Melchiorre Delfico |
|
di Gabriele Carletti
In L'Abruzzo nel Settecento, a cura
di Umberto Russo e Edoardo Tiboni,
Pescara, EDIARS, 2000, pp. 647-676 |
|
Il teramano
Melchiorre Delfico (1744-1835) è uno dei più cosmopoliti e al tempo
stesso dei più autenticamente provinciali tra i riformatori meridionali
della seconda metà del Settecento (1). Durante il suo primo soggiorno a
Napoli, interrotto dopo tredici anni nel 1768 perché malato di emottisi,
il giovane intellettuale abruzzese segue le lezioni di Antonio Genovesi
e frequenta il gruppo che si riunisce attorno alla cattedra dell'abate
(2), che dal 1754 al 1769 costituisce il fulcro del movimento
riformatore meridionale. Sarà questa scuola composta da Longano,
Galanti, Palmieri, Grimaldi, Filangieri, Pagano ed altri, ad
imprimere una
«benefica scossa»
(3) alla cultura napoletana e avviare negli anni successivi un serrato e
articolato dibattito sui problemi più urgenti del Regno, suggerendo le
linee di un possibile rinnovamento della società civile che non di rado
contrasteranno con l'angusta politica del governo borbonico (4).
È soprattutto
dalla rilettura del genovesiano Discorso sopra il vero fine delle
lettere e delle scienze (5), considerato il manifesto
dell'illuminismo napoletano, in cui viene rivendicato un uso pratico del
sapere, che Delfico matura una nuova concezione della cultura e
dell'intellettuale, la cui attività sia, come diceva Genovesi, «più
pratica che teoria»
(6), e la
convinzione della necessità di un impegno politico più diretto. Un
atteggiamento anticuriale e giurisdizionalistico, di ascendenza
giannoniana (7)
e di eredità genovesiana
(8),
egli manifesta nei due lavori, con i quali inaugura nel 1768 la sua
attività di scrittore, in difesa dei diritti del Regno di Napoli sui
territori di Benevento, dal 1077 sotto il dominio pontificio, e di
Ascoli Piceno, anch'esso dal 1266 annesso allo Stato ecclesiastico
(9).
Nelle due Memorie denuncia le tendenze temporali dell'autorità
ecclesiastica, dimostrando «false o insussistenti» le pretese
giurisdizionali del pontefice su quei possedimenti, ottenuti non già per
legittimi diritti di sovranità, ma con l'usurpazione, titolo
«vergognoso» perché «prodotto per dolo o per frode»
(10).
Sebbene notevole sia stata l'influenza di Genovesi sul movimento
illuminista meridionale, non tutte le molteplici espressioni della
cultura riformistica degli anni Settanta e Ottanta possono essere
ricondotte alla sola riflessione del pensatore salernitano. Anche per i
rappresentanti della corrente «più provinciale», «più tecnica e
descrittiva»(11)
della
scuola genovesiana, l'insegnamento del Maestro non sempre costituirà
l'unica matrice culturale. Lo stesso Delfico, sebbene riconosca il suo
debito nei confronti dell'abate, non trova in lui il pensatore che la
«propria ragione gli faceva desiderare»
(12), bensì il
pubblicista che ricerca e analizza i mali economici e sociali della sua
terra. «La fortuna però - scriverà più tardi - avendomi fatto pervenir
nelle mani le immortali opere di Loke [sic] e di Condillac, parve
che il mio spirito prendesse una nuova modificazione, e quindi una
inclinazione pel vero, ed un gusto particolare per i morali sentimenti»
(13).
Già nel Saggio filosofico sul matrimonio, apparso a Teramo nel
1774, alcuni anni dopo il suo ritorno in provincia, s'intravede
l'orientamento filosofico dello scrittore abruzzese basato su una
visione tutta empiristica e sensistica dei rapporti umani, che indurrà
la Congregazione del Sant'Uffizio a porre l'opuscolo nell'Index
librorum prohibitorum il 19 gennaio 1776. L'opera è una vera e
propria esaltazione sia dello stato coniugale che dell'amore, inteso
come desiderio, come piacere fisico ma soprattutto morale. In polemica
con Rousseau, Delfico considera il vincolo matrimoniale una fonte
continua «di sensazioni e di sentimenti aggradevoli» (14) e sostiene,
richiamandosi a Hume, che esso debba essere il più possibile completo e
duraturo. La critica del celibato e più ancora del libertinaggio è
l'occasione per un'attenta disamina della condizione della donna, di cui
sostiene l'emancipazione e la rivalutazione nella famiglia e nella
società, fino a rivendicare una legislazione sulla parità dei diritti e
dei doveri fra i sessi.
Del 1775 sono gli Indizi di morale, interrotti per ordine
dell'assessore Pietro Paolillo che ne dispone il sequestro mentre sono
ancora in corso di stampa, i quali «svelano assai più a fondo e
gl'ideali politici del Delfico e la sua cultura» (15). Sul piano
filosofico infatti essi segnano una piena adesione all'empirismo e al
sensismo di Locke e Condillac. Dalle idee filosofiche dei due pensatori
il Teramano non si discosterà più, restando sino alla fine legato alla
dottrina sensistica. Confesserà molti anni dopo ad un amico: «Dopoché il
mio spirito soffrì la modificazione dal Trattato delle sensazioni,
non l'ho turbato più perché mi vi sono trovato comodo, non trascurando
però le successive osservazioni le quali hanno potuto migliorarlo» (16).
Egli riconosce alla morale il fondamento empirico proprio delle scienze
fisiche e riconduce l'origine dei sentimenti morali alle sensazioni.
Poiché è nella società che gli uomini acquisiscono le prime nozioni di
moralità e le loro azioni diventano utili o dannose, ne consegue che la
sfera delle loro idee e con essa quella delle loro attività si dilatano
soprattutto in quelle forme politiche in cui maggiormente cresce la
possibilità di comprensione della qualità degli oggetti e gli individui
sono messi nelle condizioni che meglio permettono la individuazione
dell'amor proprio. «È nel passaggio dall'Aristocrazia allo stato
popolare», scrive, che «le nazioni godono del colmo della virtù» e
«nasce quella gara di Eroismo che è difficile a trovarsi nelle
Monarchie» e che si verifica ogni qualvolta «l'interesse di tutti i
particolari va a riunirsi col pubblico»(17) e i cittadini partecipano
maggiormente alla sovranità e al potere.
L'affermazione non si concreta in una scelta della democrazia come forma
di governo, né in una rivendicazione di ordinamenti politici alternativi
a quelli in cui si incarna la monarchia borbonica. L'allusione alla
repubblica resta in lui vaga, sottintesa e comunque priva di un reale
contenuto politico-istituzionale, mentre egli non nasconde la propria
simpatia per il despotisme éclairé (18). Vi è, da parte sua, una
svalutazione della politica in quanto problema teorico, a favore di un
impegno politico più immediatamente finalizzato alla soluzione di
questioni politiche contingenti. Suo obiettivo principale è il
perseguimento del bene pubblico, realizzato attraverso un'avveduta e
coraggiosa politica di riforme. Un processo di trasformazione che miri
innanzitutto all'uguaglianza politica e che non ha niente a che vedere
con la «fatale» comunione dei beni, fomite di disordini e di eterne
contese. Il problema dell'uguaglianza, di cui le garanzie politiche
costituiscono una imprescindibile componente, consente a Delfico di
condurre a fondo l'attacco contro la struttura feudale della società
napoletana, in cui ancora assai diffusa e radicata è l'ineguaglianza sia
essa generata dall'abuso del potere che da quello delle ricchezze.
«Conosciuti i mali che provengono dall'ineguaglianza - afferma a
conclusione del capitolo sulla proprietà - deve essere un canone
politico quello di ravvicinare gli estremi, e non dar luogo ad altre
ricompense che a quelle del merito personale e dell'industria»
(19). Al contrario, il persistere dell'ineguaglianza non fa che produrre
«lusso e corruzione» ed aggravare la già precaria condizione dei più
miserevoli, privati della loro stessa dignità perché costretti a
mercanteggiare persino «la vita, l'onore, la stima, la virtù, ed i più
sacrosanti doveri» (20).
Dopo il sequestro
degli Indizi di morale e la messa all'«Indice» del Saggio
filosofico, Delfico incorre in un nuovo spiacevole episodio con le
autorità provinciali. Soprattutto a causa del vescovo Pirelli e
dell'assessore Giacinto Dragonetti, con cui pure aveva avuto rapporti di
amicizia, è ingiustamente inquisito e condannato per la fuga di certe
monache dal monastero di S. Matteo di Teramo (21).
L'exequatur del Tribunale del capoluogo abruzzese (5 febbraio
1778) con il conseguente ordine di carcerazione, emesso nei confronti
suoi e di altri «lajci seduttori» (22)
presunti responsabili dell'insubordinazione, lo costringono ad
allontanarsi dalla città e a recarsi a Napoli, dove rimarrà circa tre
anni, fino alla conclusione della vicenda giudiziaria, giunta con
l'indulto regio del 17 giugno 1780.
Questo secondo
soggiorno partenopeo, avvenuto a dieci anni di distanza dalla fine del
primo, si rivela assai fecondo per lo scrittore teramano che ha
l'occasione di rinsaldare i legami con gli ambienti riformatori della
capitale e stringere rapporti con vari esponenti della cultura, quali
tra gli altri i fratelli Di Gennaro e Grimaldi, Filangieri, Pagano,
Torcia e Fortis. È anche il periodo in cui egli matura l'idea che la
provincia possa imprimere, attraverso la denuncia dei mali prodotti dal
sistema feudale, un nuovo e maggiore impulso alla politica governativa
ed avverte la necessità di una ridefinizione del rapporto tra capitale e
province, tra i centri periferici più sani e dinamici e quella Napoli
corrotta ed inerte dalla quale tutti attendono una politica di riforme.
