De Filippis

 

De Filippis-Delfico

 

(Teramo, 1820)

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Stemma famiglia De Filippis-Delfico, Teramo, 1820

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Delfico

(Napoli, sec. XVIII)

(Teramo, sec. XV)

Stemma famiglia De Filippis, Napoli, sec.XVIII

Stemma famiglia Delfico, Teramo, sec.XV

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Il serpente e la storia.

Il culto antiofidico nell'interpretazione di Melchiorre Delfico

di Gabriele Carletti

Nel volume primo degli Scritti demo-etno-antropologici offerti a Giuseppe Profeta, in «Abruzzo. Rivista dell'Istituto di studi abruzzesi», a. XXXIX, gennaio-dicembre 2001, Pescara, Sigraf Editrice, 2002, pp. 451-466

 

Degli incantatori di serpenti e del loro presunto potere antiofidico Delfico si occupa in una breve Lettera senza titolo, inserita a guisa di nota nel VI tomo degli Annali del Regno di Napoli di Francescantonio Grimaldi (1), il quale si era rivolto all'amico teramano per avere notizie sull'esistenza nella Marsica moderna di antiche costumanze di carattere ofidico e su eventuali relazioni tra queste e i rituali moderni.

Rimasta a lungo sconosciuta, la Lettera è stata riproposta all'attenzione degli studiosi da Giuseppe Profeta, che ne ha, alcuni anni fa, ripubblicato il testo (2).

La dissertazione è l'occasione per Delfico per muovere una dura critica nei confronti delle mitologie la cui origine sarebbe dovuta a superstizione, ad ignoranza o ad «impostura». Motivi, questi, che da sempre hanno indotto gli uomini, persino quelli più «sensati», a considerare i fenomeni naturali, di cui non si è ancora riusciti a fornire una spiegazione razionale, come prodigi, come opere «soprannaturali». E questo perché l'uomo ha, per natura, la tendenza ad attribuire ad ogni effetto una causa, per cui ogni qualvolta egli non è in grado di trovare la ragione vera delle cose si rifugia dietro «cose invisibili» o si «acquieta alle favole» (3). Da questa «malattia dello spirito» nessun popolo è stato mai veramente esente.

Uno degli eventi che da sempre ha attirato la curiosità degli uomini è il potere che alcuni sembrano possedere contro le serpi e i loro morsi velenosi. Nell'antichità sarebbe stata questa una peculiarità propria di alcune etnie, in particolare dei Psilli africani e dei Marsi nostrani. Ancora oggi Cocullo, un piccolo paese nel territorio marsicano, in provincia dell'Aquila, è rinomato per la virtù antiofidica dei serpari.

Secondo la tradizione popolare - riferisce Delfico - l'origine del culto risalirebbe alla figura di S. Domenico abate, monaco cassinese, vissuto a cavallo tra il decimo e l'undicesimo secolo (4), che di passaggio a Cocullo si rese artefice di numerosi prodigi tanto che gli abitanti del luogo lo pregarono di restare o di lasciare loro una sua reliquia affinché fossero preservati dal veleno dei serpenti che infestavano il paese. Accogliendo la supplica, il santo donò ai cocullesi, prima di ripartire, un suo dente molare e un ferro tolto dai piedi della sua mula ed ordinò a tutti gli animali velenosi di non recare più, d'ora innanzi, alcun danno a quelle popolazioni. Da allora gli abitanti sono talmente sicuri di essere immuni dagli animali velenosi che non ricordano di aver ricevuto mai alcuna offesa (5). Della tutela assicurata loro dal santo essi danno prova in una processione durante la quale gli abitanti di Cocullo recano in mano, nient'affatto intimoriti, serpenti vivi (6).

