Nel 1808 gli editori Roveri e Casali di Forlì
pubblicavano i Pensieri su l’istoria e
sull’incertezza ed inutilità della medesima di
Melchiorre Delfico, che avevano cominciato a
stampare due anni prima (1).
Nella Storia della storiografia italiana nel
secolo decimonono Benedetto Croce parla di
quest’opera come di un esempio tardivo di quella
"conseguenza paradossale" cui era giunta nel secolo
XVIII "l’indagine sulla natura e l’ufficio della
storiografia", un’indagine che, partendo da
un’imprecisa e controversa concezione di questa
‘forma dello spirito’, inevitabilmente era sboccata
nel suo discredito e nella sua negazione, sicché in
quel secolo, che considerava il passato come "un
brutto sogno" e il presente e l’avvenire come il
"regno iniziato e vittorioso della ragione", si era
creduto che la storia, custode della memoria del
passato, "fosse non solo inutile…ma addirittura
perniciosa come serbatoio di cattivi esempi" (2).
Di questo ‘paradosso’ si era fatto paladino "ancora
nel 1806" Melchiorre Delfico, "un superstite
‘intellettuale’ del secolo precedente", ottenendo
tuttavia "nessuno o assai debole consenso", anzi
suscitando "molte voci di contrasto" (3).
Alle posizioni negative della cultura illuministica
aveva infatti reagito la nuova cultura che agli
inizi dell’Ottocento tornava "a interrogare la
storia e confidare in lei" (4). Tra i difensori
dell’utilità della storia il Croce annovera anche il
Foscolo.
In effetti, negli stessi anni dei Pensieri
delficini si svolgeva il momento saliente della
riflessione sulla storia del poeta di Zante: dalla
composizione e pubblicazione del carme Dei Sepolcri
(1806-07) all’orazione inaugurale del corso di
lezioni all’Università di Pavia sul tema
Dell’origine e dell’ufficio della letteratura.
Dopo una giovinezza travagliata da esperienze
diverse – la perdita della patria, le delusioni
politiche, gli amori fervidi, ma inappaganti,
l’affannosa ricerca di un ubi consistam
nell’Italia napoleonica – il Foscolo approdava,
ormai trentenne alla cattedra universitari,
illudendosi ancora una volta di avere raggiunto una
meta soddisfacente. Le sue speranze, al contrario,
erano destinate a svanire per la soppressione delle
cattedre di eloquenza nel regno Italico, decretata
ancor prima che egli desse inizio al corso. Volle
ugualmente svolgere il suo insegnamento, che si
ridusse all’orazione inaugurale ed a cinque lezioni,
tenute tra il febbraio e il giugno del 1809 (5).
Nel discorso di apertura il Foscolo, dopo aver
esposto la sua concezione della parola umana come
stimolo allo sviluppo del pensiero e fondamento
primo del contratto sociale, passava ad analizzare
l’ufficio delle lettere, distinguendo coloro che si
applicano ad esse in ‘poeti’, ‘oratori’ e ‘storici’.
Entro questa partizione, che senza dubbio ricalca
gli schemi della retorica tradizionale, s’inserisce
la celebre esortazione alle storie, che pur
collocata su un ampio sfondo di riferimenti
culturali, quindi da intendere come un nobile invito
a coltivare le lettere in modo consapevole e degno
di esse, per alte finalità etiche e patriottiche, va
certamente riportata ad una prospettiva contingente:
"Io vi esorto alle storie – diceva ai suoi giovani
allievi
il Foscolo -, perché angusta è l’arena degli
oratori; e chi ormai
può contendervi la poetica palma?" (6)
In altri termini, egli ricordava il primato italiano
nel genere della poesia lirica ed etica, un primato
che, a suo parere, avrebbe dovuto scoraggiare i
giovani dall’insistere in un campo già troppo
ingombro di glorie passate, e nello stesso tempo
indicava i limiti obiettivi – con una velata
allusione ai condizionamenti illiberali del regime
napoleonico – per chi avesse voluto esercitare il
proprio ingegno nell’oratoria.
La sua esortazione a coltivare le ‘storie’ sembra
così risolversi in una sorta di indicazione di
scelta pressoché obbligata per quei giovani,
comunque ancorata ad una visione sostanzialmente
tradizionale dell’attività letteraria.
Non per nulla il Croce quando ricorda la posizione
foscoliana nel dibattito sull’utilità della storia,
la riconduce a "vecchi argomenti sulla virtù
oratoria della storia" (7). Ciò non gli impedisce di
avviare la sua Storia della storiografia italiana
nel secolo decimonono proprio con la menzione di
quella ‘esortazione alle storie’, riconoscendole una
valenza ben più ampia del significato contingente
(8).