Ritornato a
Teramo, Delfico pubblica nel 1782 il Discorso sullo stabilimento
della milizia provinciale, che gli varrà, l'anno successivo (20
giugno 1783), la nomina ad Assessore militare della sua provincia. Lo
scritto, dedicato all'amico Filangieri, inaugura un'intensa stagione che
vede l'illuminista abruzzese farsi promotore di numerose riforme. Nel
Discorso la questione militare acquista rilevanza politica, avendo
intuito l'Autore l'importanza che una buona costituzione militare poteva
assumere per la vita di uno Stato. Criticando lo «spirito di corpo» dei
militari, quel «sentimento dissociale» che li porta a disprezzare la
vita civile e che fa di loro una classe di privilegiati distinta dal
corpo sociale, egli mira a riqualificare il ruolo del soldato
all'interno della società, non soltanto in tema di sicurezza, ma anche,
soprattutto, di progresso civile, riunendo, sull'esempio di Rousseau, la
qualità di soldato a quella di cittadino (23),
così che i due termini diventino sinonimi fra loro.
Ad alimentare la
fiducia nei primi anni Ottanta che si potesse realizzare sul piano
legislativo e amministrativo quanto si veniva sostenendo su quello
dottrinario, contribuirono sia la istituzione della Reale Accademia di
Scienze e Belle Lettere (che però tradì presto le attese suscitate) che
quella del Supremo Consiglio delle Finanze. Sorto nel 1782, il Consiglio
si prefiggeva di riformare gli antichi e perniciosi abusi del sistema e
di restituire l'abbattuto vigore alla Nazione promuovendo i canali della
ricchezza dei sudditi e dello Stato. Ad esso Delfico vorrebbe sottoporre
la sua Memoria sulla coltivazione del riso nella provincia di Teramo,
pubblicata a Napoli nel 1783. Considerato «forse il più limpido e
ragionato» (24)
dei numerosi suoi scritti economici di quegli anni, il testo è una dura
requisitoria contro il persistere di pesanti imposizioni feudali e di
certi abusi economici e politici, responsabili di mantenere tale
coltivazione in uno stato di sottosviluppo (25).
La risposta delficina è in favore di un ammodernamento della tecnica di
produzione e della rimozione di tutti gli ostacoli, compresi i controlli
e le restrizioni governative, che impediscono la realizzazione di
un'economia di mercato.
Nell'estate
dell'83 Delfico è di nuovo a Napoli, dove si fermerà fino alla fine
dell'anno. Ma non sarà questa una permanenza piacevole. All'entusiasmo
iniziale, infatti, subentrerà presto un sentimento di profonda amarezza
per l'andamento della vita politica della capitale. Egli prende
coscienza della incapacità dello Stato di dar vita ad un programma
organico di risanamento dell'economia del Paese, messa di nuovo a dura
prova dal terribile terremoto calabrese della primavera del 1783. La
condotta della corte borbonica gli appare quanto mai improvvisata e
piena di incertezze e di contraddizioni.
Ritornato a Teramo
è raggiunto, nel febbraio del 1784, dalla notizia della scomparsa
dell'amico Francescantonio Grimaldi, cui dedica, come ultimo tributo, un
Elogio (26)
che ne rievoca il pensiero e il valore. Dopo un rapido excursus
delle opere giovanili (27),
lo scrittore abruzzese si sofferma sulle Riflessioni sopra
l'ineguaglianza tra gli uomini, pubblicate a Napoli in tre volumi
tra il 1779 e il 1780. In esse l'Autore confuta le tesi roussoiane
sull'uguaglianza tra gli uomini, correggendo quei «paradossi», scrive
Delfico, che «fra molte vere e nobili osservazioni» (28)
sono racchiusi nel Discours sur l'origine de l'inégalité.
Contrariamente al Ginevrino, che ritiene l'ineguaglianza essere «presque
nulle dans l'Etat de Nature» (29),
Grimaldi ne afferma il principio dell'origine naturale, smentendo quanti
sostenevano che gli uomini nascono eguali. Una particolare attenzione
rivolge infine all'ultimo incompiuto lavoro di Grimaldi, gli Annali
del Regno di Napoli. Sin da ora emerge chiara in lui l'idea di una
storia non più concepita come piacevole passatempo per «gli oziosi e gli
annojati», ma in funzione «d'un utile presente» (30)
per l'umanità e, in particolare, per la nazione per la quale si scrive.
Ciò che interessa non è più il nudo racconto di fatti isolati o di
particolarità legate a circostanze del momento, bensì la conoscenza
delle cause che stanno dietro i fenomeni e la vita morale delle nazioni.
Alla fine
di giugno del 1785 Delfico si trasferisce di nuovo a Napoli, dove si
trattiene, salvo una breve parentesi nella città natale nell'estate
dell'86, fino alla metà del 1788. Risale a questo periodo l'incontro con
il danese, di origine tedesca, Friedrich Münter, venuto in Italia
nell'autunno del 1784 con l'incarico di propagandare l'Ordine degli
Illuminati di Baviera (31).
A Münter, con il quale visiterà assieme a Filangieri e allo storico
tedesco Heeren le rovine di Pestum, egli si legherà da profonda
amicizia, di cui è testimonianza una corrispondenza più che trentennale
(32),
accomunati dalla passione per l'archeologia e, soprattutto, per la
numismatica.
A Napoli Delfico
pubblica nel 1785 la Memoria sul Tribunal della Grascia
(33),
considerata, assieme a pochi altri testi, «il vangelo del liberismo
napoletano»
(34)
dell'epoca. Lo scritto sferra un attacco contro il «terribile mostro»
del Tribunale della Grascia, istituito lungo il confine tra l'Abruzzo e
lo Stato pontificio e simile per alcuni versi a quello «più odioso
dell'inquisizione», che impedisce ai due Stati pacifici di scambiarsi
liberamente i prodotti, fomentando dovunque corruzione e violenza e
lasciando quelle popolazioni in «un languore di dissoluzione»
(35). Vi è
nella Memoria l'affermazione del principio della libertà di
commercio e dell'abolizione del sistema protezionistico, a proposito del
quale vengono fatti i nomi di Verri, Genovesi, Filangieri e del celebre
Smith, di cui il Teramano è uno dei primi in Italia a citare La
ricchezza delle nazioni.
Nel 1788 vede la
luce il Discorso sul Tavoliere di Puglia
(36) in cui
Delfico rivendica, dopo un'aspra requisitoria contro le concentrazioni
latifondiste e il mantenimento delle rendite, la divisione di quelle
terre in favore dei contadini e un diverso ruolo dell'agricoltura, non
più limitata e subordinata alla pastorizia. In un Paese così
«infelicemente» amministrato, dove regna una troppo marcata
diseguaglianza e una «ripugnante ed infelice» contrapposizione tra
ricchi e poveri, l'aumento dei proprietari è un obiettivo che risponde
non soltanto a criteri di giustizia sociale, ma anche ad una necessità
dello Stato. Tutti «i più savj governi - scrive - distinsero sempre la
classe dei proprietarj, come quella che dava il vero carattere di
cittadino»
(37). La
proprietà infatti è il primo e più saldo principio della società, poiché
crea nei proprietari «sempre affezione» nei confronti dello Stato, a cui
essi chiedono di riconoscere e tutelare i loro diritti, interessati come
sono, più di ogni altra classe, al buon funzionamento delle sue
istituzioni e alla corretta applicazione delle sue leggi. Della parte
settentrionale della Puglia l'illuminista abruzzese si era occupato una
prima volta nel 1784 nella pur breve ma incisiva ricognizione
geografico-economica del tratto costiero «desolato» che va dal Fortore
al Tronto
(38), in
cui denunciava le gravi «avarie» commesse dai governanti con la
creazione di continue dogane che, ostacolando il libero scambio dei
prodotti tra quelle popolazioni, finiva per immiserirle sempre più.
Si coglie in
questi scritti non soltanto la totale adesione di Delfico al liberismo,
ma anche la sua piena consapevolezza del ruolo che lo Stato è chiamato a
svolgere in favore di un sistema economico imperniato sulla libertà di
scambio. Un rapporto, quello tra Stato ed economia di mercato, che egli
affronta anche nella Memoria sulla libertà di commercio della
fine degli anni Ottanta
(39), in
cui esalta il principio del laissez-faire contro le
regolamentazioni e i vincoli del sistema mercantile. Il rifiuto di «ogni
coazione economica» si fonda sulla convinzione che la libertà (di
produzione, di consumo, di commercio, di concorrenza) favorisca un
progresso e uno sviluppo economico tali da recare benefici sia ai
privati cittadini che allo Stato stesso. È solo attraverso la rimozione
di tutti i controlli governativi che ostacolano l'allargamento del
mercato e impediscono che le attività economiche si svolgano nei modi
loro naturali che la scienza economica riesce a far fronte al suo
duplice compito di mantenimento dello Stato e di accrescimento della
ricchezza e del benessere individuali.
In quest'ultimo
soggiorno napoletano prima dello scoppio della rivoluzione francese,
Delfico si attiva non poco, presso le Segreterie della capitale, per
sollecitare iniziative e soluzioni di problemi riguardanti le provincie
del Regno. Ma le sue istanze non sempre trovano il riscontro desiderato
(40). Ciò
non fa che accrescere in lui un sentimento di sfiducia nell'azione
riformatrice del governo. Un'insofferenza, quella nei confronti del
potere politico partenopeo, che lo porterà nell'estate del 1788 ad
allontanarsi da un ambiente dove gli era diventato penoso vivere, non
prima però di aver presentato a Ferdinando IV il suo ultimo lavoro,
Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri
(41). Nello
scritto condanna la giurisdizione feudale in nome dei principi
roussoiani di indivisibilità e inalienabilità della sovranità fino a
ritenere qualsiasi forma di alienazione o di usurpazione della sovranità
stessa «non solo un atto nullo, ma anche ingiusto»
(42).
