagna» condotte a termine, di completamento dello scalone nobile di Palazzo Dèlfico che volle compiuta per quando i figli

sarebbero finalmente tornati. Nel contempo mise in atto ogni azione legale perché al figlio Filippo non fossero sequestrati (così come ordinato dalla Gran Corte Criminale nella sentenza di condanna) i beni dell'eredità paterna, difendendo i diritti della giovane nuora Cleomene Rossi con la quale condivise sofferenze e virile impegno nella salvaguardia e nell'amministrazione di beni e proprietà.

È sulla scorta di una tradizione famigliare assai solida che i fratelli De Filippis Delfico maturano la loro adesione ai principi liberali, la condanna del dispotismo borbonico, l'aspirazione all'unità nazionale. È il già maturo Trojano (era nato nel 1821) a figurare tra i sottoscrittori del Manifesto-invito dello «Spettatore dei destini italiani» (un nome che era insieme un programma ideale e politico) che invitava nella primavera del 1848 a combattere contro gli austriaci; disegno che mise in pratica di lì a poco accorrendo volontario in Lombardia nella prima guerra di indipendenza. È ancora Trojano, col giovane fratello Filippo (era nato nel 1827), insieme a Valerio Forti e Antonio Tripoti ad organizzare la manifestazione di S. Angelo: in occasione della festa patronale che

tradizionalmente si teneva nella piccola chiesa di campagna che ancor oggi dal crinale del Pennino guarda Teramo, i giovani patrioti lì convenuti il 2 ottobre 1848 manifestarono apertamente il loro entusiasmo per la notizia della sollevazione di Vienna, cantando inni patriottici e inneggiando Carta Costituzionale che, sebbene ancora vigente, era stata già messa in mora dall'atteggiamento normalizzatore e sempre più reazionario assunto da Ferdinando lI. Sono questi i fatti che dovevano costare ai fratelli Delfico il processo, l'accusa di aver costituito un improbabile governo provvisorio, di aver provocato manifestazioni sediziose e disordini per i quali addebiti fu richiesta la pena di morte per essi e per altri trenta cittadini tra i quali Antonio Tripodi, Valerio e Michelangelo Forti, Antonio Camillotti, ai quali fu poi inflitta la pena dei ferri variante tra gli otto e i venti anni.

