Quando
il 12 novembre 1842 si spense nella sua villa di Castagneto di
Teramo Orazio Delfico, non solo veniva meno una personalità di
primo grado della città e provincia aprutina, ma rischiava di
estinguersi uno dei casati che più di ogni altro aveva fino ad
allora rappresentato con Gianfilippo, Gianberardino e Melchiorre (quest'ultimo
scomparso solo pochi anni prima, nel 1835) la cultura civile
municipale (da essi stessi anzi creata) di Teramo. Essa si era
arricchita nel tempo attraverso il multiforme rapporto con lo
stato e la monarchia borbonica (compresa la parentesi murattiana);
rapporto progressivamente affievolitosi e fattosi conflittuale
secondo un percorso culturale e politico di buona parte della
classe dirigente meridionale sortito dalla traumatica esperienza
della Repubblica Napoletana così duramente repressa in un
tentativo di cancellazione finanche materiale. Sotto questo
profilo Orazio rappresentava quasi emblematicamente un tale
itinerario umano e civile; egli che grazie ai buoni uffizi del
grande zio Melchiorre aveva potuto, sotto la guida dell' Abate
Quartapelle, educarsi e studiare a Pavia avendo come maestri
Mascheroni, Spallanzani, Volta, per citare i più ragguardevoli, e
mettere in pratica quegli insegnamenti una volta restituitosi a
Teramo. Furono gli anni dedicati agli studi geografici, fisici,
mineralogici culminati nel 1796 con le Osservazioni su di una
piccola parte degli Appennini nelle quali dava conto della
storica ascensione al Corno Grande del Gran Sasso d'Italia,
della prima misurazione scientificamente provata della montagna
appenninica finalmente "disvelata" nei suoi tratti naturali e
fisici. Vissuto ed educato all'interno di un ambiente famigliare
e culturale che sullo scorcio del Settecento aveva dato vita ad un
corposo movimento che era insieme civile e politico e faceva leva
su una sentita esigenza di rinnovamento sociale ed economico, il
giovane Orazio era stato uno dei più autorevoli e accesi municipalisti che localmente organizzarono e nobilitarono
l'effimera esperienza repubblicana del 1799: comandante dei
"Granatieri Civici" della città, fu impegnato in prima
persona nella repressione degli "insorgenti". Il suo
dichiarato repubblicanesimo lo condusse a partecipare alle più
vivaci e oltranziste manifestazioni pubbliche, dal1'innalzamento
dell'Albero della Libertà, al "banchetto patriottico", alla
rappresentazione di "commedie repubblicane". Cosicché, alla
caduta della Repubblica, dovette riparare con la moglie Diomira Mucciarelli, di nobile famiglia ascolana spostata nel 1797 e lo
zio Melchiorre, a San Marino. E' sulla base di tali premesse che
l'erede dei Delfico potrà aderire pienamente (come del resto
lo zio Melchiorre) alla vita amministrativa e politica del regno
murattiano, ricoprendo nel così detto "decennio francese"
importanti cariche militari nella provincia di Teramo, maturando
il proprio distacco dalla monarchia borbonica, accentuatosi
peraltro dopo la restaurazione del 1815: negli anni compresi tra
il 1820-21, quando maturarono e si risolsero ancora negativamente
per le sorti della riaffiorante democrazia gli avvenimenti del
nonimestre costituzionale, lo ritroviamo "Gran Maestro" di una
vendita carbonara accanto ad altri autorevoli personaggi della
classe dirigente municipale quali Andrea Costantini,
Giuseppantonio e Giovannantonio Massei, Lelio Cesi, Francesco De
Rossi. Di qui deriva il progressivo isolamento e straniamento di
Orazio Delfico che negli anni a seguire, quando a Teramo e nel
Regno fu sedata e repressa ogni aspirazione civile e politica che
fosse minimamente tacciabile di democrazia e libertà, tese a
rinserrarsi entro orizzonti più ravvicinati (ma non meno chiari
dei propri orientamenti). Gli ultimi anni egli li trascorse
ritornando ai giovanili studi scientifici e botanici in primo
luogo, «realizzando nel suo vasto giardino un orto botanico,
ricco di scelte ed esotiche piante, le più delicate delle quali -
scrive Palma - il cinnamomo, il caffè e la canna da zucchero,
erano tenute in vita da apposite stufe», arricchendo
così 1'avito palazzo
e la città di un ornamento che ancora per lungo tempo resterà
elemento caratterizzante della fisionomia urbana di Teramo.