Lungi dal considerare il fenomeno come prodigio, Delfico conduce nella dissertazione una dura requisitoria contro gli «impostori» serpari (7), i quali spacciano per miracoli e portenti ciò che in realtà non avrebbe nulla di prestigioso ma sarebbe solo il risultato o di una conoscenza particolare delle caratteristiche dei serpenti o di effetti naturali (8). Le ricerche effettuate avrebbero infatti dimostrato che il morso della vipera è letale solo nel caso in cui il veleno riesca a raggiungere il sangue e i centri nervosi e che ciò possa essere scongiurato qualora sia succhiato tempestivamente. L'illuminista teramano, inoltre, non sembra neppure escludere (ma la congettura - egli ritiene - necessiterebbe di una verifica sperimentale) che il fenomeno possa avere anche una «causa locale» di carattere fisico-naturale, l'ipotesi cioè che l'aria, per l'esalazione di alcuni vegetali o di vapori minerali, avrebbe in quei luoghi una proprietà «balsamica» contro i veleni mentre risulterebbe particolarmente nociva per gli animali velenosi (9).

Se la spiegazione della virtù antiofidica attraverso il fattore climatico risulta essere infondata, essendo il motivo vero la innocuità dei serpenti o l'adozione di particolari tecniche come quelle di far saltare i denti agli ofidi o di costringere le serpi a scaricare il loro veleno mordendo oggetti morbidi poco prima del rito, non vi è dubbio tuttavia che il problema di fondo che Delfico si pone nella dissertazione - la quale si colloca nel filone della letteratura illuministica di «confutazione delle superstizioni» - sia soprattutto quello di «far luce sulla mistificazione vecchia e nuova degli incantatori di serpenti» (10).

Se il culto antiofidico continua a sopravvivere nel tempo è perché ancora persiste una diffusa superstizione e un'eccessiva credulità nei confronti delle presunte qualità taumaturgiche dei serpari sia da parte di coloro che sono stati morsi sia da parte di coloro che soltanto «temono o credono di esserlo» (11).

La confutazione dell'errore e la ricerca della verità che Delfico si prefigge nella dissertazione sugli incantatori di serpenti costituiscono anche i due obiettivi che egli «ha in mira» allorché affronta il tema della storia. E non è certo casuale il fatto che proprio nell'Elogio (12) di Francescantonio Grimaldi del 1784, analizzando gli Annali del Regno dell'amico prematuramente scomparso, egli manifesti tale esigenza allorché esprime la convinzione che «l'ottimo storico» dovrebbe narrare la storia evitando di fermarsi «su i fatti isolati», per cercare invece le cause degli avvenimenti, così da «richiamarli quasi a nuova vita». All'idea di una storia intesa  come «nudo racconto di fatti», volta ad occupare il tempo «degli oziosi e degli annojati», Delfico contrappone l'idea di una storia che sia «d'un utile presente» per il genere umano (13).

Il principio dello studio della storia in stretta relazione con la realtà presente trova diretta applicazione nelle Memorie storiche (14) di San Marino. Nonostante, infatti, l'Autore dichiari, nelle battute iniziali della prefazione, di non essere «nell'opinione di coloro i quali riguardano la storia come maestra della vita e dispensatrice della civile sapienza» per il fatto di mostrare «sempre scarsi gli annali della virtù in confronto dei voluminosi giornali del vizio e dell'orrore» (15), in realtà poi egli, attraverso una «ricerca diligente» e «vasta», scrive «una vera storia» (16).

Delfico indaga su come San Marino sia riuscita a conservare intatta nei secoli la sua indipendenza, a fronte di tanti sconvolgimenti di repubbliche e di imperi, ed abbia «felicemente adombrato un tipo dei veramente umani governi» (17). Ricerca, in altri termini, nella storia le ragioni del «mito» di San Marino (18), di come cioè un piccolo stato abbia mantenuto nel tempo la propria libertas (19) e serbato l'antica e prediletta forma repubblicana, tanto da assurgere a modello politico agli inizi del Seicento con Traiano Boccalini (20), Lodovico Zuccolo (21) e Matteo Valli (22). Ed è proprio il fatto di scorgervi un modello, una delle ragioni che spingerà Delfico, nel 1799, a scegliere San Marino come luogo di esilio. Di fronte alla «tempestosa crisi» di fine secolo, la conoscenza dei «fatti permanenti o conservati nella storia» della piccola repubblica diventava particolarmente interessante perché mostrava la possibilità reale, non utopistica, di dar vita ad una forma di civile associazione «più adatta o conveniente» alla specie umana. Sotto tale aspetto dunque scriverne la storia era tutt'altro che inutile, perché essa avrebbe mostrato le vicende di un popolo che poteva costituire «un esempio degno d'imitazione» (23).