La notizia della
rivoluzione francese raggiunge Delfico lontano dal Regno napoletano,
mentre si trova nel Nord Italia, dove si era recato nel novembre del
1788 per accompagnare a Pavia il nipote Orazio che studiava Scienze
naturali sotto la guida di Volta e Spallanzani. Durante il suo soggiorno
ha modo di frequentare gli ambienti riformatori milanesi ed entrare in
contatto con Beccaria, il filosofo e pedagogista Francesco Soave, i
fratelli Verri, Parini, il giurista senese Giovanni Bonaventura
Spannocchi, lo studioso di scienze agrarie ed economiche Carlo Amoretti
ed altri ancora, con alcuni dei quali manterrà un rapporto di amicizia.
Sugli avvenimenti francesi non gli è difficile tenersi informato. È
lecito credere anzi che, oltre a seguire, egli guardi con simpatia a
quanto sta accadendo oltralpe. La rapidità e la determinazione con cui
si conduce l'attacco contro l'Ancien Régime lo spingono a
ritenere che la rivoluzione di Francia favorisca il progetto riformatore
e rappresenti «un esempio favorevole per i Principi savj»
(43)
affinché non indugino più sulla strada delle riforme.
Rianimato da
queste speranze, nel dicembre del 1789, dopo aver fatto da poco ritorno
nella sua città natale
(44),
Delfico si trasferisce a Napoli, dove dà alle stampe, nell'estate del
1790, le Riflessioni su la vendita dei feudi
(45) in
cui, ispirandosi al dibattito costituzionale d'oltralpe, conduce un
attacco più diretto ed esplicito contro il sistema feudale e la
giurisdizione baronale in particolare. Nel 1791 pubblica le Ricerche
sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori
(46), che
rappresentano «la più forte manifestazione del pensiero illuministico
italiano nei confronti del diritto romano»
(47), cui
viene negato ogni valore. Ad emergere è l'idea di un sistema legislativo
nuovo, «uguale ed uniforme per tutti gl'individui» che, a differenza di
quello vigente, troppo legato alla tradizione romana, risulti più
inerente «all'indole delle nazioni e dei governi presenti»
(48).
Sull'esempio di quanto accade in Francia, lo scrittore abruzzese
rivendica, accanto ad una legislazione stabile e regolare, una legittima
costituzione che ne sia il presupposto e ne costituisca il necessario
fondamento. Il sistema politico che egli predilige si fonda
sull'uguaglianza delle leggi, sulla divisione dei poteri, sul
conferimento dell'autorità legislativa al popolo, sulla rappresentanza
politica senza restrizioni di rango o di censo e sul decentramento
dell'amministrazione della giustizia attraverso lo stabilimento di
magistrature locali e provinciali.
Da una soluzione
di tipo monarchico-costituzionale Delfico non si allontanerà mai. Alla
politica illuminata del sovrano restano per lui legate le condizioni di
cambiamento della società meridionale. Nonostante tuttavia la sua
predilezione per la monarchia, a partire dalla seconda metà del 1791 si
ravvisa nel Teramano un conflitto tra l'ottimismo generato dalle vicende
francesi, che lo spinge a credere ancora nell'intesa tra dinastia
borbonica e intellettuali, e il crescente scetticismo nei confronti
della volontà governativa di attuare un programma di rinnovamento.
Deluso, decide di abbandonare la capitale dove si sorprende sempre più
spesso «scontentissimo».
Il
rientro a Teramo, nel dicembre del 1791, segna la fine di un periodo di
grande impegno politico e letterario, al termine del quale egli vede
svanire la possibilità che la rivoluzione francese imprima un nuovo
impulso alla politica del governo napoletano. È, questo, un periodo di
grande sconcerto e delusione per quanti, come Delfico, avvertono i
limiti della politica ferdinandea. Alla fine del 1793 la consapevolezza
che la grande stagione riformistica sia definitivamente conclusa è
radicata nel suo animo. Essa segna l'inizio di una lunga interruzione
della sua attività di scrittore, a conferma di come egli ritenesse
allora non solo vano ma addirittura pericoloso farsi sostenitore di una
politica di rinnovamento del Regno borbonico. La sfiducia diverrà
pressoché totale durante il soggiorno nella capitale partenopea tra la
primavera e l'autunno 1794. A Napoli s'imbatte in una città in preda
alla più forte «agitazione». È l'epoca della scoperta della congiura
giacobina che porta all'arresto e alla condanna di numerosi patrioti ed
esponenti giacobini. Coinvolto è pure l'amico e concittadino Troiano
Odazi
(49) che
egli considera innocente e spera invano venga presto scagionato.
L'accentuarsi del
carattere reazionario della politica napoletana non determina tuttavia
in Delfico, come in altri illuministi, il passaggio «da regalista in
giacobino»
(50) o
repubblicano, anche perché egli, a differenza di molti di loro, non vede
più nella Francia del '93-'94 concretarsi i suoi ideali riformistici.
L'avversione per gli eccessi rivoluzionari lo porta ad anticipare un
modulo storiografico che avrà fortuna negli anni successivi: la
contrapposizione tra una prima fase della rivoluzione, l'89, con le sue
idee di libertà e di uguaglianza, ed una fase successiva, il '93,
caratterizzata da «tanti orrori».
Alla fine di
ottobre del 1795 Delfico lascia di nuovo l'Abruzzo per compiere un
secondo viaggio fuori del Regno, dapprima a Roma, restandovi per circa
un mese, quindi in Toscana dove rimane fino alla primavera successiva ed
ha modo di rivedere gli amici Giovanni Fantoni e Giuseppe Micali e
legarsi al nobile fiorentino Neri Corsini e all'uomo di Stato francese
André-François Miot
(51). A
spingerlo verso il Granducato è una certa simpatia politica per quello
Stato, suscitata dalla mitezza del suo governo e dalla libertà che
ancora vi regnava. Ritornato a Teramo agli inizi di maggio del 1796, lo
raggiungono le notizie dell'avanzata francese in Piemonte e in
Lombardia. Nessun dubbio nutre sulle mire espansionistiche di Napoleone,
di cui disapprova non solo le condizioni gravose imposte alle città
occupate, ma anche le innumerevoli requisizioni, ruberie e saccheggi dei
suoi soldati.
Nella seconda metà
del 1796 si riaccende nello scrittore teramano l'interesse per la
Grande Nation, in quanto vede delinearsi nella vita politica del
Direttorio la possibilità per la Francia di riprendere e consolidare
quel processo di trasformazione avviato negli anni precedenti la
parentesi giacobina; interesse che si manifesta anche attraverso il
desiderio, mai realizzato, di compiere un viaggio transalpino
(52). Ciò
nonostante, appare poco probabile una sua partecipazione al concorso
indetto dall'Amministrazione generale della Lombardia il 6 vendemmiaio
anno V della Repubblica francese (27 settembre 1796) sul quesito
Quale dei Governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia, di
cui risulterà vincitore il piacentino Melchiorre Gioia
(53).
Immutato è invece
il giudizio sulla corte napoletana. Nonostante infatti nel corso del '97
egli accenni ad una ripresa di dialogo con il governo borbonico
(54), non
scorge alcun cambiamento nella sua politica. Sempre più, inoltre, dovrà
guardarsi dalla gelosia dei suoi nemici, soprattutto nel 1798,
quando verrà nominato portolano della città di Teramo, con
responsabilità amministrative di rilievo. La situazione si aggraverà
nell'estate di quell'anno, allorché alle trepidazioni per una probabile
invasione straniera si uniranno quelle per il susseguirsi di infondate
accuse di giacobinismo costruite ai suoi danni da parte di anonimi
concittadini. Già nel 1793 era stato costretto a dare formale prova del
suo lealismo monarchico in seguito a delazioni da parte di alcuni
«malevoli di Napoli fra quali il Vescovo in unione colla magistratura»
(55).
Sempre più si alimenta il sospetto di una sua cospirazione
antimonarchica, tanto che il 27 settembre 1798 è tratto in arresto, nel
proprio palazzo, assieme a tutta la famiglia
(56).
Liberato l'11 dicembre successivo dall'arrivo a Teramo delle truppe
francesi
(57), è
dapprima posto a capo della Municipalità della città e successivamente
nominato presidente dell'Amministrazione Centrale dell'Alto Abruzzo. Il
12 gennaio 1799 è chiamato a presiedere a Pescara il Supremo Consiglio
(58),
l'organo politico più importante esistente in Abruzzo, che avrebbe
dovuto fungere da raccordo tra il comando francese e i due nuovi
organismi repubblicani - i Dipartimenti dell'Alto e del Basso Abruzzo -
in cui il generale Duhesme, con il proclama del 28 dicembre 1798, aveva
diviso il territorio regionale.
Non vi è dubbio
che la collaborazione di Delfico con i Francesi, per quanto piena e
convinta, vada vista come il tentativo di reinserirsi nel giro di quella
politica attiva, nella quale egli da sempre confida. Tale
partecipazione, tuttavia, non segna il passaggio dello scrittore
teramano dalla prospettiva monarchico-riformistica a quella
repubblicano-giacobina
(59), dal
momento che l'esperienza non provoca quella vera e propria «lacerazione»
e «rottura» nella sua biografia intellettuale che è stata riscontrata
invece nei riformisti meridionali passati alla rivoluzione
(60).