Già
alla morte di Orazio il futuro della famiglia, che sembrava
destinata ad estinguersi per la fine di ogni diretta discendenza,
appariva invece ben saldo e rinvigorito grazie ai matrimonio
intervenuto nel 1820 tra il giovanissimo Gregorio De Filippis
conte di Longano e Marina Delfico unica figlia di Orazio ed erede
oltre che del nome, dei beni dell'illustre famiglia. La figura
di Gregorio, sebbene ancora poco indagata, è invece destinata ad
acquistare particolare importanza "non soltanto perché
accettando di aggiungere al proprio cognome quello della famiglia
teramana ne «pro1ungò» nel tempo ruolo e destini, ma
soprattutto per quanto egli rappresentò sotto il profilo civile e
culturale in decenni contrassegnati da conformismo di pensiero e
difficoltà di libera espressione politica. Teramano per parte di
madre (il padre Troiano aveva sposato Aurora Cicconi figlia del
consigliere di stato Andrea, teramano e amico di Melchiorre Delfico)
e ora per adozione, Gregorio prese progressivamente in mano le
sorti della nuova famiglia restaurandone beni e finanze duramente
provate dalle vicende rivoluzionarie degli ultimi decenni e nel
contempo recuperando a se stesso e ai suoi eredi un ruolo di guida
civile (se non politica) da giocare sia sul piano locale che su
quello nazionale. Sebbene conosciuto parzialmente per la sua
produzione letteraria (in tal senso Nicola Palma lo segnalava
intorno al 1835 tra gli uomini illustri della provincia) che lo fa
annoverare tra i frequentatori e seguaci della corrente romantica
prevalente in quel tempo, Gregorio va ricordato in particolare per
l'impegno amministrativo a favore della vecchia provincia
aprutina e per la concezione civile della sua profonda cultura.
Ebbe larga apertura mentale frutto di viaggi e frequentazioni con
le migliori intelligenze italiane; allacciò e rinvigorì legami
con uomini e ambienti che già avevano avuto dimestichezza col
vecchio Melchiorre che ne trasse intima soddisfazione. Così
l'autorevole prozio ne scriveva al degno nipote: «Non so dire
quanto anche io sia contento nel dovervi ancora riguardare come
conservatore di quella amicizia che ho goduto in più luoghi
d'Italia, dove feci qualche dimora, come in Lombardia ed in
Toscana ed in Napoli, dove ora avete riveduti tanti che lietamente
mi rammentano nella mia decrepitezza». Sono i viaggi compiuti nel
1827 in Inghilterra, Francia e Svizzera e i soggiorni nelle
maggiori città d'Italia e specialmente a Firenze a conferire a
Gregorio una larghezza di vedute testimoniata dalla ricchezza del
suo epistolario che dà conto della capillare e fitta circolazione
e discussione di temi culturali di ampio respiro nell'Abruzzo
dei primi decenni dell'Ottocento. Gli interlocutori sono Niccolò
Tommaseo, Giovan Battista Niccolini, Giampietro Viesseux (per
citarne alcuni), ma anche Giacomo Leopardi col quale (sebbene
occasionalmente) ha uno scambio epistolare breve e tuttavia
illuminante di una consonanza ideale che finisce per arricchire
viepiù la figura e la levatura intellettuale di Gregorio. Tra i
componimenti poetici e le prose che Gregorio De Filippis Delfico
ha modo di presentare all'illustre recanatese vi è il Discorso
sull‘importanza d'una storia generale dell'industria e del
commercio degl'Italiani che, pubblicato nel 1836 costituisce
prova evidente della dimensione esplicitamente nazionale dei suoi
interessi pur in assenza di ogni chiara manifestazione di dissenso
rispetto alla dinastia e al concreto operare
del1'amministrazione borbonica. Noi non sappiamo quali temi e
aspetti del Discorso che Leopardi aveva letto «con vivo
piacere e profitto» fossero stati apprezzati, tenendo conto del
carattere erudito dell'opuscolo nel quale, con qualche ingenuità,
Gregorio rivendicava il ruolo degli italiani nella storia dei
progressi delle tecniche produttive e delle scienze
economiche.