  Questa «rivalutazione» dell'esperienza storica appare quanto meno strana in un pensatore solitamente collocato dalla storiografia neo-idealistica tra gli esponenti più rappresentativi dell'antistoricismo italiano (24).

È nei Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima (25) che Delfico affronta il problema della conoscenza storica in tutta la sua interezza ed estensione, per stabilire «se la scienza di ciò che fu, debba preferirsi a quella dell'esistenza; e se l'aver trascurato queste verità, poté ritardare i felici progressi della specie» (26). È muovendo dall'assunto dell'arretratezza degli studi storici che si forma in lui la determinazione di avviare una disamina critica di tutta la storiografia precedente.

Con la stesura dei Pensieri Delfico si inserisce nel dibattito sulla storia che si sviluppa in Europa nella seconda metà del diciottesimo secolo, a cui prendono parte, oltre ad autori quali Fontenelle, Voltaire, D'Alembert, Rousseau, Condorcet ed altri, numerosi italiani tra cui Galeani Napione, Bettinelli, Bertola, Ortes, Bocalosi (27). Ma fra tutti gli ideologi della storiografia illuministica nessuno, afferma Delfico, «ha finora portato lo spirito di analisi su la istoria meglio di Volney» (28). Delle riflessioni del Francese racchiuse nelle Leçons d'histoire (29) risente la stesura dei Pensieri (30).

Quello che lo scrittore teramano riprende e porta all'estrema conseguenza sono le argomentazioni addotte da Volney per sostenere i limiti della storiografia tradizionale. Per buona parte dell'opera egli si dilunga a mostrare la incertezza della storia, la sua inutilità e i danni che essa cagiona ingombrando la mente di pregiudizi, mentre nel capitolo conclusivo verifica la fondatezza delle sue affermazioni con esempi tratti dalla storia di Roma. Delfico si pone principalmente il problema della manière d'écrire l'histoire, proprio della storiografia illuministica, dal momento che «non è nel modo - afferma - in cui sono state trattate insino ad ora che le storiche ricerche possono influire felicemente ai progressi delle scienze e dello spirito umano» (31). A tal fine, denuncia deficienze e manchevolezze che ancora permangono negli studi storici e lamenta che la proliferazione incontrollata degli stessi abbia dato luogo ad una loro stagnazione piuttosto che a un ripensamento critico dei principi e dei criteri della pratica storiografica. Persino Voltaire, «il più gran battagliere de' pregiudizj» (32), le cui opere Le siècle de Louis XIV e l'Essai sur les moeurs avevano inaugurato un nuovo modo di fare storia, sarebbe rimasto «inviluppato» nelle pastoie del suo tempo.

Come nella dissertazione sugli incantatori di serpenti Delfico riconduce la fondazione del culto ofidico al bisogno naturale dell'uomo di dare ad ogni cosa una spiegazione così nei Pensieri egli fa derivare l'origine della storia tradizionale, da una parte, dal bisogno fisico e dal piacere che l'uomo prova a raccontare le proprie esperienze; dall'altra, dalla curiosità di conoscere le vicende altrui. Entrambi questi bisogni alimentarono lo sviluppo dell'immaginazione e di storie inverosimili, piene di prodigi e di stravaganze, dirette a stimolare la fantasia degli ascoltatori.

Se la storia tradizionale è poco attendibile perché lontana dalla verità dei fatti, non si può certo dire che essa muti considerevolmente con l'introduzione della scrittura. Poiché nessuno, infatti, pensò mai di chiarire il significato vero della storia, si ignorò per lungo tempo quale metodo «fosse da preferire». Ciascuno, pertanto, senza conoscere quali criteri fossero da privilegiare e quali circostanze da rappresentare per prime, ricorse al metodo che più si addiceva alla sua opera. Ma difettosi chi per un verso chi per un altro, quei sistemi («il genealogico, il cronologico, il drammatico, il geografico, il progressivo, il retrogrado, l'analitico, il sintetico, il generale, il particolare») contribuirono tutti a lasciare la storia in uno stato di imperfezione.