Tensioni ideali e finalità pratiche continuano ad essere, anche durante
la parentesi repubblicana, le stesse che lo hanno animato in tante
battaglie del passato. Persino il Piano di una amministrazione
provvisoria di giustizia pei Tribunali dei Dipartimenti e Giudici dei
Cantoni
(61) del 24
piovoso anno VII (12 febbraio 1799), l'atto legislativo più importante
del Consiglio Supremo pescarese col quale viene introdotto un nuovo
ordinamento giudiziario e in cui maggiore è l'istanza egualitaria, non
sembra discostarsi da certi suoi principi e aspirazioni precedentemente
espressi. Il Piano, che si inserisce fra i provvedimenti di
riforma del sistema giudiziario adottati dalla Repubblica napoletana,
sanciva, in nome delle idee di libertà e di eguaglianza, il
decentramento dell'autorità giudiziaria, prevedendo un giudice per ogni
capoluogo di cantone e un tribunale per ogni capoluogo di dipartimento;
l'amministrazione gratuita della giustizia e la corresponsione di uno
stipendio ai giudici e a tutti coloro che collaboravano all'attività
giudiziaria; l'assistenza gratuita ai poveri; la «prontezza» e
«l'imparzialità» dei giudici nell'applicazione delle norme; l'abolizione
della carcerazione per debiti, a meno che non venisse provata la «frode»
del debitore; il controllo dell'attività giudiziaria nonché la
possibilità di ricorrere in appello.
Volentieri egli si
sarebbe portato nella capitale partenopea dove, il 23 gennaio 1799, era
stato nominato membro del Governo Provvisorio dal comandante in capo
Championnet. Ma a Napoli Delfico non potrà recarsi mai a causa delle
insorgenze antifrancesi. Di qui il rammarico per non poter partecipare
all'attività legislativa del Governo Provvisorio a cui muove l'accusa di
aver non solo «abbandonato» ma addirittura «obliato» le province
abruzzesi, lasciando che ovunque si verificassero «le più ferali
tragedie» ad opera di briganti e di scorribande antifrancesi
(62). Non è
da escludere a questo punto che proprio durante il periodo pescarese
Delfico abbia elaborato, secondo una prassi piuttosto diffusa in Italia
nel triennio rivoluzionario, una Tavola dei Dritti e dei Doveri
dell'uomo e del Cittadino
(63). Il
testo, che si ispira alle Dichiarazioni francesi dei diritti del
1789, del 1793 e del 1795, proclama l'uguaglianza davanti alla legge;
riconosce i diritti inalienabili di libertà, sicurezza, proprietà,
resistenza all'oppressione e i doveri inviolabili di subordinazione,
benevolenza, giustizia e obbedienza alle leggi. Fa risiedere la
sovranità nella Nazione, cui spetta, attraverso i suoi rappresentanti,
emanare le leggi, stabilire le imposizioni, cambiare la costituzione e
il governo. Ammette la possibilità di armarsi contro ogni forma di
manifesta violenza e di tirannia e non esclude il ricorso
all'insurrezione, ma solo in casi estremi, mentre condanna le rivolte e
i perturbatori dell'ordine pubblico, per odio forse delle sommosse che
si stavano verificando agli inizi del '99 e di quanti sobillavano le
masse contro le nuove istituzioni.
Il 28 aprile 1799,
di fronte al crescente stato di abbandono delle province abruzzesi e
alla partenza dei Francesi da Teramo, Delfico preferisce, prima ancora
della caduta della Repubblica napoletana, lasciare Pescara e sotto il
falso nome di Carlo Cauti riparare via mare nelle Marche, per poi
raggiungere nel settembre successivo San Marino
(64). Nella
piccola Repubblica rimarrà fino al 1806, quando Giuseppe Bonaparte,
divenuto re di Napoli, in giugno lo chiamerà al suo fianco con la carica
di consigliere di Stato.
Durante il
soggiorno sammarinese Delfico si interrogherà a lungo sulla «tempestosa
crisi» di fine secolo di cui, come Cuoco
(65),
critica l'«immatura ed intempestiva» manifestazione, come pure il metodo
rivoluzionario, ritenuto «distruttivo»
(66). La
confusione dei princìpi, l'eccesso di passioni assieme a mal fondati
calcoli avevano fatto nascere delle idee politiche così «mostruose» che
per i loro intrinseci difetti non avevano potuto a lungo sopravvivere.
Fu la Francia, afferma, a far sorgere dei canoni politici «falsi e
irregolari». L'Italia, «abbagliata ed attonita - scrive - non ebbe tempo
a riflettere, che le confuse proclamazioni di libertà, benché le
provenissero da quella nazione che aveva prodotti i più grandi filosofi
politici del secolo, Montesquieu, Rousseau, Sieyès, pure non aveva mai
essa veduta la libertà in propria casa, mai ne aveva avuta la pratica né
la finezza del senso e il gusto per conoscerla, così non poteva avere le
forze intellettuali e le qualità morali per effettuare una tale
palingenesia»
(67).
Dal
ripensamento della vicenda rivoluzionaria Delfico trae l'indicazione
della necessità di un recupero della tradizione storica nazionale: «Se
si fosse consultata la storia d'Italia con qualche diligenza, si sarebbe
trovato, che lo spirito di ragione e di moderazione fece dell'Italia il
soggiorno o la sede della libertà nei secoli più remoti»
(68). A
questo senso di moderazione l'Italia deve continuamente richiamarsi e
gli eventi recenti ed i fatti antichi devono persuaderla, che non vi è
altro mezzo alla sua tranquillità e alla sua felicità. La critica
delficina dell'esperienza rivoluzionaria si risolve, in definitiva,
nella ricerca di una linea politica saggia e realistica che non miri
alle magiche trasformazioni ma proceda per «proporzionate graduazioni»
alla realizzazione di un programma costituzionale a cui è lecito
aspirare. Tutta l'attenzione è rivolta alla individuazione di modi
civili più adatti e convenienti all'umana convivenza i quali, più che
nelle forme politiche stereotipe, egli ritiene realizzabili, riprendendo
una definizione vichiana, nei governi umani, di cui proprio il
piccolo Stato di San Marino, nonostante il suo processo di incivilimento
avesse subìto arresti ed involuzioni, rappresentava un modello politico
reale che, in modo non utopistico, «mostrava non essere impossibile alla
specie umana una tal forma di società»
(69).
Dalla piccola
Repubblica Delfico uscirà diverse volte per riordinare la biblioteca
pubblica della vicina Rimini, dove trascorrerà alcuni mesi nella casa
del marchese Giovanni Maria Belmonte, la cui amicizia risaliva al 1784,
o per andare a Bologna dal suo amico Alberto Fortis, in quel tempo
prefetto della biblioteca nazionale della città. Da gennaio ad aprile
del 1803 soggiornerà ad Ascoli Piceno dal fratello Giamberardino. Nel
1804 si porterà a Milano per seguire la stampa del suo libro sulla
storia di San Marino. Nel capoluogo lombardo, dove sarà l'ispiratore
della ristampa dei Principj della legislazione universale di
Georg Ludwig Schmidt d'Avenstein, rivedrà Vincenzo Cuoco e stringerà
nuove amicizie, tra cui quelle con Giuseppe Bossi, Pietro Custodi e
Francesco Saverio Salfi. Ma, soprattutto, si legherà a Gian Giacomo
Trivulzio, a Leopoldo Cicognara, grazie al quale entrerà in contatto con
il celebre scultore Antonio Canova, e a sua moglie Massimiliana Cislago,
donna assai colta e amica di Melchiorre Cesarotti, con il quale resterà,
come con gli altri, in corrispondenza. Infine, dall'autunno all'inverno
di quello stesso anno si fermerà di nuovo ad Ascoli, da suo fratello.
È, quello
sammarinese, un periodo in cui Delfico, fuori dalla vita politica
attiva, riprende gli studi e pubblica le Memorie storiche della
Repubblica di S. Marino e l'opera sua più famosa, Pensieri su
l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima che, usciti
a Forlì nel 1808, vedono in poco tempo altre due edizioni
(70). Lo
studio della storia in stretta relazione con la realtà presente, già
ricorrente negli scritti giovanili, trova nelle Memorie storiche
diretta applicazione. Nonostante, infatti, l'Autore dichiari, nelle
battute iniziali della prefazione, di non essere nell'opinione di coloro
i quali riguardano la storia come «maestra della vita e dispensatrice
della civile sapienza»
(71), in
realtà poi egli, attraverso una ricerca diligente e vasta, scrive una
vera storia. In essa indaga le ragioni del «mito» di San Marino, di come
cioè un piccolo stato abbia mantenuto nel tempo la propria libertas
e serbato l'antica e prediletta forma repubblicana, tanto da assurgere a
modello politico agli inizi del Seicento con Traiano Boccalini, Lodovico
Zuccolo e Matteo Valli. Sotto tale aspetto dunque scrivere la storia
della piccola Repubblica era tutt'altro che inutile, perché essa avrebbe
mostrato le vicende di un popolo che poteva costituire «un esempio degno
d'imitazione»
(72).
Questa «rivalutazione» dell'esperienza storica
(73) appare
quanto meno strana in un pensatore considerato da alcuni
l'espressione più radicale dell'antistoricismo italiano
(74).
Nei Pensieri
Delfico affronta il problema della conoscenza storica in tutta la sua
interezza ed estensione, per stabilire «se la scienza di ciò che fu,
debba preferirsi a quella dell'esistenza»
(75). Con
quest'opera esprime l'esigenza, già manifestata nell'Elogio al
Grimaldi, di una storia utile, che indaghi e interroghi il passato in
funzione del presente. Ma perché questo avvenga è necessario ideare un
nuovo modo di fare storia. Alla tradizione storiografica,
infatti, egli rimprovera l'uso di sistemi metodologici inadeguati e
parziali che sarebbe la causa della mancata conoscenza del passato. Come
e più di Fontenelle, Voltaire, d'Alembert, Rousseau, Condorcet, Volney,
delle cui Leçons d'histoire
(76)
risente la stesura dei Pensieri
(77), nega
che le ricostruzioni dei fatti fino ad allora condotte siano state in
grado di riprodurre fedelmente la verità storica. E se priva di
certezza, la storia non presenta alcuna vera utilità per il genere
umano. Egli si pone principalmente il problema della manière
d'écrire l'histoire, proprio della storiografia illuministica. A tal
fine, denuncia deficienze e manchevolezze che ancora permangono negli
studi storici e lamenta che la proliferazione incontrollata degli stessi
abbia dato luogo ad una loro stagnazione piuttosto che a un ripensamento
critico dei principi e dei criteri della pratica storiografica. Occorre
distogliere l'analisi storica dal proporre il «secco e nudo racconto» di
pochi avvenimenti, per indurla a valutare le circostanze nel loro
complesso, ad indicare i rapporti che intercorrono tra gli effetti e le
loro cause. Essa dovrebbe consistere in un'esposizione analitica di
fatti gli uni dipendenti dagli altri, per scorgere come dai primi e più
semplici siamo gradatamente giunti alle attuali positive cognizioni, di
modo che «mostrandoci i due estremi c'indicherebbe più facilmente la
strada da percorrere, per andare in cerca delle altre verità desiderose
di venire alla luce»
(78).
