Il contributo dell’Archivio di Stato di Teramo alla storia della
transumanza in Abruzzo, e in particolare nella provincia teramana,
consente di ripercorrere, attraverso una sommaria analisi delle fonti
documentarie, la storia delle istituzioni che, nel corso del tempo,
hanno disciplinato la pastorizia, attività tra le più antiche e diffuse
nel territorio (1). Le indicazioni di massima, oltre ai dati
archivistici, contengono, tuttavia, quegli elementi essenziali
maggiormente utili ed indicativi per approfondirne la ricerca. Qui in
appendice si riportano, inoltre, le voci tratte da L’inventario del
Fondo Delfico (2) (complesso documentario conservato presso lo
stesso Istituto) relative agli "Stucchi", argomento di studio trattato
con notevole impegno da Melchiorre Delfico (Teramo 1744-1835). Storico,
filosofo, economista, Consigliere di Stato nel ramo Finanze, durante il
governo napoleonico, lo studioso teramano si adoperò per proporre
cambiamenti e miglioramenti all’amministrazione delle Doganelle e degli
Stucchi, scrivendo "memoriali" e formulando diverse proposte di legge
sino a quella definitiva dell’abolizione.
Per quanto riguarda l’amministrazione doganale
(3) legata all’esercizio della pastorizia, le istituzioni abruzzesi e in
specie quelle teramane presentano delle peculiarità. Con la creazione
sotto Alfonso d’Aragona della
dogana di
Foggia o Dohana menae
peducum Apuliae (1447), venne costituita in Abruzzo una locazione
particolare denominata Doganella d’Abruzzo, i cui pascoli chiamati "regi
stucchi" furono destinati alle pecore di razza pregiata dei proprietari
abruzzesi, a piccole greggi di pastori locali e alle greggi provenienti
dalla Marca pontificia che non potevano recarsi nel Tavoliere di Puglia
(4). La Doganella inizialmente fu amministrata da un luogotenente
subordinato al doganiere di Foggia; quindi, alla fine del secolo XVI, la
sua giurisdizione fu separata da quella di detto doganiere e conferita
ad un ufficiale, posto alle dipendenze della Camera della Sommaria, il
quale sotto Filippo IV da luogotenente prese il nome di Governatore
generale della doganella (o doganelle) d’Abruzzo (5). Il Governatore
generale ebbe la residenza in Chieti – come risulta ad esempio da
documenti del 1664 – ed erano subordinate al suo ufficio le tenenze,
come quella di Penne, rette da luogotenenti (6). Durante il regno di
Carlo III di Borbone, la Doganella fu ripartita tra il Governatore
generale residente in Chieti, cui rimase subordinata la tenenza di
Penne, e quello residente in L’Aquila, nominati nell’ambito dei
componenti delle rispettive Regie Udienze. Lo stato in cui venne a
trovarsi in quel periodo la Regia Udienza di Teramo - ridotta nel numero
dei suoi giudici, per avere alcune autorità municipali mostrato
benevolenza nei confronti dell’invasore, al tempo della guerra di
successione austriaca - non diede la possibilità di nominare anche per
questa provincia un Governatore generale (7). Tuttavia dalla
documentazione conservata risulta esistente in Teramo un foro doganale
competente nelle cause dei locati, cioè dei proprietari di greggi. Negli
atti giudiziari prodotti dal 1744 al 1787, questo tribunale viene
denominato con intitolazioni diverse, quali tenenza, corte o udienza
della doganella o delle doganelle, pur trattandosi del medesimo organo
giurisdizionale retto da un luogotenente o deputato. Quest’ultimo, con
dispaccio 15 agosto 1759, fu autorizzato, in via eccezionale rispetto
agli altri luogotenenti, a procedere anche nelle cause criminali senza
dipendere dal Governatore generale di Chieti, in quanto andava a
rivestire nel contempo le cariche di giudice di Vicaria e di assessore
della Regia Udienza (8). La doganella di Teramo – così può essere
identificato il tribunale – si avvicinava nella sostanza ad un vero e
proprio governatorato.
Ma solo nel 1787, con il ristabilimento di
tutti i giudici della Regia Udienza di Teramo, fu istituito il
Governatorato generale della doganella, retto da un magistrato nominato
dal sovrano (9) pur restando a Penne la luogotenenza. In periferia
operavano, come organi delegati, gli uffici straordinari della doganella
con a capo ufficiali doganali.