Troppo spesso l'attività storiografica, afferma Delfico facendo proprie le osservazioni di Volney, si è limitata a registrare solo le vicende più vistose, in massima parte biasimevoli, come le guerre, le conquiste, le distruzioni, gli sconvolgimenti, le imprese dei re, dei generali, degli eroi: fatti, questi, che configurano la storia come una continua e successiva ripetizione degli stessi avvenimenti sotto nomi e tempi diversi (33). Per secoli la storia non è stata scritta se non «per interesse, per gratitudine, per ammirazione, o per qualunque più strana bizzarria», determinando «un abuso pernicioso, una filiazione dannosa» (34) della medesima. Raramente, però, dinanzi a produzioni storiche di questo genere, ci si è chiesti se esse rispecchiassero realmente l'indole della storia o se quest'ultima potesse essere concepita in maniera diversa.

Scopo ultimo della ricerca storica è invece, per Delfico, «far conoscere il vero degli avvenimenti in quella integrità necessaria a soddisfare lo spirito di osservazione» (35). Perché dunque la storia possa rivelarsi utile all'uomo occorre che essa sia innanzitutto vera. La possibilità per le opere storiche di riprodurre il vero dipende, a suo avviso, dalla soluzione di due ordini di problemi. Bisogna innanzitutto distogliere l'analisi storica dal proporre il «secco e nudo racconto» di pochi avvenimenti, per indurla a valutare le circostanze nel loro complesso, ad indicare i rapporti che intercorrono tra gli effetti e le loro cause e ad elaborare un quadro integrale e completo delle cause generali e particolari, occasionali e permanenti, fisiche e morali, «de' felici o de' contrarj cangiamenti» delle società umane nel corso dei secoli. Il fatto storico si configura così come un evento estremamente complesso, la cui conoscenza dipende non solamente dalla individuazione dell'avvenimento in generale, ma, come aveva affermato lo stesso Montesquieu (36), dalla totalità delle cause che lo producono e delle circostanze particolari che lo completano nella sua integrità. L'opera storica, scrive Delfico, «dovrebbe consistere in un'esposizione analitica di fatti gli uni dipendenti dagli altri, per i quali si scorgesse come dai primi e più semplici siamo graduatamente giunti alle attuali positive cognizioni», di modo che «mostrandoci i due estremi c'indicherebbe più facilmente la strada da percorrere, per andare in cerca delle altre verità desiderose di venire alla luce» (37). Non avremmo più allora la storia degli errori, ma quella delle scienze e del faticoso cammino dell'uomo verso il miglioramento sociale.

L'altro problema posto dal Teramano riguarda la definizione di un criterio a cui la metodologia storica deve rigorosamente rifarsi. Perché l'analisi storica possa realmente sperare in una riproduzione veritiera degli avvenimenti occorre che essa sia in grado di mostrare con certezza la verità stessa dei fatti oggetto d'indagine.

 

Ma come si può sapere un avvenimento da chi non ne fu spettatore? o per averne sentito un rapporto o racconto di chi vi fu testimone, o per seconda mano da chi ne ascoltò il racconto. Questo costituisce positivamente la storia. […] Due condizioni par che siano primamente necessarie a dar la base alla storica verità ed alla moral certezza che ne deve risultare. La prima: che il fatto non sia da opposizione reale colle leggi le più confermate dal mondo fisico e morale. La seconda: che i testimoni degli avvenimenti abbino voluto, potuto e saputo dire la verità. Questi canoni critici sviluppati su tutte le loro applicazioni sono i perni su i quali lo spirito umano può giudicare dei gradi della verità, o sia della certezza o probabilità storica che vogliam dire (38).

 

L'affermazione del criterio verità-certezza (certamente di ascendenza vichiana (39)) trova in Delfico un ulteriore rafforzamento nell'estensione a tale principio della concezione sensistica. Egli intende la certezza essenzialmente come «certezza fisica», proveniente dalle sensazioni e dalle successive elaborazioni dello spirito. Al di fuori del riscontro sensoriale non vi è più certezza, ma solo probabilità, la cui base è  nella possibilità del fatto e nei motivi di credenza per chi racconta (40).