E
tuttavia non pare azzardato riconoscervi un idem
sentire, laddove si richiami quel Discorso sopra lo stato
presente dei costumi degli Italiani nel quale Leopardi, poco
più di un decennio prima, nel 1824, si cimentava in una
descrizione oggettiva della società italiana individuandone i
limiti identitari, specie delle classi dirigenti, la
disgregazione, la povertà civile e culturale, la mancanza di
carattere, l'assenza di industria e d'ogni sorta di altra
attività «per cui l'uomo miri a uno scopo, e coll'aspettativa,
coi disegni, colla speranza dell'avvenire, rilevi il pregio
del1'esistenza». Un'esigenza questa che sembra affiorare
nell'azione privata e pubblica di Gregorio per il quale
l'impegno a migliorare e promuovere il bene delle proprietà di
famiglia come pure l'ammegliamento delle condizioni economiche e
sociali della provincia non erano fini a se stessi ma volti al
progresso generale sorretti come erano da un'alta concezione di
ruolo (e, modernamente, di funzione) da svolgere pur nelle
ristrette maglie dell'amministrazione borbonica. Di qui
l'impegno di Gregorio De Filippis Delfico nella Società
Economica, prima come socio onorario (dal 1829), poi ordinario
(dal 1841) e quindi come Presidente negli anni 1845-1846 quando si
contraddistingue per impegno solerte e profondità di analisi: è
di questi anni un suo pregevole discorso Sulla patria
agricoltura nel quale compie una analisi puntuale dei dati di
fondo ritenuti necessari per lo sviluppo agronomico della
provincia con particolare riguardo ai capitali d'investimento
agrario. Come pure autorevole ed efficace fu la sua presenza
all'interno del Consiglio Provinciale del quale fu più volte
Presidente. È del 1841 una sua relazione di ampio respiro (Poche
idee di miglioramento per le contrade del 1° Apruzzo Ultra) nella
quale sviluppa l'idea della necessità di un intervento di
arginazione dei fiumi e di regimentazione delle acque; mentre nel
1843 propone e promuove la istituzione di due Casse di Risparmio,
una a Teramo, l'altra a Città S.Angelo, secondo un modello
organizzativo che faceva tesoro dell'esperienza compiuta nelle
principali città dell'Italia Centro-Settentrionale. Ancora in
qualità di Presidente del Consiglio Provinciale Gregorio
intervenne nel 1843 nel dibattito in corso sul tracciato da darsi
alla costruenda strada di collegamento tra la costa e L'Aquila
sostenendo sia la direttrice Giulianova — Teramo — Montorio,
sia un secondo tracciato che avrebbe dovuto svilupparsi dalla
consolare adriatica attraverso
la Vallata
del Vomano per meglio collegarsi con Pescara la cui importanza
futura veniva sottolineata secondo un indirizzo e una
consapevolezza che già erano stati del grande Melchiorre. Ma v'è
un altro tratto del profilo di Gregorio che si va tracciando a
dover essere sottolineato. Egli infatti ebbe sempre piena
consapevolezza di operare all'interno di una tradizione
famigliare e civile che aveva avuto in Melchiorre Delfico la sua
massima espressione. Di qui la ricerca continua di legami
personali e culturali col vasto mondo che in periferia così come
a Napoli aveva trovato nell'illustre prozio un punto di
riferimento e, nel contempo, l'avvio di cui fu protagonista del
primo inquadramento critico della figura di Melchiorre nel lucido
tentativo di farne una sorta di archetipo culturale e civile al
quale attingere in sede locale per dare maggior forza
all'azione
di svecchiamento e ammodernamento che gli intellettuali abruzzesi
e meridionali stavano compiendo. Già nel 1836, all'indomani
della morte di Melchiorre, Gregorio pubblicò Della vita e
delle opere di Melchiorre Dèlfìco, un'opera destinata a
fornire un primo ritratto prosopografico cogliendone gli elementi
salienti di pensiero e la vasta attività che la lunga vita e gli
incarichi svolti gli avevano consentito di avere a partire dagli
ultimi anni del riformismo tanucciano durante il regno di Carlo
III, attraverso la crisi rivoluzionaria di fine secolo, il
"decennio francese", fino al nonimestre costituzionale.
All'interno di questo solco si colloca lo sforzo editoriale di
Gregorio che negli anni successivi alla scomparsa di Melchiorre
pubblicava a sua cura scritti inediti dell'uomo politico e
filosofo (La fiera franca in Pescara apparsa
sul «Giornale abruzzese di scienze, lettere ed arti» nel 1838, Della
solitudine pubblicato sulla stessa rivista nel 1840 e La
Delficina pubblicata a Napoli nel 1841) a riproporre temi e
suggerimenti che erano stati al centro della riflessione e
dell'attività del vecchio Melchiorre e una prima silloge
del pensiero delficino quasi ad evocarne il ricco humus
e prolungarne suggestioni ed efficacia.