Valutato entro questa dimensione, il pensiero del
Foscolo appare antietico a quello del elfico. Del
resto, è agevole segnalare tra i due scrittori una
serie di divergenze ideologiche che li rendono
espressioni di due momenti ben distinti, anche se
cronologicamente contigui, della storia della
cultura: quanto l’uno, partecipe e protagonista
dell’età preromantica, è teso a superare la crisi
del razionalismo settecentesco affidandosi alla
forza delle illusioni, tanto l’altro resta
sostanzialmente legato ai fondamenti concettuali
dell’Illuminismo. Se Foscolo, già fermenta la
rivalutazione romantica dello storicismo vichiano,
il Delfico, pur non ignorando la lezione del Vico,
ha i suoi riferimenti ideologici in Condillac, in
Volney.
Vero è che entrambi avvertono la difficoltà di
risolvere i problemi lasciati aperti dallo
sgretolamento dell’ideologia dei lumi nel momento
della transizione dei fervori rivoluzionari al
ripristino dell’ordine, drappeggiato classicamente
sotto lo scettro imperiale di Napoleone; ma gli
esiti cui approdano divergono non solo per
l’intrinseca differenza dei temperamenti e delle
formazioni culturali, bensì anche e forse
soprattutto per un divario generazionale, all’animo
del Foscolo prestando ancora alimento non scarso le
speranze di un trentenne, sul Delfico gravando ormai
in modo irreparabile le molte esperienze, quasi
tutte dure e dolorose, delle sue più che sessanta
primavere.
Pertanto, la storia ha per Foscolo una valenza
pedagogica assoluta, che nel momento specifico
dell’Italia napoleonica assume un risvolto
parenetico, si arricchisce di una potenzialità
patriottica – presagio e prodromo di quanto avverrà
concretamente nel periodo risorgimentale; la
convinzione delficina dell’inutilità della storia,
anzi della sua dannosità, appare come una logica
conseguenza di certe premesse concettuali della
Weltanschauung illuministica (9). Tuttavia il
Delfico riconosce la possibilità, anzi la validità
di una storia del progresso umano, delle conquiste
della scienza (10): anche questa, d’altronde, è idea
tipicamente settecentesca (11), sicché, a stringere
i conti, non si può negare la giustezza di
un’interpretazione in positivo delle sue idee, come
quella di Armando Di Nardo, che definisce i
Pensieri un saggio volto a mostrare "come la
storia non deve essere" (12).
Lo stesso studioso mostra come il progetto delficino
di una ‘nuova’ storia – "una storia della verità,
quindi da imitare", in sostituzione dell’inveterata
e deprecata "storia degli errori" – punti a
valorizzare la "storia delle scienze", cioè una
storia delle conquiste del pensiero umano in campo
scientifico, che apra prospettive per ulteriori
avanzamenti (13). "Così – afferma il Delfico – le
scienze e la storia di esse sarebbero l’istessa
cosa, e sarebbero combinati i metodi di apprendere e
d’insegnare" (14).
Cade qui opportuno il richiamo al passo
dell’orazione inaugurale foscoliana nel quale è dato
riconoscimento alla letteratura di carattere
scientifico dei secoli passati e sono ricordati con
lode Machiavelli, Galilei, Beccaria, Ferdinando
Galiani, scrittori che "onorano il materno idioma"
promuovendo "i loro studi con eloquenza" (15) tra
gli italiani. Anche se l’elogio pare vertere in modo
peculiare sul ‘bello stile’ di questi scrittori
‘scientifici’ (tanto che subito dopo si deplorano
gli scienziati del tempo che "non si valgono delle
attrattive della loro lingua" per rendere i loro
saggi "proprietà cara e comune agl’ingegni
concittadini" (16)), il passo ha certamente un
significato più ampio, caricandosi di un valore
ideologico che si riflette sulla storia letteraria
nel suo complesso.
Ma anche in altri punti si scoprono convergenze tra
il Delfico e il Foscolo. Si mettano a raffronto gli
esordi dei due testi: i Pensieri del primo si
avviano con la considerazione che i caratteri
naturali rendono l’uomo ‘parlante’ e ‘scrittore’,
quindi capace di comunicazione e narrazione (17);
anche per il Foscolo la parola è una
"facoltà…ingenita" nell’uomo, mediante la parola si
comunicano immagini e sentimenti, e ciò è detto nel
paragrafo IV dell’orazione, che dopo i primi tre
paragrafi di esordio convenzionale dà il vero e
proprio avvio alla trattazione del tema (18).