Da questa premessa Delfico parte per mostrare in quale grave errore siano caduti quanti hanno esaltato la certezza dei fatti storici. Contro costoro porta a sostegno esempi del mondo greco e di quello romano, dai quali si evince come la veridicità sia stato un problema estraneo agli storici o per lo meno da essi troppo spesso trascurato, vuoi perché ritenevano bastevole limitarsi alla tradizione orale e alle memorie, vuoi perché incapaci di liberarsi delle proprie passioni e dei propri sentimenti e stati d'animo. Diffidenza tuttavia egli mostra non soltanto verso gli storici antichi, che come Livio e Sallustio furono «alienati involontariamente dal rispetto pel vero» (41), ma anche verso quelli contemporanei, i cui racconti si fondano raramente su testimonianze dirette e sempre più invece su ipotesi e deduzioni.

Lo stato di dubbio e d'incertezza che Delfico manifesta verso la storia non si traduce però nell'affermazione dello «storico pirronismo», cioè in una negazione assoluta della verità storica, bensì nel rifiuto di una certa storiografia, dal quale traspaiono indicazioni di linee metodologiche nuove. Occorre superare l'atteggiamento psicologico di assoluta e passiva credulità con il quale ci si è posti e ci si pone di fronte ai racconti storici, per conferire credibilità soltanto a quelle produzioni che consentono un processo di «verificazione di tutte quelle condizioni e motivi, dalla compiuta combinazione de' quali solo la verità e la certezza possono risultare» (42). Diversamente da quanti, come La Mothe Le Vayer, avevano visto nell'eccessiva credulità degli uomini un ulteriore presupposto del proprio pirronismo storico (43), Delfico considera la credulità e il  pirronismo «due malattie della mente», ugualmente «assai gravi», caratterizzate l'una «dall'inerzia», l'altra «dalla debolezza». Sarebbe utile pertanto formulare una gradualità della probabilità storica, relativamente al tempo e alla natura degli avvenimenti, alla presenza o meno di testimoni, alle qualità personali degli storici, sulle quali Delfico insiste in maniera particolare. Prima di concedere credibilità allo storico occorre indagare sulle sue qualità fisiche, morali e intellettuali, accertare che sia scevro di pregiudizi di qualunque genere e libero da influenze politiche o religiose, così da risultare illuminato unicamente dalla ragione e spinto dall'amore per il vero.

Il principio dell'esperienza sensoriale quale condizione essenziale della certezza storica non è oggetto nell'elaborazione delficina di una rigida e meccanicistica applicazione. Un ricorso assoluto ed esclusivo ai postulati del sensismo, quasi fossero bastevoli a conferire carattere scientifico all'analisi storica, trova infatti una smentita da parte dello stesso Delfico, per il quale i limiti e gli ostacoli che si frappongono al ritrovamento della verità delle vicende passate permangono anche per gli storici contemporanei che narrano gli avvenimenti presenti. A tal proposito egli riproduce integralmente, tradotto in italiano, il «bel ragionato discorso» di Tiraboschi (44), in cui si accorda scarsa attendibilità agli scrittori contemporanei che solitamente incorrono in errore «o per ignoranza o per malizia». Assieme alle cause materiali, come ad esempio la distanza locale, e assieme all'eccessiva sterilità nei racconti, alla negligenza nell'esaminare gli eventi narrati, all'esagerata credulità o all'ostinata incredulità verso i racconti popolari, Tiraboschi valuta le cause di natura psicologica che inducono lo storico a non riferire il vero, nonostante sia testimone oculare di un avvenimento. Tale è il caso di chi, scrivendo per adulazione, per prevenzione o, peggio ancora, per spirito di partito, perde l'obiettività e si abbandona a storie agiografiche ricche di mistificazioni. Ma, guardandosi bene dal promuovere con tale critica un «pericoloso universale pirronismo», egli è pieno di ammirazione per lo storico dotto, libero da prevenzioni, nemico dei partiti e amante del vero, che non scrive la storia senza aver prima raccolto con cura e intelligenza i documenti e le prove più complete ed esaurienti, proprio come un «bravo e circospetto giudice» (45) nell'adempimento della sua attività. Il discorso di Tiraboschi, di cui Delfico mostra di condividere sia la pars destruens che quella construens, pone l'accento sulla forza del dubbio, fino a farne una regola metodologica, di malebranchiana memoria (46), in grado di stimolare il ricercatore a corroborare le proprie affermazioni con una ricca e probante documentazione.