Così concepita, l'indagine storica permetterebbe di recuperare
positivamente l'eredità del passato, che cesserebbe di appartenere alla
memoria per divenire una componente integrante del processo storico
contemporaneo. Una convinzione, questa, che trova conferma in un
successivo scritto delficino del 1824, Discorso preliminare su le
origini italiche
(79), in
cui viene ribadita l'opportunità di interrogare il passato e «registrare
i fatti del tempo» in funzione dei bisogni presenti. Quest'azione di
cerniera tra il tempo andato e quello avvenire rappresenta l'aspetto più
interessante della storia. Essa la pone su un piano di parità con le
altre scienze a cui l'accomuna il merito di protendere al miglioramento
fisico e morale dell'uomo. Ma perché la ricerca storica possa adempiere
a queste funzioni conoscitive si richiede che essa sia «qual non
esiste», cioè una disciplina nuova, ancora intentata, che Delfico chiama
anche «storia delle scienze». Le cognizioni storiche perdono
allora il carattere di sterile nozionismo, che hanno sempre avuto, e
acquistano un valore intrinseco: «Sobriamente conoscendo quel che fu»,
afferma a conclusione della sua opera, «potremo facilitarci la strada a
saper ampiamente quel che è»
(80).
Un atteggiamento
polemico egli assume anche nei confronti delle mitologie la cui origine
sarebbe dovuta a superstizione, ad ignoranza o ad incapacità di fornire
una spiegazione razionale a fenomeni naturali. È il caso degli
incantatori di serpenti e del loro presunto potere antiofidico, contro
cui egli insorge in una Lettera di poche pagine, senza titolo,
inserita a guisa di nota nel VI tomo degli Annali del Regno di Napoli
di Francescantonio Grimaldi
(81) e
rimasta a lungo sconosciuta agli studiosi
(82). La
dissertazione, che si colloca nel filone della letteratura illuministica
di confutazione delle superstizioni, è una dura requisitoria contro gli
«impostori» serpari, i quali spacciano per miracoli e portenti ciò che
in realtà non avrebbe nulla di prestigioso ma sarebbe solo il risultato
o di una conoscenza particolare delle caratteristiche dei serpenti o di
effetti naturali.
Una diversa
considerazione, invece, egli ha dei cosiddetti «favoleggiatori». Come il
«virtuoso» Socrate e il «divino» Platone, Delfico tiene in grande
considerazione il racconto allegorico. Quando ancora lo spirito umano,
afferma nel Discorso sulle favole esopiane del 1792
(83), non
aveva maturato le sensazioni e le esperienze necessarie per poter
generalizzare le idee ed esprimerle con precisione e proprietà di
linguaggio, fu naturale che i primi pensieri morali, il sentimento di
giustizia, le nozioni di bene e di male e molti altri concetti fossero
acquisiti attraverso gli apologhi, che divennero così «la morale
dell'infanzia dell'umanità». La loro utilità non verrebbe meno neppure
nei tempi moderni dal momento che gli apologhi, se convenientemente
scelti, possono giovare non soltanto ai giovani ma anche a quella parte
del popolo che, ancora vittima dell'«errore» e del «pregiudizio», si
trova in uno stato «più infelice»
(84) di
quello dei secoli remoti.
Il ritorno a
Napoli dei Francesi, nel febbraio del 1806, viene salutato come l'inizio
di una nuova stagione politica. Esso rappresenta per lo scrittore
teramano quell'inversione di rotta che «era ormai tempo che si facesse»
(85) e che
lo induce a riportarsi, nel giugno di quell'anno, dopo sette anni di
esilio sammarinese, nella capitale partenopea dove farà parte, per quasi
un decennio, della nuova amministrazione francese. Nell'età napoleonica
egli intravede la possibilità di un recupero di quello
«spirito di ragione e di moderazione», a cui riteneva necessario
ricondurre la politica dopo la crisi di fine secolo e che costituiva
l'unica via possibile di sviluppo, sia contro gli eccessi dei
rivoluzionari, sia contro le intemperanze dei reazionari.
Nominato da
Giuseppe Bonaparte consigliere di Stato (3 giugno 1806), Delfico viene
assegnato alla sezione delle Finanze, per poi passare nel 1809 alla
presidenza della sezione dell'Interno, divenendo uno dei quattro
presidenti del Consiglio di Stato. Regge più volte ad interim il
ministero dell'Interno, facendo parte delle Commissioni per le lauree,
per le pensioni, per le riforme del Codice civile, per la procedura
delle cause feudali in Cassazione, per la riforma della pubblica
istruzione, per la ripartizione dei demani, per la vendita dei beni
dello Stato. Presidente della Commissione degli Archivi generali del
Regno, nominato commendatore dell'ordine delle Due Sicilie, nel 1815
viene insignito da Gioacchino Murat del titolo di Barone
(86).
I numerosi
incarichi di responsabilità non lo distolgono dalla tensione
intellettuale, tutta incentrata sullo studio della fisiologia e di altre
fisiche cognizioni. Evidente appare il suo debito nei confronti di
Pierre-Jean-Georges Cabanis (1757-1808), sostenitore della sensibilità
fisica quale fondamento dell'attività umana. Delle teorie dei
Rapports du physique et du moral de l'homme (1802), l'opera più
importante del filosofo francese, risentono soprattutto le Ricerche
su la sensibilità imitativa considerata come il principio fisico della
sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle Nazioni
del 1813
(87) e la
Memoria su la perfettibilità organica considerata come il principio
fisico dell'educazione con alcune vedute sulla medesima del 1814,
cui segue, l'anno successivo, la Seconda memoria
(88). Del
1818 sono, infine, le Nuove ricerche sul Bello
(89),
pubblicate a Napoli da Agnello Nobile.
Dell'«illustre autore» Delfico sottolinea il realismo politico e
l'aderenza alla realtà effettuale. Egli guarda il Principe non
come un'astratta speculazione politica, bensì come uno scritto
d'occasione contenente una particolare proposta operativa, in relazione
ad un obiettivo politico contingente, qual è la rigenerazione
dell'Italia. Senza farne a tutti i costi un precorritore del
Risorgimento o un assertore dell'unità nazionale, secondo
un'interpretazione del Fiorentino allora assai diffusa, egli ammira in
lui la «viva passione», la disperata ricerca di soluzioni politiche
capaci di porre fine alla grave crisi della società italiana del
Cinquecento. Ma la condizione di immobilismo e di decadenza politica e
civile dell'Italia, per la quale Machiavelli suggerisce la soluzione del
Valentino quale liberatore degli Stati italiani, non porta lo scrittore
teramano a condividere interamente tutte le tesi del Segretario
fiorentino: «Se si possono giustificare le sue intenzioni, e la persona»
afferma «questo non vale per le sue dottrine»
(93).
Infatti, se da un lato egli comprende le preoccupazioni di Machiavelli e
fa proprie le sue speranze di una prossima rigenerazione, attuabile
quest'ultima solo attraverso mezzi eccezionali, dall'altro manifesta più
di una perplessità di fronte al suo realismo politico, non riuscendo di
fatto ad accettare la dissociazione machiavelliana tra etica e politica
e il principio che «per regnar tutto lice»
(94).
Divergenze
emergono anche dal tentativo che Delfico in seguito compie di ricondurre
il pensiero machiavelliano ai tempi presenti per poi valutarlo sulla
base delle proprie convinzioni ed esperienze storiche, politiche e
culturali maturate tra il XVIII e il XIX secolo. Molte sono tuttavia le
idee del Fiorentino che considera ancora valide e attuali, come
l'identificazione dell'origine dei conflitti sociali con l'ineguaglianza
giuridica ed economica, l'assoluta inconciliabilità tra gli «umori» del
popolo e quelli dei grandi
(95) o la
condanna del ruolo antisociale dei «gentiluomini», di quegli
uomini cioè che, «oziosi», vivono dei proventi dei loro ingenti
possedimenti
(96). Ma,
soprattutto, riconosce a Machiavelli il merito di aver legato la
«questione militare» alla «questione politica», di aver ritenuto la
soluzione dell'una imprescindibile da quella dell'altra. Tale
correlazione presuppone ed implica un nuovo rapporto tra governanti e
governati basato sul reciproco impegno, da parte del popolo, di
assicurare la propria «affezione» allo Stato, così da garantirgli una
maggiore stabilità; da parte dei governi, di soddisfare le aspirazioni
dei sudditi, migliorandone le condizioni. Lo sviluppo di questo vincolo,
che con assoluta originalità Delfico fa derivare dal nesso tra
dimensione militare e dialettica politica, è concepito all'interno di
una monarchia costituzionale, considerata la forma più «conveniente
all'Umanità ed ai veri bisogni sociali», la giusta soluzione tra
rivoluzione e reazione. L'emanazione di una carta costituzionale, di cui
aveva manifestato l'esigenza sin dai primi anni della rivoluzione
francese, risponde soprattutto all'esigenza di assicurare l'uguaglianza
politica e la tutela dei diritti individuali dei cittadini, garantendo
loro la sicurezza reale e personale.