Né
diverso intento aveva ìl secondo libro dell'opera Della vita
e delle opere... nel quale Gregorio avviava una prima
schedatura e un primo ordinamento degli scritti di Melchiorre
conservati nel vecchio archivio di famiglia, da egli ereditato,
secondo un «suo progetto di depositare in luogo di pubblica
ragione gli autografi egualmente che le altre carte (...)»,
proponimento che si sarebbe realizzato a distanza di un secolo
circa quando tutto l'archivio della famiglia Delfico andò a
costituire i ricchi Fondi tutt'ora conservati presso
la Biblioteca Provinciale
e l'Archivio di Stato di Teramo. Cosicché l'antiveggenza
ancora impregnata di pensiero illuminista del vecchio Melchiorre
si congiungeva idealmente e concretamente col moderno sentire
civile dei suoi discendenti, a partire da Gregorio, che dotavano
Teramo di un patrimonio documentario e bibliografico di grande
rilevanza affidandolo a pubbliche istituzioni che ne portano
l'impronta.
La
prematura morte di Gregorio De Filippis Delfico nel 1847 avviene
a ridosso di avvenimenti che segneranno profondamente gli ambienti
civili e culturali abruzzesi e meridionali e vedranno
protagonisti, sebbene ancor giovani, i figli Trojano, Filippo e
Melchiorre; mentre i primi
due
compiranno a Teramo il loro apprendistato politico legandosi a
uomini e ambienti del liberalismo cittadino, il terzo si affermò
negli ambienti culturali di Napoli dove la sua penna di
caricaturista ed il suo estro musicale divennero elementi
caratterizzanti della vita artistica della città capitale del
Regno già negli anni che precedono l'unificazione nazionale.
Una tale affermazione di spiriti liberi potè manifestarsi
nell'ambito di una famiglia che, come abbiamo già visto, aveva
dato ampie prove di patriottismo e di forte sentire civile a cui
non fu estranea Marina Delfico che, rimasta vedova, mantenne
unita la famiglia in larga parte dispersa in seguito agli
avvenimenti del 1848-49 facendo della sua casa il luogo di ritrovo
delle maggiori personalità della vita culturale e politica
cittadina secondo una consuetudine che risaliva a suo padre. Fu
Raffaele De Cesare nel suo La fine di un Regno a darci una
vivida descrizione di questo ambiente nel quale le consuetudini di
società erano intimamente legate a una comune aspirazione civile
e politica che aveva difficoltà ad esprimersi in altra maniera.
«In Teramo una nobile donna raccoglieva nel suo palazzo (...)
ricco di opere d'arte e di un magnifico giardino pensile, i
cittadini notoriamente avversi al regime borbonico; ed era la
contessa Marina Delfico, ultima della sua stirpe, vedova di
Gregorio De Filippis, conte di Longano, e madre di Trojano e di
Filippo, esuli in Grecia e in Francia, e di quel Melchiorre
juniore, spirito di fine caricaturista (...). Nelle sontuose sale
del Palazzo Dèlfico, dove morì il grande Melchiorre, e dove si
accede per una scala addirittura regia, convenivano Vincenzo Irelli, che fu il sindaco della rivoluzione, e poi fra i primi
senatori del regno d'Italia; Berardo e Settimio Costantini,
Francesco e Berardo Bonolis, (...) Giuseppe Antonio Crocetti,
Stefano de Martinis protettore della Milli, Niccola Forti,
Giovanni de Benedictis, letterato e poeta, e le famiglie Ginaldi,
Pompetti, Valentini, Michitelli. Prima del 1848 avevano
frequentato l'ospitale casa dei Delfico il Gammelli, i fratelli
Bucciarelli, uno dei quali morì pure nel bagno di Pescara; e
Michelangelo Forti, prete liberale di gran cultura e carattere
eroico, morto nella galera di Nisida. Ricordo pure Pasquale della
Monica, pittore napoletano, andato a Teramo col conte di Longano,
e padre dell'insigne artista, che conobbi a Teramo
nell'ottobre scorso, quando vi fui ospite dei giovani conti Delfico,
figli del defunto senatore e degni discendenti dell'ultimo degli
Enciclopedisti (...)». Quando la reazione antiliberale del 1849
costrinse alla fuga e all'esilio i figli, fu Marina Delfico a
reggere le sorti della famiglia attorno alla quale difficile si
era fatto il clima sociale e politico e, nel contempo a mantenere
fitti rapporti epistolari con Trojano e Filippo verso cui manifestò,
pur nell'apprensione materna, simpatia e adesione per le scelte
compiute e fu prodiga di suggerimenti, consigli e aiuti materiali.