Afferma il Delfico che nell’età primitiva il ricordo
dei personaggi di maggiore spicco sociale era
affidato ad una pietra o a mucchi di pietre e che da
questo uso trassero origine i cippi, i monumenti,
insomma tutti gli edifici destinati a tramandare la
memoria degli uomini illustri (19). A sua volta, il
Foscolo parla dei tumuli eretti sui cadaveri dei
vinti come tangibile ricordo delle vittorie (20).
Comune ad entrambi è il disprezzo per gli eruditi,
per gli aridi raccoglitori di notizie, chiusi alla
vita che ferve al di fuori dei loro studi, per i
‘claustrali’, secondo la tagliente definizione
foscoliana, quindi è comune anche il ripudio della
storia fatta di fredde nozioni raccogliticce (21).
A questo punto sembra lecito porre la questione se
il Foscolo conoscesse o meno il saggio delficino.
Parecchi elementi porterebbero a dare una risposta
affermativa.
E’ bene ricordare che all’orazione inaugurale di
Pavia furono mosse, nell’immediato, varie critiche e
ne nacquero polemiche, più volte riferite dal
Foscolo nelle lettere inviate in quel lasso di tempo
a G. B. Giovio di Como e all’amica veneziana
Isabella Teotochi Albrizzi (22). Anzi, proprio con
l’obiettivo di rispondere alle censure egli preparò
una lettera al Giovio da stampare col titolo In
difesa dell’orazione inaugurale, ma varie
vicende glielo impedirono. I frammenti di essa
ricavati dagli autografi, sono stati pubblicati a
cura di Emilio Santini nel VII volume dell’Edizione
nazionale (23).
Un passo della lettera sembra riferibile proprio ai
Pensieri di Melchiorre Delfico:
"E quantunque il giornale dinanzi citato
(24) presenti quasi fenomeno, e penda incerto tra
tanta lite, che mentr’io esortava a scrivere
degnamente le storie, altri nella stessa città
pubblicasse che la storia è assolutamente
perniciosa alla società, io, senza contrapporre
che l’autore di quest’opinione pubblicò recentemente
una storia, da che ciò poco convincerebbe chi non
vorrebbe scrivere storie né leggerle, domanderò: gli
uomini camminano nelle tenebre della vita per
ispirazione o per esperienza? possono inventar mai o
non piuttosto sempre imitare? devono più specolare
che operare? e senza sentire potrebbero operare e
senza fatti sentire? Ove ogni uomo nasca ispirato,
prototipo e contemplatore, la storia sarà
perniciosa, perché lo svierà dalla propria natura.
Dimentichiamoci dunque tutto il passato,
distruggiamo le nostre immaginazioni sull’avvenire,
perché sono anch’esse fondate su la memoria. Ma
la storia è inutile, incerta, fallace; e la sentenza
dell’autore presa in tutta l’estension sua conduce a
questo, che non esiste storia veruna. Anche
della nostra vita ignoriamo il prima, il poi, il
come, il perché; l’anima nostra, i ragionamenti, i
nostri occhi, le nostre mani; il momento del nostro
esisto, che oscilla fuggendo sempre le
immense voragini del passato e lusingandosi nel
futuro, è anch’esso incerto, tutto è incerto, è
fallace tutto; né v’è dunque certezza perché non v’è
cognizione di vita: non per questo non v’è vita
veruna. Poiché tutto è illusione, la quale ci guida
come ad un fine certo e determinato, a cui mira
perpetuamente l’istinto ostinato della nostra
conservazione, la storia, quand’anche fosse
illusione, alimenterebbe più sempre la vita
dell’uomo" (25).
L’esame di questo brano porta ad evidenziare alcuni
passi quali elementi probatori in positivo
dell’ipotesi. Per esporre in sintesi il pensiero del
suo antagonista scrive il Foscolo sottolineando (di
qui la stampa in corsivo): "la storia è
assolutamente perniciosa alla società". Basta
leggere il titolo del terzo capitolo del saggio
delficino (Dell’inutilità della Storia, e de’
pregiudizj e danni derivati dalla medesima) per
imbattersi in un evidente riscontro testuale.