Altro foro esistente a Teramo, la cui
documentazione si presenta però lacunosa e limitata ad un arco di tempo
relativo alla seconda metà del secolo XVIII, era l’ufficio della Regia
dogana menae peducum Apuliae. Si tratta di un tribunale, delegato
da quello di Foggia, competente nelle cause di quei "locati" abruzzesi,
obbligati a portare le loro pecore nei pascoli del Tavoliere. Retto di
norma da un ufficiale, dopo il 1787, per le cause d’appello, veniva
designato a procedere dallo stesso tribunale di Foggia l’assessore o
l’avvocato fiscale della Regia Udienza di Teramo (10).
Il luogotenente nell’esercizio delle funzioni
era affiancato da scrivani, che avevano il compito di stilare i rapporti
ricevuti dal Governatore, da alcuni "algozini", incaricati di avvertire
i rei affinché si presentassero alle cause, e da "officiali di
residenza"o "cavallari straordinari", che avevano varie mansioni, quali
la difesa degli interessi dei "fidati" e l’amministrazione della
giustizia in cause civili per somme inferiori a trenta carlini, evitando
così agli stessi "fidati" l’onere di recarsi, in caso di controversie di
non elevato valore, presso la Regia dogana di Chieti.
Per far parte della Regia dogana di Teramo era
sufficiente, come per tutte le altre dogane, possedere almeno venti
pecore (oppure due animali grossi) e pagare la "fida". I "fidati"
avevano vari privilegi, sia di carattere giuridico - non potevano essere
citati, carcerati o giudicati da qualsiasi altra Corte – sia di
carattere economico con l’esenzione di varie gabelle, regie o baronali o
dell’Università, come quelle, ad esempio, della farina, del vino, della
carne (11). Questi privilegi si estesero anche ai familiari ed ai
servitori dei "fidati", come è affermato nel Regio dispaccio del 29
novembre 1757, inviato da Bernardo Tanucci al Presidente del sacro regio
Consiglio, in cui si legge:
[…] Avendo il Re risoluto per punto generale che li servitori, di
figli, fratelli, e di mogli o di altri parenti i quali non vivono
separati dal capo di casa, debbono essere conosciuti, nelle cause loro,
dal Foro cui è soggetto il capo di casa, che paga le mercedi di Real
ordine, lo partecipo S. V. Ill. ma, affinché disponga che il Consiglio
sappia questa sovrana deliberazione per suo governo (12).
Se all’inizio il Tribunale della doganella si
interessò esclusivamente delle controversie tra i "fidati" per cause
civili, in seguito estese eccezionalmente la sua competenza, come già
detto, alle cause penali nelle quali fosse coinvolto anche un solo
"fidato", venendo così a porsi in contrasto con la Regia Udienza
Provinciale che giudicava, per cause civili e penali, quelli non di
pertinenza della Regia dogana. Poiché i pastori che appartenevano al
Tribunale della doganella erano condannati, in caso di reati, a lievi
pene, si verificò che, in vista di cause con la Regia Udienza, i
contadini acquistassero il minimo di pecore o due animali grossi, per
divenire "fidati". Alcuni, poi, erano "fittizi", cioè pagavano la "fida"
senza possedere animali (13). Questo causò ingiustizie e disordini tanto
che si ritenne necessario, per una retta amministrazione della giustizia
e per rimuovere qualunque inconveniente, formare un foglio di istruzioni
per gli Ufficiali della Regia Dogana, confermando il privilegio del foro
ai soli "possessori " di pecore. Nelle cause su gabelle, tasse ed altre
questioni fiscali, tutti i sudditi della Dogana, i "locati" ordinari o
gli affittuari di terre salde (ossia quelle terre non lavorate ogni anno
e quindi le meno fertili), non godevano delle esenzioni del foro e
dovevano essere sottoposti alla giurisdizione ordinaria.
La Doganella d’Abruzzo era composta dalle
Poste d’Atri e dai Regi Stucchi. Le Poste d’Atri comprendevano una serie
di locazioni e stucchi, raggruppati per nome delle contrade e dei loro
proprietari ed ubicati nel territorio di Atri, mentre i Regi Stucchi
erano situati lungo la costa adriatica, nei luoghi più fertili e caldi
della provincia di Teramo (14). L’origine storica degli Stucchi è molto
incerta. Melchiorre Delfico così scrive:
[…] tutto quello che si sa di più antico intorno ad essi è che
diverse comunità ed alcuni baroni avevano il diritto di pascolo pubblico
promiscuamente coi Cittadini, sui territori aperti de’ particolari e che
poi lo cedettero alla Regia Corte per l’annuo canone o prestazione di
circa ducati tremila ciascuna per quella tangente che gli apparteneva
(15).