Appare chiaro a questo punto come il problema principale per il Teramano non sia tanto quello di stabilire la scientificità o meno della storia, se cioè essa possa a buon diritto appartenere al rango delle scienze, quanto piuttosto quello di indicare e fissare nuovi postulati metodologici che  consentano di qualificare la storia non come scienza bensì, se si può utilizzare un'espressione di Lucien Febvre, «come studio condotto scientificamente» (47).

Agli storici Delfico rimprovera di aver tramandato pregiudizi ed errori che hanno lasciato l'umanità in uno stato di ignoranza e di superstizione. Così, vedendo Sparta e Roma nascere povere e divenire in seguito potenti, si ritenne, senza ricercare le cause di quella grandezza, che la povertà fosse il presupposto dello sviluppo e della felicità delle nazioni. Allo stesso modo, narrando continuamente storie di guerre e di popoli infelici si trasse la convinzione che la pace e la felicità fossero condizioni precluse al genere umano (48). Né possono avere una funzione educativa i fatti che la storia ci ha portato ad esempio, poiché spesso la loro nefandezza rende l'imitazione addirittura più dannosa che vantaggiosa. Nessuna imitazione è poi possibile se prima non si raggiunge una conoscenza profonda e completa dei fatti imitabili e delle circostanze che li hanno prodotti. Ma dal momento che essa resta incompleta, si deve concludere, osserva Delfico richiamandosi a Bolingbroke e a Guicciardini, che la stessa imitazione «è cosa in vero assai malagevole e pericolosa» (49).

Nella naturale facoltà imitativa Delfico vede la prima e la vera sorgente dei «migliori affetti o sentimenti» degli uomini, i quali hanno però abusato di questa loro qualità e se ne sono serviti soprattutto per riprodurre vizi ed emanazioni dell'orrore (50). Oggetto dell'attività imitativa devono essere infatti, per lo scrittore teramano, unicamente le manifestazioni relative all'umano «civilizzamento», quali le belle arti, i felici concepimenti, i sublimi sentimenti, i progressi sociali. La stessa conoscenza storica potrebbe rivelarsi di notevole interesse qualora riuscisse ad indagare le cause per cui lo sviluppo della civiltà è stato spesso suscettibile di interruzioni e di involuzioni. Conoscendone le cause, non sarebbe difficile trovare il modo per rimuoverle e accelerare il processo di graduale incivilimento del genere umano (51). L'indagine storica, permetterebbe così di recuperare positivamente l'eredità del passato, che cesserebbe di appartenere alla memoria per divenire una componente integrante del processo storico contemporaneo.

Quest'azione di cerniera tra il tempo andato e quello avvenire rappresenta l'aspetto più interessante della storia. Essa la pone su un piano di parità con le altre scienze a cui l'accomuna il merito di protendere al miglioramento fisico e morale dell'uomo. Ma perché la ricerca storica possa adempiere a queste funzioni conoscitive si richiede che essa sia «qual non esiste», cioè una disciplina nuova, ancora intentata, che Delfico chiama anche «storia delle scienze» quale

 

dev'essere quella delle cognizioni o verità esposte nell'ordine progressivo, ciò che costituisce quasi un metodo d'invenzione, o un sistema analitico delle medesime: ciò che forma la vera storia dei progressi dello spirito relativa al soggetto di cui si occupa. E che altro sono infatti le scienze, se non le verità esposte in tal metodo amico all'umana intelligenza? La storia degli errori può costituire l'erudizione degli errori; ma la storia della verità costituisce essenzialmente la scienza. Nel modo proposto essa c'indica gli estremi, e mostrandoci il punto donde siamo partiti, e quello dove ci troviamo, ci segna più distintamente la strada da progredire. La storia della natura e quella dello spirito umano così correrebbero parallele, e potrebbesi in tal modo considerar la storia sotto un aspetto più utile e più favorevole alle scienze ed all'umanità, cioè come le serie successive di cangiamenti avvenuti alla specie, e delle cagioni per le quali furono prodotti (52).