Un’altra frase del Foscolo, coniata pure per
riferire il pensiero dell’avversario e perciò
anch’essa sottolineata – "Ma la storia è inutile,
incerta, fallace…"-, richiama quasi alla lettera
il titolo dell’opera del Delfico (Pensieri su
l’istoria e sull’incertezza ed inutilità della
medesima); da notare inoltre che i termini
"incertezza" ed "inutilità" tornano,
rispettivamente, nei titoli del Capo secondo
(Della storica incertezza) e del Capitolo terzo,
già citato, sì da costituirsi quasi come
mot-clefs del saggio.
Ovviamente, le definizioni del Foscolo trovano ampio
riscontro nei contenuti dell’opera del Teramano: se
ci si è soffermati sui soli titoli, è perché questi
svolgono in genere una funzione mnemonica quando si
voglia dare una rappresentazione sintetica di un
testo, e proprio ciò sembra essere avvenuto nel caso
specifico.
Osserva inoltre il Foscolo che "l’autore di
quest’opinione pubblicò recentemente una storia…",
perciò sarebbe caduto in contraddizione con la sua
drastica critica alla storia. E’noto che Melchiorre
Delfico aveva pubblicato nel 1804 le Memorie
storiche della Repubblica di S. Marino, quindi
l’osservazione foscoliana potrebbe calzare a
pennello al suo caso.
In proposito, giova ricordare che lo scrittore
teramano aveva, per così dire, respinto in anticipo
l’accusa di incoerenza giustificando nella
Prefazione la sua opera storica su San Marino (26).
Qui non aveva esitato a dichiararsi in dissenso con
quelli "che riguardano la storia come maestra della
vita e dispensatrice della civile sapienza", dato
che essa, "facendoci veder sempre scarsi gli annali
della virtù in confronto dei voluminosi giornali del
vizio e dell’errore", non contribuisce
all’educazione morale dell’uomo; tuttavia l’esempio
del "governo umano" di San Marino, rimasto immune
dai travagli di fine Settecento che avevano
sconvolto l’Europa e l’Italia, lo induceva ad una
trattazione che, se non arrecava ai lettori
"un’essenziale utilità", poteva per lo meno dare
"qualche piacevolezza" (27).
Dal brano del Foscolo sopra riportato emerge anche
qualche elemento che può invalidare l’ipotesi; il
più rilevante concerne l’indicazione del luogo di
pubblicazione dello scritto dell’antagonista ("altri
nella stessa città pubblicasse…"): a quale città
intendeva riferirsi il Foscolo? A Pavia, dove era
stata pronunciata l’orazione inaugurale, o a
Firenze, con riferimento al "giornale dinanzi
citato" cui alludeva qualche rigo prima, cioè al
"Giornale enciclopedico", pubblicato appunto a
Firenze?
Certamente l’opera del Delfico non era stata edita
né a Pavia né a Firenze, ma a Forlì. Per ovviare a
questa difficoltà si può ipotizzare un lapsus
memoriae del Foscolo o una sua contingente
imprecisione; del resto, lo stato frammentario e
confuso degli autografi, attestato in una lunga nota
ad locum dal curatore dell’edizione (28), può
ben giustificare nel testo sviste, approssimazioni
ed aporie del genere.
Qualora fosse proprio il saggio del Delfico
l’oggetto del riferimento foscoliano, si tratterebbe
di una delle sue prime contestazioni, se non delle
prima in assoluto (29).
In ogni caso, a prescindere dalla validità o meno
dell’ipotesi avanzata, è significativa la
convergenza dei due scrittori nella riflessione
sulla storia al discrimine tra cultura illuministica
e sensibilità romantica. Tuttavia, il divario, anzi
l’opposizione tra le loro risposte al comune
problema è soltanto apparente, poiché entrambi
mirano ad una ‘nuova’ storia, ripudiando
l’erudizione di mero accumulo ed auspicando
l’indagine sulla realtà degli eventi; la loro
aspirazione al ‘vero’ (30), in quanto scoperta dei
motivi essenziali dei fatti storici e delle linee
portanti delle vicende dell’umanità, si concretizza
nel desiderio – dalle profonde radici etiche – di
costruire una storia che sia davvero maestra di vita
e stimolo all’azione nel presente e nell’avvenire.
Ma la sua giustificazione nell’enfasi posta
dall’antagonista sugli aspetti negativi della
precedente storiografia, mentre ignora o trascura
(come del resto, faranno altri critici del Delfico,
non escludo lo stesso Croce) la sua proposta di un
nuovo modo di fare storia.
In altri termini, l’impostazione prevalentemente
negativa e demolitoria data dal Teramano al suo
saggio ha nuociuto a lungo alla comprensione di una
tesi che solo in tempi recenti è stata riscattata
dal misconoscimento e dal sommario discredito. |