Per quanto riguarda le Università, esse
acquisirono tale diritto sui fondi dei proprietari per meglio utilizzare
e rendere di maggiore estensione quei pascoli che altrimenti, a causa
del frazionamento della proprietà, non sarebbe stato vantaggioso
sfruttare a pastura. Secondo il Delfico, le Università ottennero il
diritto di pascolo sulle private proprietà (cedendolo poi al fisco) con
il consenso degli stessi proprietari in cambio della possibilità di
poter utilizzare le acque dei fiumi, l’erba dei prati, "le legne morte"
e di poter godere del diritto di "uccellagione". E’ chiaro che, poiché
le terre soggette a stucco erano coltivabili, il diritto di pascolo non
poteva essere stabilito che negli intervalli di tempo necessari al loro
riposo e nei luoghi dove gli animali potevano pascolare senza causare
danni. Nella relazione
sugli stucchi inviata al Delfico dalla
Società Patriottica di Teramo è scritto:
[…] lo stucco è il diritto di pascolare le erbe invernali sui campi
secati e incolti, ne’ luoghi a queste servitù soggette, la libera
proprietà dei quali appartiene ai particolari possessori. Questo diritto
incomincia il dì 29 settembre e finisce del tutto il dì 8 maggio, quando
le greggi de’ locati sono obbligati di uscire dagli stucchi (16).
Il fisco, infatti, riscuoteva la
"fida" dopo l’8 maggio, perché a quella data i pastori avevano già
venduto alla fiera di Foggia lana, formaggio e agnelli ed erano, quindi,
in condizione di poter pagare; esso, inoltre, esercitava il diritto di
"non far rompere prima del 25 marzo", cioè di non far lavorare le terre
soggette a stucco: questa disposizione aveva valore soltanto per gli
stucchi aperti e non per quelli chiusi. Così esemplifica Melchiorre
Delfico:
[…] sono chiusi quelli che da noti rispettivi limiti vengono
circoscritti, nei quali i soli fidati possono pascere; aperti quelli che
non hanno una precisa e determinata circoscrizione, nei quali si pasce a
dente con i cittadini. Ne’ stucchi aperti possono dunque, e debbono di
necessità, pascere promiscuamente i Cittadini con i Locati, tanto per le
pecore della Doganella… e per tutti gli altri animali che non sono alla
dogana soggetti (17).
Negli stucchi potevano pascolare soltanto le
greggi composte da almeno cento pecore. Con il contratto d’affitto il
fisco ebbe il diritto di pascolo e impose ai proprietari di terre di non
piantare alberi, ledendo così il diritto di proprietà. Questa pretesa
era, infatti, come afferma il Delfico "lesiva alla giustizia e alla
ragione", in quanto non esisteva alcun contratto scritto che obbligasse
i proprietari a soggiacere alle richieste; per diritto di pascolo doveva
intendersi soltanto l’uso delle erbe durante il tempo necessario al
riposo delle terre. Sempre riguardo al divieto di piantagioni, vi furono
numerose richieste affinché esso fosse abolito o almeno escludesse
l’ulivo che, oltre ad essere prezioso per il frutto, avrebbe ristorato
le greggi "con le fronde" (18).
Il fisco non impedì solo le piantagioni, ma
anche la costruzione di case e la coltura della terra. Quest’ultimo
divieto, oltre a togliere un mezzo di sostentamento alle popolazioni,
impediva la semina e la raccolta del foraggio, causando così, in caso di
inverni particolarmente rigidi, la morte degli armenti. Tali restrizioni
provocarono, inoltre, lo spopolamento di zone che, per la loro bellezza
e fertilità, avrebbero potuto essere tra le più felici e ricche. Tutto
ciò causò il malcontento delle popolazioni, che arrivarono a chiedere
l’abolizione degli stucchi. Anche il Delfico, dopo varie proposte di
riforme e modifiche ne chiese l’abolizione con una memoria in cui espose
tutti gli aspetti negativi di quell’istituzione, che validamente
riconosciuti dal governo napoleonico presso il quale lo stesso Delfico
era Consigliere di Stato, ne determinarono l’abolizione.
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