Nel maggio del
1822 Delfico torna a Teramo, ma nell'autunno successivo si reca di nuovo
a Napoli dove rimane per alcuni mesi, fino alla primavera del 1823,
quando lascia la Capitale per non farvi più ritorno. Nel capoluogo
abruzzese, dove trascorre il resto della sua vita, senza mai più
allontanarsi, l'anziano scrittore continua a studiare e a scrivere. Fra
i lavori di questi anni (alcuni dei quali ancora inediti e, di questi,
molti non terminati o soltanto abbozzati e frammentari) ricordiamo la
memoria Della importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche
allo studio della filosofia intellettuale del 1823
(97), in
cui ribadisce la sua concezione materialistica della conoscenza e
concepisce la ragione come strumento critico e operativo, che non deve
tuttavia ostinarsi ad indagare l'essenza delle cose e tutto ciò che non
può realmente conoscere ma rivolgersi alle cose utili e necessarie al
benessere e alla felicità del genere umano, e gli scritti sulla
numismatica pubblicati a Teramo dai tipi Ubaldo Angeletti nel 1824 con
il titolo Della antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con
un discorso preliminare su le origini italiche
(98).
Non verrà meno
neppure il suo impegno riformatore che lo porterà ad interessarsi di
Pescara in due scritti, dal titolo Fiera franca in Pescara del
1823 e Breve cenno sul progetto di un porto da costruirsi alla foce
del fiume Pescara del 27 aprile 1825
(99), con i
quali si prefigge di rivitalizzare le attività produttive in questa zona
ancora poco sviluppata del Regno. Decisivo gli appare a tal proposito un
rilancio del commercio, considerato «la sola sorgente inesausta della
ricchezza e floridezza delle Provincie»
(100), non
senza però aver prima creato le condizioni e le strutture necessarie per
facilitarlo. Una di queste potrebbe essere la realizzazione di un grande
emporio o fiera franca, che non solo ridurrebbe sensibilmente le frodi e
il contrabbando, ma assicurerebbe un notevole afflusso di merci, di
provenienza anche straniera, senza l'imposizione di alcun dazio di
importazione, che eviterebbe ai negozianti, ai mercanti e a molti
proprietari abruzzesi di rivolgersi, non senza grave danno, ai mercati
dello Stato pontificio di Fermo, di Ascoli o a quello più grande e
lontano di Senigallia. Tutto ciò non farebbe che ripercuotersi
favorevolmente sul commercio che potrebbe così finalmente «divenir
attivo»
(101) e
moltiplicare i capitali e far nascere nuove attività economiche o
migliorare e accrescere quelle esistenti.
La creazione di
uno moderno scalo marittimo alla foce del fiume Pescara costituisce
l'oggetto della riflessione che Delfico conduce nel Breve cenno.
L'idea che il «mare anziché separare riavvicini le Nazioni fra loro»
(102),
permettendo infinite comunicazioni tra i popoli, costituisce la
determinazione dalla quale lo scrittore teramano muove per sostenere
l'utilità che la creazione di un porto sicuro per i naviganti
rivestirebbe per l'incremento del commercio e per lo sviluppo economico
in generale. La scelta di Pescara quale centro di scalo portuale trova
giustificazione nel fatto di avere la cittadina adriatica il fiume con
la foce più ampia e di essere «punto centrale nel litorale degli Abruzzi»,
crocevia delle tre principali strade, l'una diretta verso Napoli, le
altre, entrambe costiere, in direzione la prima verso lo stato
pontificio, la seconda verso le province meridionali. Non solo, ma
sarebbe anche l'unico porto ad avvalersi di una «piazza forte» che
renderebbe sicuro il trasporto e la conservazione delle merci. Così il
porto di Pescara potrebbe riacquistare quell'importanza che aveva avuto
un tempo quando era conosciuto con il nome di Ostia Aterni e gli
imperatori romani vi avevano fatto confluire le tre strade, la Claudia,
la Flaminia e la Frentana per agevolarne gli scambi commerciali
(103).
Nel 1829 Delfico
pubblica la lettera Della preferenza de' sessi
(105)
alla contessa Chiara Mucciarelli Simonetti in cui riprende i temi
della condizione ed emancipazione della donna affrontati in gioventù nel
Saggio filosofico sul matrimonio. Trascorre gli ultimi anni della
vita continuando a coltivare i suoi interessi intellettuali. A questo
periodo risalgono i suoi studi sulla scienza medica testimoniati da
numerose pagine, ancora inedite, conservate presso il «Fondo Delfico»
della Biblioteca Provinciale di Teramo, e la stesura di alcuni
manoscritti di cui uno dal titolo Sugli antichi confini del Regno
e un altro dal titolo Sull'origine e i progressi delle Società civili
che invia al marchese aquilano Luigi Dragonetti, il quale ne caldeggia
la pubblicazione, ma invano perché il suo autore intende «rivederlo»
(106). Nel
1832 riceve la visita di Ferdinando II, in giro per le regioni del
Regno, e viene insignito, l'anno successivo, dell'onorificenza di
Commendatore dell'Ordine di Francesco I. Nel capoluogo abruzzese Delfico
muore il 21 giugno 1835.
Dopo la notorietà
di cui aveva goduto in vita, alla sua morte Delfico cade in un lungo e
ingiustificato oblio. Uscito grazie a Giovanni Gentile
(107) dal
ristretto ambito locale, che lo aveva reso per tutto l'Ottocento un
autore sostanzialmente sconosciuto, e proiettato in una dimensione più
ampia, nazionale, Delfico è oggetto di una diversa considerazione a
partire dal secondo dopoguerra. Una rivalutazione che si determina in
coincidenza con il rinnovato interesse storiografico per la cultura e la
storia del Settecento e, in particolare, per alcune esperienze
intellettuali e politiche significative dell'illuminismo italiano
(108).
Merito di questa storiografia è quello di aver ricondotto e legato il
riformismo delficino all'esperienza e al fervore culturale del movimento
riformatore napoletano della seconda metà del XVIII secolo. Una lettura
che ha privilegiato il Delfico «riformatore», la sua fase riformistica,
contrapponendosi alle rivisitazioni critiche precedenti, sia della
storiografia neoidealistica che del ventennio fascista
(109). Di
recente, nuove linee interpretative stanno approfondendo altre fasi
fondamentali della biografia intellettuale di Melchiorre Delfico (alcune
delle quali scarsamente scandagliate), come quella relativa al decennio
rivoluzionario 1789-1799 o quelle che contrassegnano la sua evoluzione,
agli inizi dell'Ottocento e durante gli anni della Restaurazione, da
riformatore nutrito dell'illuminismo napoletano a filosofo della storia
e della politica. |
_______________ |
(1) Era nato il 1° agosto 1744 in un paesino vicino Teramo, Leognano,
dove i genitori, Berardo e Margherita Civico, si erano rifugiati
durante l'invasione austriaca del Regno di Napoli. Morirà a Teramo
il 21 giugno 1835, all'età di novantun anni. Per le notizie
biografiche, la migliore fonte resta quella del nipote
G. De Filippis-Delfico,
Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico. Libri due,
Angeletti, Teramo 1836, arricchita di un'elencazione degli scritti
editi ed inediti del Nostro (alcuni dei quali successivamente
pubblicati), nonché di quelli non terminati e dei frammenti. Rimasta
incompiuta, l'opera continuò sul «Giornale abruzzese di scienze
lettere e arti», a. VI (1841), vol. XVIII, n. LIV, pp. 147-173 e a. VII
(1843), vol. XXI, n. LXIII, pp. 129-153, col titolo Notizie
intorno alle opinioni filosofiche ed alle opere di Melchiorre
Delfico e, sempre sulla stessa rivista, a. VII (1843), vol. XXII,
n. LXVI, pp. 163-171, col titolo Notizie sulla vita e sulle opere
di Melchiorre Delfico.
(2)
Molti
degli amici e dei discepoli del Genovesi furono abruzzesi. Fra loro
ricordiamo, oltre ai fratelli Giamberardino, Gianfilippo e
Melchiorre Delfico, il teatino Romualdo de Sterlich, Tommaso Maria
Verri di Archi, Giuseppe De Sanctis di Penne, l'aquilano Giacinto
Dragonetti, Giovanni Alò di Roccaraso, il teramano Giammichele
Thaulero e Troiano Odazi di Atri, che nel 1781 successe al Maestro
nella cattedra di economia. Sulla presenza anche in Abruzzo di
quello che è stato definito il «partito genovesiano», cfr.
G. De Lucia,
Abruzzo borbonico. Cultura, società, economia tra Sette e Ottocento,
Cannarsa, Vasto 1984, pp. 23-31 e 46-49;
U. Russo, Studi sul
Settecento in Abruzzo, Solfanelli, Chieti 1990, pp. 25-31 e
53-63.
(3)
F. Diaz,
Dal movimento dei lumi al movimento dei popoli, Il Mulino,
Bologna 1986, p. 317.
(5)
Lo scritto, dedicato a Bartolomeo
Intieri e pubblicato assieme al Ragionamento sopra i mezzi più
necessari per far rifiorire l'agricoltura dell'abate Ubaldo
Montelatici colla Relazione dell'erba orobanche detta volgarmente
succiamele e del modo di estirparla di Pier-Antonio Micheli,
uscì a Napoli nel 1753.
(6)
A. Genovesi,
Lettere accademiche su la questione se sieno più felici
gl'ignoranti che gli scienziati (Napoli 1764), Lettera XI,
in Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G.
Savarese, Feltrinelli, Milano 1962, p. 497.