Così Trojano in una lettera al fratello dell'8 marzo 1850 rievocò la sua fuga dalla città: «Nell'entrare a Teramo delle truppe di Landi, io ne uscivo con Giorgio Marozzi, col mio fucile e col mio sacco. Sul Pennino vidi l'entrata degli eroi del Borbone. Poi (...) passai il confine sulle montagne e dopo due giorni e due notti di faticoso cammino giunsi in Ascoli, mi son trattenuto in Ascoli, e in S. Benedetto molto tempo, fintanto che, minacciata Ascoli dai briganti, contro i quali mi ero battuto all'Acquasanta (...), dai Napoletani, ed assalita da tutte le parti e da tutte le nazioni la Repubblica Romana , mi ritirai in Ancona. (...). Capitolata che ebbe Ancona, fummo caricati in folla su due barche che alzarono bandiera inglese (...), finalmente a Corfù fummo ricevuti, mediante garanzia. Dopo quattro mesi partii per la Grecia, dove sono». Inizia così il lungo esilio di Trojano trascorso tra Patrasso e Atene, Torino dove nel 1859 sperò in una amnistia nel Regno di Napoli che gli consentisse di tornare in patria, quindi nuovamente ad Atene; nel corso di questi anni visse assai modestamente dei proventi della caccia e della vendita di suoi quadretti di genere che dipingeva con buona tecnica, senza mai cessare di informarsi e di informare sulla evoluzione delle cose italiane in attesa del ritorno. Anche Filippo, sfuggito all'arresto, seguì nell'esilio il fratello di lì a poco. Imbarcatosi clandestinamente per la Francia , soggiornò, fino ai rientro in patria nel 1860, a Nizza, Marsiglia, Parigi dove anzi la madre lo invitò a prendere contatto con Giuseppe Devincenzi, anch'egli esule, per averne qualche aiuto e consiglio. Così Marina Délfico ne scriveva al figlio: «So che a Parigi ci sta D. Peppino De Vincenzi, nostro paesano, perché abruzzese di Notaresco, anzi nostro lontano parente (...). Egli potrebbe esserti di molta utilità, è giovane savio ed istruito, e potrebbe farti acquistare quegli utili rapporti perché dimora da qualche tempo a Parigi». Ma anch'egli, durante questi anni, visse modestamente commerciando mobili e dell'aiuto pecuniario proveniente saltuariamente, nelle sfavorevoli contingenze, dalla madre. Solo nella tarda primavera del 1860, dopo lo sbarco di Garibaldi in Sicilia, Trojano e Filippo Delfico poterono tornare a Teramo dove legarono il loro nome alle vicende rivoluzionarie che portarono all'unificazione nazionale. Fu Trojano fin da subito ad essere tra i più autorevoli rappresentanti dello schieramento democratico più avanzato per il quale la spedizione garibaldina avrebbe dovuto naturalmente aver conclusione con la liberazione di Roma e Venezia. Nella riunione tenuta il 10 settembre nella sua villa di campagna in località Salino di Montesilvano Trojano, insieme a Clemente De Caesaris e a Ariodante Mambelli adombrò un moto insurrezionale finalizzato alla costituzione di un governo provvisorio nel nome di Vittorio Emanuele sotto la dittatura di Giuseppe Garibaldi. A superare lo stato delle cose intervenne la notizia dell'entrata di Garibaldi a Napoli e la nomina dello stesso Trojano (con De Virgiliis e D Caesaris) a prodittatore della provincia di Teramo. Fu quindi comandante della Guardia Nazionale distinguendosi nell'azione di smantellamento dell'esercito borbonico ancora in armi e nella repressione del nascente ribellismo brigantesco. Fin da subito la sua attività politica fu espressione del democraticismo risorgimentale e in tale veste le reiterate (sebbene prive di successo) candidature politiche nel collegio di Teramo si connotarono di caratteri avanzati finché a partire dal 1865 divenne con Irelli e il giovane Settimio Costantini rappresentante autorevole della Sinistra Storica. Consigliere comunale e provinciale di Teramo, senatore del Regno a partire dal 1880, Trojano Delfico ebbe altresì ruolo di primo piano in associazioni e sodalizi che davano conto del progresso civile e morale della nuova nazione: fu Presidente della Società dei reduci delle Patrie Battaglie, socio della Deputazione abruzzese di storia patria e della Accademia Pitagorica in Napoli, nonché socio fondatore della Società Nazionale Dante Alighieri. Sulla stessa linea si mosse Filippo Delfico, massone e venerabile della Loggia di Teramo, che lungamente, almeno fino al compimento della unità nazionale, fu nella provincia il referente autorevole  dell'azionismo garibaldino: ne dà conto un'indefessa attività di organizzazione delle iniziative che localmente e nazionalmente si intrapresero per la liberazione di Roma e Venezia e che trovarono culmine nel 1867 quando fu Filippo ad adoprarsi con l'aquilano Pietro Marrelli a radunare denari, armi e uomini per la sfortunata campagna dell'Agro Romano finita con la sconfitta di Mentana. Più volte consigliere comunale e assessore a Teramo, prestò il nome autorevole ad ogni iniziativa che ricordasse la storia recente del Risorgimento nazionale e ai sodalizi che sul piano civile e politico esprimessero il carattere laico dello stato unitario, il progresso civile e sociale della nazione, la crescita culturale del popolo italiano; cosicché l'antico palazzo di famiglia e i giardini che lo circondavano divennero in tante occasioni anche il luogo fisico ove manifestare il risveglio civile della città e della provincia teramana.

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Bibliografia:

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