 

Emerge qui l'idea di uno strumentalismo storiografico: ci si rivolge al passato per scoprire le leggi dell'evoluzione della società le quali, oltre a fornire una conoscenza più approfondita del presente, permettono di intravedere le linee del futuro sviluppo dell'umanità. Le cognizioni storiche perdono il carattere di sterile nozionismo, che hanno sempre avuto, e acquistano un valore intrinseco: «Sobriamente conoscendo quel che fu», afferma Delfico a conclusione della sua opera, «potremo facilitarci la strada a saper ampiamente quel che è» (53). La storia cessa di essere, usando un'espressione moderna, l'histoire événementielle, limitata cioè al racconto delle vicende politico-militari e diviene la storia progressiva delle conoscenze, delle esperienze, delle osservazioni, delle scoperte, così come essa era stata compiuta da Fourcroy per il mercurio (54).

 

Sia benedetta la storia - scrive all'abate Jannelli, dopo aver ribadito l'idea di una scienza analitica e ragionata - quando mi mostrerà questi progressi dell'umanità; poiché facendomi conoscere quali cagioni produssero probabilmente tali e tali effetti, potremo studiarci a riprodurle o ad allontanarle secondo la loro indole,

 

e ciò senza lo stupore di nessuno «poiché tutto l'umano sapere va a cercar nelle origini le prime cagioni della sua esistenza» (55). Nulla esclude dunque che, se adeguatamente rinnovata, possa sorgere la storia ragionata o la «vera critica storica», con le qualità proprie di una scienza alla quale le stesse scienze si rifacciano per trovarvi la loro origine e il loro fondamento, oltre alle direttive per nuovi progressi e avanzamenti

 

Io mi vado augurando - conclude nella lettera a Jannelli - che i vostri travagli potranno in qualche modo imprimere su la storia l'impronto [sic!] della verità ed il pregio assai maggiore, cioè quello della utilità. E con ciò lungi di sentire, anche  confermate  le mie  idee,  colle  quali  contrastai  questi  pregi alla storia, qual'esse si trova ancora; non quale potrebb'essere, e mi auguro, che sarà nelle vostre mani (56)

 

Delfico si pone così sullo stesso piano di Jannelli, in quanto «entrambi animati dallo stesso pensiero di essere utili all'umanità», anche se il primo «ebbe in mira di scoprire un errore», mentre il secondo avrà «il bel vanto di distruggerlo, e far comparire nella sua luce il vero» (57). E questo nell'essenza dello spirito dell'illuminismo per il quale il philosophe è colui che - come afferma Kant (58) - ha il coraggio di servirsi del proprio intelletto per far uscire il genere umano dallo stato di «minorità» in cui si trova, denunciando errori ed inganni e facendo emergere la verità vera delle cose, anche nei confronti di tutto ciò che da secoli viene passivamente accettato.

La ragione è per Delfico essenzialmente uno strumento critico e operativo, di battaglia polemica e di azione politica e come tale deve rivolgere la propria indagine alla sfera concreta, alla individuazione dei problemi reali degli uomini e alla loro effettiva soluzione, di modo che la conoscenza - che ha il proprio fondamento nella teoria delle sensazioni - diventi innanzitutto conoscenza di cose utili e necessarie al benessere e alla felicità del genere umano. Si eviterebbe così di ripetere l'errore spesso commesso in passato, quando - scrive Delfico - «invece di cercare le cagioni de' fenomeni fisici e morali si vollero indovinare, ed invece di prendere per guida l'analisi, le esperienze, e le osservazioni si produssero delle ipotesi, e da essi i sistemi, e si dettarono le leggi della Natura, esistenti solo nel cranio degli inventori» (59).

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(1) Napoli, Porcelli, 1781, Epoca I, pp. 329-38. La Lettera delficina venne ricordata alle pp. 18-21 della recensione al volume di Grimaldi apparsa nel fascicolo del febbraio 1784 del «Nuovo Giornale enciclopedico» per mano, molto probabilmente, del suo principale estensore Alberto Fortis.

(2) G. Profeta, Una ignorata dissertazione di Melchiorre Delfico sugli incantatori di serpenti, in «Lares», a. XLV (1979), n. 1, pp. 5-53, ora anche nel volume Lupari incantatori di serpenti e santi guaritori nella tradizione popolare abruzzese, L'Aquila-Roma, Japadre, 1995, col titolo Una ignorata dissertazione di Melchiorre Delfico sugli incantatori di serpenti nel quadro della confutazione illuministica degli errori popolari, pp. 79-138.