(9)
Le due Memorie, dal titolo
Intorno a' dritti sovrani di Napoli sulla città di Benevento e
Saggio istorico delle ragioni dei Sovrani di Napoli sopra la
città d'Ascoli d'Abruzzo oggi nella Marca, furono commissionate
a Delfico dall'avvocato della Corona Ferdinando De Leon. Della
prima, tuttora inedita, esiste una copia autografa presso l'Archivio
di Stato di Teramo, «Fondo Delfico», b. 16, fasc. 178, dal titolo
Del territorio beneventano. La seconda, invece, fu pubblicata la
prima volta su «La Rivista abruzzese di scienze e lettere» nel 1890
(a. V, fasc. I, pp. 22-30; fasc. III-IV, pp. 142-168; fasc. V-VI,
pp. 248-261; fasc. VII, pp. 305-322 e fasc. VIII, pp. 358-365),
preceduta dalle Notizie di L. Volpicella sulle vicende del
manoscritto. Il Saggio istorico è stato riedito nelle
Opere complete, vol. III, Fabbri, Teramo 1903, pp. 9-80. La
raccolta, che non esaurisce tutti gli scritti delficini (alcuni dei
quali pubblicati successivamente, altri ancora inediti), esce a
Teramo dal 1901 al 1904, in quattro volumi, a cura di G. Pannella e
L. Savorini.
(10)
M. Delfico,
Del territorio beneventano, cit., p. 17.
(12)
G. De Filippis-Delfico,
Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., p. 11.
(15)
A. Garosci, San
Marino. Mito e storiografia tra i libertini e il Carducci,
Edizioni di Comunità, Milano 1967, p. 167.
(16)
Lettera di Delfico a Luigi Dragonetti
del 10 luglio 1826, in Spigolature nel carteggio letterario e
politico del march. Luigi Dragonetti, a cura del marchese G.
Dragonetti suo figlio, Uffizio della Rassegna Nazionale, Firenze
1886, p. 122. La lettera è stata riedita nelle Opere complete,
cit., vol. IV, p. 54.
(17)
M. Delfico, Indizi
di morale, in Opere complete, cit., vol. I, p. 36.
(19)
M. Delfico,
Indizi di morale, cit., pp. 48-49.
(21)
Per una
ricostruzione dell'intera vicenda rinvio a
V. Clemente,
Rinascenza teramana e riformismo napoletano (1777-1798). L'attività
di Melchiorre Delfico presso il Consiglio delle Finanze,
Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1981, pp. 71-85.
(22)
L'espressione è ricorrente nella
Relazione di Mons. Luigi Pirelli alla Sacra Congregazione del
Concilio del 14 febbraio 1778, in
V. Clemente,
Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 86-99.
(24)
F. Venturi,
Nota introduttiva (a M. Delfico), in Riformatori
napoletani, cit., p. 1168.
(25)
Favorevole nel 1783 ad un più moderno
sviluppo dell'attività risiera per una ripresa economica della sua
provincia, Delfico assumerà alcuni anni più tardi un atteggiamento
decisamente contrario alla risicoltura. Su tale mutamento, cfr.
V. Clemente,
Cronache della defeudalizzazione in provincia di Teramo: le risaie
atriane (1734-1831), in «Itinerari», a. XXIV (1985), n. 1-2-3,
pp. 21-154.
(26)
M. Delfico,
Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, presso
Vincenzo Orsino, Napoli 1784, in Opere complete, cit., vol.
III, pp. 222-260.
(28)
M. Delfico,
Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p.
245.
(29)
J.-J. Rousseau,
Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les
hommes (1754), in Oeuvres complètes, vol.
III, Gallimard, Paris 1964,
p. 193.
(30)
M. Delfico,
Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, cit., p.
253.
(32)
Alcune
lettere sono state pubblicate nel quarto volume delle Opere
complete di Delfico, cit., pp. 154-162; altre sono apparse nel
primo volume di Aus dem Briefwechsel Friedrich Münters.
Europäische Beziehungen eines dänischen Gelehrten 1780-1830,
herausgegeben von Ø. Andreasen, Erster Teil, P. Haasse,
Kopenhagen-Leipzig 1944, pp. 215-220.
Due di queste
ultime sono state riprodotte in appendice al libro di
A. Di Nardo, Storia
e scienza in Melchiorre Delfico. (Studi e ricerche), Libera
Università Abruzzese degli Studi «G. D'Annunzio», Facoltà di Lettere
e Filosofia, Chieti 1978, pp. 154-155 e 157-160, il quale ha
pubblicato altre lettere di Delfico a Münter, assieme ad alcune
lettere di Delfico alla sorella del Danese Federica Brun (ivi,
pp. 140-166). Altre, ancora inedite, sono conservate presso la
Biblioteca Provinciale di Teramo.
(33)
M. Delfico,
Memoria sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle
provincie confinanti del Regno, Porcelli, Napoli 1785, ora in
Opere complete, cit., vol. III, pp. 265-323.
(35)
M. Delfico,
Memoria sul Tribunal della Grascia, cit., p. 279.
(36)
M. Delfico,
Discorso sul Tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il
sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea
riforma, Napoli 1788, ora in Opere complete, cit., vol.
III, pp. 359-396.
(38)
Il testo è stato pubblicato da
L. Tossini, Una
lettera inedita di Melchiorre Delfico a Michele Torcia, in «Nord
e Sud», a. XXIV (1977), terza serie, n. 31-32, pp. 191-199. La
lettera è datata Teramo, 7 ottobre 1784.
(39)
Scritta tra il 1789 e il 1790, su
invito dell'Accademia di Padova agli scrittori italiani di occuparsi
del problema della libertà di commercio, la Memoria fu
stampata la prima volta nel 1805 a Milano, presso Destefanis, nel t.
XXXIX della raccolta Scrittori classici italiani di economia
politica, a cura di P. Custodi. L'opuscolo è stato recentemente
riedito (De Petris, Teramo 1985) con un'introduzione di M. Finoia.
Sul problema Delfico tornerà alcuni anni dopo con il Ragionamento
su le carestie, in cui apporta alcune «modificazioni e
moderazioni» al principio della libertà assoluta e illimitata di
commercio, auspicando nel mercato l'intervento diretto dello Stato,
cui riconosce il compito di prevenire il «terribile flagello» delle
carestie e di altri simili avvenimenti.
Il testo, letto il 1° dicembre 1818 nella Reale Accademia delle
Scienze di Napoli e pubblicato nel 1825 negli Atti
dell'Accademia stessa (vol. II, parte I, pp. 3-43), è stato riedito
a Teramo nel 1985 assieme alla Memoria sulla libertà del
commercio.
(40)
Se,
dopo varie insistenze, all'inizio del 1788 ottiene, come aveva
richiesto due anni prima nella Memoria per il ristabilimento del
Tribunale Collegiato nella Provincia di Teramo (in
V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 255-257),
il ripristino a Teramo di detto Tribunale, in luogo dei magistrati
unici, più agevolmente portati all'abuso del potere, non altrettanta
fortuna incontreranno invece le sue richieste sia di abolizione
della servitù degli Stucchi, del 1786, sia di istituzione di una
Università degli Studi a Teramo ad indirizzo «fisico» ed
orientamento laico, avanzata agli inizi di maggio del 1788. Sugli
sviluppi delle iniziative delficine si vedano
R. Di Antonio, Stucchi e Doganelle nel teramano, Libera Università Abruzzese
degli Studi «G. D'Annunzio», Facoltà di Scienze Politiche, Teramo
1978, pp. 7-24, la quale pubblica in appendice la Memoria sugli
Stucchi e le Memorie su di un nuovo sistema per le Doganelle,
e G. Carletti, Introduzione a
M. Delfico,
Una «piccola» Università a Teramo, Quaderni dell'Università
di Teramo, Teramo 1999, n. 6, pp. 3-7.
(42)
M. Delfico,
Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri, cit., p.
354.
(43)
Memoria
delficina, rimasta interrotta e tuttora inedita, conservata presso
la Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo «Manoscritti Delfico»,
Ined., n. 402.
(45)
Ora in
Opere complete, cit., vol. III, pp. 403-431.
(47)
C. Ghisalberti,
La giurisprudenza romana nel pensiero di Melchiorre Delfico,
in «Rivista italiana per le scienze giuridiche», a. VIII (1954),
vol. VII, parte II, p. 432.
(48)
M. Delfico,
Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana, in
Opere complete, cit., vol. I, pp. 225 e 105.
(49)
Troiano Odazi (1741-94), nativo di
Atri, in provincia di Teramo, fu tra i maggiori economisti
napoletani della seconda metà del Settecento. Allievo del Genovesi,
nel 1768 ne curò l'edizione milanese Delle lezioni di commercio o
sia d'economia civile. Nominato nel 1779 professore di Etica nel
Reale convitto della Nunziatella, nell'ottobre del 1781 fu chiamato
a ricoprire la cattedra di Economia e Commercio che era stata del
Genovesi e rimasta vacante per diversi anni. Esponente della
massoneria napoletana, fu coinvolto nel fatti del '94. Arrestato,
morì suicida nelle carceri della Vicaria il 20 aprile di quell'anno.
Sulla fine dell'Odazi, cfr. G.
Beltrani, Don Trojano Odazi. La prima vittima del processo
politico del 1794 in Napoli, in «Archivio storico per le
province napoletane», a. XXI (1896), fasc. I, pp. 853-867.
(50)
B. Croce,
La rivoluzione napoletana del 1799, Laterza, Bari 19264,
p. 24.
(51)
Sulle tappe di questo viaggio, cfr.
G. De Filippis-Delfico,
Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., pp.
38-46.
(52)
Si veda
la lettera di Delfico a Fortis del 9 gennaio 1797 da Teramo, in
M.G. Riccobono, Contributo per l'epistolario di Melchiorre
Delfico, in «Rassegna della letteratura italiana», a. 87 (1983),
serie VIII, n. 3, p. 419.