Né
tralasciò in simili frangenti di occuparsi degli affari di
famiglia: le lettere inviate ai figli durante gli anni
dell'esilio ci parlano di «fortificazioni» lungo il fiume
Salino nelle proprietà di Montesilvano, di «bonifiche in
campagna» condotte a termine, di completamento dello scalone
nobile di Palazzo Dèlfico che volle compiuta per quando i figli
sarebbero
finalmente tornati. Nel contempo mise in atto ogni azione legale
perché al figlio Filippo non fossero sequestrati (così come
ordinato dalla Gran Corte Criminale nella sentenza di condanna) i
beni dell'eredità paterna, difendendo i diritti della giovane
nuora Cleomene Rossi con la quale condivise sofferenze e virile
impegno nella salvaguardia e nell'amministrazione di beni e
proprietà.
È
sulla scorta di una tradizione famigliare assai solida che i
fratelli De Filippis Delfico maturano la loro adesione ai
principi liberali, la condanna del dispotismo borbonico,
l'aspirazione all'unità nazionale. È il già maturo Trojano
(era nato nel 1821) a figurare tra i sottoscrittori del Manifesto-invito
dello «Spettatore dei destini italiani» (un nome che era
insieme un programma ideale e politico) che invitava nella
primavera del 1848 a combattere contro gli austriaci; disegno che
mise in pratica di lì a poco accorrendo volontario in Lombardia
nella prima guerra di indipendenza. È ancora Trojano, col giovane
fratello Filippo (era nato nel 1827), insieme a Valerio Forti e
Antonio Tripoti ad organizzare la manifestazione di S. Angelo: in
occasione della festa patronale che
tradizionalmente
si teneva nella piccola chiesa di campagna che ancor oggi dal
crinale del Pennino guarda Teramo, i giovani patrioti lì
convenuti il 2 ottobre 1848 manifestarono apertamente il loro
entusiasmo per la notizia della sollevazione di Vienna, cantando
inni patriottici e inneggiando Carta Costituzionale che, sebbene
ancora vigente, era stata già messa in mora dall'atteggiamento
normalizzatore e sempre più reazionario assunto da Ferdinando lI.
Sono questi i fatti che dovevano costare ai fratelli Delfico il
processo, l'accusa di aver costituito un improbabile governo
provvisorio, di aver provocato manifestazioni sediziose e
disordini per i quali addebiti fu richiesta la pena di morte per
essi e per altri trenta cittadini tra i quali Antonio Tripodi,
Valerio e Michelangelo Forti, Antonio Camillotti, ai quali fu poi
inflitta la pena dei ferri variante tra gli otto e i venti anni.
Così
Trojano in una lettera al fratello dell'8 marzo 1850 rievocò la
sua fuga dalla città: «Nell'entrare a Teramo delle truppe di
Landi, io ne uscivo con Giorgio Marozzi, col mio fucile e col mio
sacco. Sul Pennino vidi l'entrata degli eroi del Borbone. Poi
(...) passai il confine sulle montagne e dopo due giorni e due
notti di faticoso cammino giunsi in Ascoli, mi son trattenuto in
Ascoli, e in S. Benedetto molto tempo, fintanto che, minacciata
Ascoli dai briganti, contro i quali mi ero battuto
all'Acquasanta (...), dai Napoletani, ed assalita da tutte le
parti e da tutte le nazioni
la Repubblica Romana
, mi ritirai in Ancona. (...). Capitolata che ebbe Ancona, fummo
caricati in folla su due barche che alzarono bandiera inglese
(...), finalmente a Corfù fummo ricevuti, mediante garanzia. Dopo
quattro mesi partii per la Grecia, dove sono». Inizia così il
lungo esilio di Trojano trascorso tra Patrasso e Atene, Torino
dove nel 1859 sperò in una amnistia nel Regno di Napoli che gli
consentisse di tornare in patria, quindi nuovamente ad Atene; nel
corso di questi anni visse assai modestamente dei proventi della
caccia e della vendita di suoi quadretti di genere che dipingeva
con buona tecnica, senza mai cessare di informarsi e di informare
sulla evoluzione delle cose italiane in attesa del ritorno. Anche
Filippo, sfuggito all'arresto, seguì nell'esilio il fratello
di lì a poco. Imbarcatosi clandestinamente per