(53)
L'ipotesi di una partecipazione al concorso origina da De
Filippis-Delfico, il quale riporta tra le opere delficine
«non-terminate» (cfr. Della vita e delle opere di Melchiorre
Delfico, cit., p. 122), un opuscolo di 26 pagine privo di
intestazione e da lui intitolato Sul quesito: Quale sia il
miglior de' governi per l'Italia?, anche se poi nessuna notizia,
sia in merito a questo testo sia relativa al concorso, fornisce
nella ricostruzione biografica dell'Autore. Su questo aspetto si
veda G. Carletti,
A
proposito di un'anonima dissertazione. Note sulla presunta
partecipazione di Melchiorre Delfico al concorso del 1796,
in «Trimestre», a. XXXII (1999), n. 3-4, in corso di pubblicazione.
(54)
Sono del 1797 le delficine Memoria
per la Decima imposta al Regno; Memoria intorno a' danni
sofferti nella provincia di Teramo dalla cattiva monetazione dello
Stato pontificio, e de' mezzi opportuni da ripararli ed infine
Osservazioni su la nuova monetazione dello Stato papale per
rapporto al commercio delle provincie confinanti del Regno,
ancora tutte inedite.
(55)
Lettera di Delfico a Fortis del 7
novembre 1793, in M.G.
Riccobono, Contributo per l'epistolario di Melchiorre
Delfico, cit., pp. 415-416. Il vescovo a cui allude è Luigi
Maria Pirelli (1740-1820), nobile di Ariano, religioso dell'Ordine
dei Regolari teatini, vescovo di Teramo dal 1777 al 1804 e sin dal
suo arrivo avverso alla famiglia Delfico. Nella Relazione
risponsiva alle accuse, del 18 dicembre 1793 (pubblicata da
L. Tossini,
Autodifesa di un illuminista, in «Archivio storico per le
province napoletane», terza serie, a. XVI (1977), pp. 86-97), egli
era costretto a difendere la propria reputazione dinanzi al Supremo
Consiglio a causa di «vaghe» e «calunniose imputazioni» di qualche
delatore. La denuncia del '93, pur non avendo gravi conseguenze,
riuscì tuttavia ad impedire che Delfico succedesse al fratello nella
presidenza della Società Patriottica di Teramo. Nel 1794 una nuova
denuncia anonima era stata all'origine del rifiuto del Supremo
Consiglio di accogliere la richiesta del Teramano del titolo di
conte. Non avrebbe ottenuto il titolo neppure in seguito, ma con
decreto del 25 marzo 1815 Gioacchino Murat gli avrebbe conferito
quello di barone.
(56)
Il pretesto è fornito da alcune lettere
«rivoluzionarie» sequestrate ad una loro domestica, da poco
licenziata, mentre faceva ritorno ad Ascoli Piceno. Interrogata, la
donna avrebbe affermato di averle ricevute da Alessio Tullj e da
Eugenio Michitelli, entrambi frequentatori di casa Delfico. Si veda
in proposito la Memoria della persecuzione subita dalla famiglia
Delfico nel 1799, scritta presumibilmente da Giamberardino
Delfico «allo scopo - è precisato in un'annotazione - di ottenere il
dissequestro dei propri beni», dopo che, condannato dai Regi
inquisitori nel processo contro «i rei di Stato» e trasferito
nell'agosto del 1800 nei castelli di Puglia, era stato liberato in
seguito all'indulto generale del 1° maggio 1801. Il testo è stato
pubblicato da V.
Clemente su «Storia e civiltà», a. IV (1988), n. 4, pp. 368-385 e a.
V (1989), n. 1-2, pp. 39-56. L'episodio che portò all'arresto dei
Delfico è a p. 375 sgg.
(59)
Sullo spirito di moderazione di
Delfico, interessato a trovare una mediazione tra eccessi
rivoluzionari e intemperanze reazionarie, cfr.
G. Carletti,
Melchiorre Delfico. Riforme politiche e riflessione teorica di un
moderato meridionale, ETS, Pisa 1996, p. 135 sgg.
(60)
Cfr.
G. Galasso, I
giacobini meridionali, in «Rivista storica italiana», a XCVI
(1984), fasc. I, p. 78 sgg., ora in La filosofia in soccorso de'
governi, cit., p. 519 sgg.
(61)
Il testo è stato pubblicato da
R. Persiani, Alcuni
ricordi politici nella massima parte abruzzesi al cadere del XVIII e
principio del XIX secolo con documenti e note, in «Rivista
abruzzese di scienze, lettere ed arti», a. XVII (1902), fasc.
VII-VIII, pp. 435-439. Senz'altro meno importante è l'altro atto a
firma di Melchiorre Delfico, Proclama sulla sicurezza
pubblica del 15 ventoso anno VII (5 marzo 1799), con il quale
venivano fissate alcune disposizioni per combattere il
vagabondaggio. (Ivi, pp. 441-442). I due testi sono stati
recentemente riediti assieme ad altri scritti delficini da
G. Carletti, La
«Pescara» di Melchiorre Delfico, Edizioni Tracce, Pescara 1999,
pp. 51-55 e 57-58.
(62)
Cfr. la lettera di Delfico al Governo
Provvisorio, da Pescara, datata 7 germile an. 7 Rep. (27 marzo
1799), in Il Monitore Napoletano 1799,
a cura di M. Battaglini, Guida, Napoli 1974, pp. 695-696. Sulle
insorgenze nella regione, cfr.
R. Colapietra,
Le insorgenze di massa nell'Abruzzo in età moderna, in
«Storia e politica», a. XX (1981), fasc. 1, pp. 1-46, e il più
recente volume Per una rilettura socio-antropologica dell'Abruzzo
giacobino e sanfedista, Edizioni Città del Sole, Napoli 1995.
(63)
Per il testo cfr.
G. Carletti, Melchiorre Delfico, cit., pp. 138-139.
(64)
Sulla permanenza del Teramano nella
Repubblica sammarinese, cfr.
F. Balsimelli, Melchiorre Delfico e la Repubblica di San
Marino, Arti Grafiche Della Balda, San Marino 1935.
(65)
Cfr.
V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del
1799, II ed. con aggiunte dell'Autore, Dalla Tipografia di
Francesco Sonzogno, Milano 1806, p. 96 sgg.
(66)
Si veda l'ormai nota Prefazione
alle Memorie storiche della Repubblica di S. Marino (Milano
1804), in Opere complete, cit., vol. I, pp. 249-250.
(71)
M. Delfico,
Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, cit., p. 249.
(73)
Cfr. M. Agrimi, La vicenda rivoluzionaria e le riflessioni
sulla storia: Melchiorre Delfico, in «Itinerari», a. XXIII
(1984), n. 3, p. 94.
(75)
M. Delfico,
Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della
medesima, in Opere complete, cit., vol.
II, p. 11.
(78)
M. Delfico,
Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della
medesima, cit., p. 43.
(79)
Ora in
Opere complete, cit., vol. II, pp. 307-325.
(80)
M. Delfico,
Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della
medesima, cit., p. 174.
(84)
M. Delfico,
Discorso sulle favole esopiane, cit., pp. 39-40.
(85)
Lettera
di Delfico a Teresa Onofri del 21 marzo 1806, in
F. Balsimelli,
Epistolario di Melchiorre Delfico. Lettere sammarinesi, Arti
grafiche Della Balda, San Marino 1934, p. 53.
(87)
Ora in
Opere complete, cit., vol. III, pp. 471-497.
(88)
Ora in
Opere complete, cit., vol. III, rispettivamente pp. 501-528 e
pp. 531-550.
(89)
Ripubblicate nelle Opere complete, cit., vol. II, pp.
187-294, le Nuove ricerche sul Bello sono state recentemente
riedite a cura di A. Marroni, Ediars, Pescara 1999.
(91)
Rimasto inedito, il testo finale è
tuttora irreperito ma di esso si conservano due stesure pubblicate
da A. Marino,
Scritti inediti di Melchiorre Delfico, Solfanelli, Chieti 1986,
rispettivamente pp. 19-42 e 59-79.
(92)
M. Delfico,
Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del Segretario
fiorentino, cit., p. 20.
(94)
Cfr.
ivi, pp. 29 e 70.
(96)
Cfr.
N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio,
in Opere, cit., vol. III, lib. I, cap. LV, p. 159.
(97)
Ora in
Opere complete, cit., vol. III, pp. 567-588.
(98)
L'opera, notevolmente ampliata, fu ristampata a Napoli nel 1826, per
i tipi di Angelo Trani, col titolo Dell'antica Numismatica della
città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini italiche,
ora in Opere complete, cit., vol. II, pp. 299-505.
(100)
M. Delfico,
Breve cenno, cit., p. 37.
(101)
M. Delfico,
Fiera franca in Pescara, cit., p. 32.
(102)
M. Delfico,
Breve cenno, cit., p. 38.
(103)
Cfr.
ivi, pp. 47-49.
(104)
Ora,
tradotto, in Opere complete, cit., vol. IV, pp. 325-333, col
titolo Rapporto sull'Italia inviato a Napoleone e attribuito a M.
Delfico.
(105)
M. Delfico,
Della preferenza de' sessi. Lettera all'ornatissima signora
contessa Chiara Mucciarelli Simonetti del 12 marzo 1827,
pubblicata a Siena nel 1829 ed ora in Opere complete, cit.,
vol. IV, pp. 31-45.
(106)
Cfr. la
lettera di Delfico a Dragonetti dell'8 marzo 1834, in Spigolature
nel carteggio letterario e politico del march. Luigi Dragonetti,
cit., p. 156.
(107)
Cfr.
G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi, cit., pp. 18-87.
(109)
Per una
ricognizione degli studi delficini, cfr.
G. Carletti,
Recuperi, oblii e prospettive. Per una storia critica della
storiografia delficina, in «Trimestre», a. XX (1987), n. 1-2, pp.
5-40.
|
|