la Francia
, soggiornò, fino ai rientro in patria nel 1860, a Nizza,
Marsiglia, Parigi dove anzi la madre lo invitò a prendere
contatto con Giuseppe Devincenzi, anch'egli esule, per averne
qualche aiuto e consiglio. Così Marina Délfico ne scriveva al
figlio: «So che a Parigi ci sta D. Peppino De Vincenzi, nostro
paesano, perché abruzzese di Notaresco, anzi nostro lontano
parente (...). Egli potrebbe esserti di molta utilità, è giovane
savio ed istruito, e potrebbe farti acquistare quegli utili
rapporti perché dimora da qualche tempo a Parigi». Ma
anch'egli, durante questi anni, visse modestamente commerciando
mobili e dell'aiuto pecuniario proveniente saltuariamente, nelle
sfavorevoli contingenze, dalla madre. Solo nella tarda primavera
del 1860, dopo lo sbarco di Garibaldi in Sicilia, Trojano e
Filippo Delfico poterono tornare a Teramo dove legarono il loro
nome alle vicende rivoluzionarie che portarono all'unificazione
nazionale. Fu Trojano fin da subito ad essere tra i più
autorevoli rappresentanti dello schieramento democratico più
avanzato per il quale la spedizione garibaldina avrebbe dovuto
naturalmente aver conclusione con la liberazione di Roma e
Venezia. Nella riunione tenuta il 10 settembre nella sua villa di
campagna in località Salino di Montesilvano Trojano, insieme a
Clemente De Caesaris e a Ariodante Mambelli adombrò un moto
insurrezionale finalizzato alla costituzione di un governo
provvisorio nel nome di Vittorio Emanuele sotto la dittatura di
Giuseppe Garibaldi. A superare lo stato delle cose intervenne la
notizia dell'entrata di Garibaldi a Napoli e la nomina dello
stesso Trojano (con De Virgiliis e D Caesaris) a prodittatore
della provincia di Teramo. Fu quindi comandante della Guardia
Nazionale distinguendosi nell'azione di smantellamento
dell'esercito borbonico ancora in armi e nella repressione del
nascente ribellismo brigantesco. Fin da subito la sua attività
politica fu espressione del democraticismo risorgimentale e in
tale veste le reiterate (sebbene prive di successo) candidature
politiche nel collegio di Teramo si connotarono di caratteri
avanzati finché a partire dal 1865 divenne con Irelli e il
giovane Settimio Costantini rappresentante autorevole della
Sinistra Storica. Consigliere comunale e provinciale di Teramo,
senatore del Regno a partire dal 1880, Trojano Delfico ebbe
altresì ruolo di primo piano in associazioni e sodalizi che
davano conto del progresso civile e morale della nuova nazione: fu
Presidente della Società dei reduci delle Patrie Battaglie, socio
della Deputazione abruzzese di storia patria e della Accademia
Pitagorica in Napoli, nonché socio fondatore della Società
Nazionale Dante Alighieri. Sulla stessa linea si mosse Filippo Delfico,
massone e venerabile della Loggia di Teramo, che lungamente,
almeno fino al compimento della unità nazionale, fu nella
provincia il referente autorevole
dell'azionismo garibaldino: ne dà conto un'indefessa
attività di organizzazione delle iniziative che localmente e
nazionalmente si intrapresero per la liberazione di Roma e Venezia
e che trovarono culmine nel 1867 quando fu Filippo ad adoprarsi
con l'aquilano Pietro Marrelli a radunare denari, armi e uomini
per la sfortunata campagna dell'Agro Romano finita con la
sconfitta di Mentana. Più volte consigliere comunale e assessore
a Teramo, prestò il nome autorevole ad ogni iniziativa che
ricordasse la storia recente del Risorgimento nazionale e ai
sodalizi che sul piano civile e politico esprimessero il carattere
laico dello stato unitario, il progresso civile e sociale della
nazione, la crescita culturale del popolo italiano; cosicché
l'antico palazzo di famiglia e i giardini che lo circondavano
divennero in tante occasioni anche il luogo fisico ove manifestare
il risveglio civile della città e della provincia teramana.
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