(3) Cfr. Lettera delficina, cit., pp. 330 e 334.

(4) Per le notizie biografiche del santo cfr. L. Tosti, Della vita di S. Domenico Abate dell'Ordine di S. Benedetto, Napoli, Festa, 1855.

(5) Per una rassegna delle testimonianze sul culto di S. Domenico abate in Cocullo si veda il volume di G. Profeta, Un culto pastorale sull'Appennino, Pescara, Libreria dell'Università, 1993, pp. 101-79 e la ricca bibliografia in esso contenuta. Spunti critici anche in G. Pansa, Miti, leggende e superstizioni dell'Abruzzo, Sulmona, Forni Editore, 1924 e in a. M. Di Nola, Gli aspetti magico-religiosi di una cultura subalterna italiana, Torino, Boringhieri, 1976, parte prima, Il culto abruzzese dei serpenti, pp. 29-178.

(6) Cfr., in proposito, G. Profeta, Il rito delle serpi di Cocullo e la sua funzione socio-culturale, L'Aquila, Japadre, 1975.

(7) Per una ricostruzione della polemica contro gli incantatori di serpenti e i loro presunti poteri taumaturgici, precedente quella di Delfico, cfr. G. Profeta, Lupari incantatori di serpenti e santi guaritori, cit., pp. 105 sgg.

(8) Cfr. Lettera delficina, cit., p. 335.

(9) Cfr. ivi, pp. 336-7.

(10) G. Profeta, Lupari incantatori di serpenti e santi guaritori, cit., p. 130.

(11) Lettera delficina, cit., p. 338.

(12) M. Delfico, Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, Napoli, presso Vincenzo Orsino, 1784, ora in Opere complete, vol. III, Teramo, Fabbri, 1903, pp. 225-60. La raccolta, che non esaurisce tutti gli scritti delficini (alcuni dei quali pubblicati successivamente, altri ancora inediti), esce a Teramo dal 1901 al 1904, in quattro volumi, a cura di G. Pannella e L. Savorini.

(13) Cfr. ivi, pp. 253-4.

(14) M. Delfico, Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, Milano, Sonzogno, 1804, ora in Opere complete, cit., vol. I, pp. 243-481.

(15) Ivi, p. 249.

(16) A. Garosci, San Marino. Mito e storiografia tra i libertini e il Carducci, Milano, Comunità, 1967, p. 198.

(17) M. Delfico, Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, cit., p. 250.

(18) Per un approfondimento di questo tema, cfr. A. Garosci, La formazione del mito di San Marino, in «Rivista storica italiana», a. LXXI (1959), fasc. I, pp. 21-47; Il mito di San Marino, in «Rassegna storica toscana», a. XIV (1968), n. 1, pp. 5-31, nonché il già citato volume San Marino; N. Bobbio, La leggenda di San Marino, in «Nuova Antologia», a. 122 (1987), fasc. 2162, pp. 65-81; R. Montuoro, Come se non fosse nel mondo. La Repubblica di San Marino dal mito alla storia, Repubblica di San Marino, Edizioni del Titano, 1992, il quale, come gli altri autori, si sofferma a lungo sulle Memorie storiche delficine.

(19) Cfr. P. Aebischer, Le plus ancien témoignage relatif au mythe Saint-Marinais de la «libertas perpetua», in «Anuario de estudios medievales», Barcelona, 5, 1968, pp. 223-35.

(20) Cfr. De' Ragguagli di Parnaso, Centuria Seconda, Ragguaglio VIII, Venetia, appresso Barezzo Barezzi, 1613.

(21) Cfr. Il Belluzzi, o vero Della Città felice, in Dialoghi, Venetia, appresso Marco Ginammi, 1625, pp. 160-73.

(22) Cfr. Dell'origine et governo della Repubblica di San Marino, Padova, Crivellari, 1633.

(23) M. Delfico, Memorie storiche della Repubblica di S. Marino, cit., p. 246.

(24) Cfr. G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi, Napoli, Edizioni della «Critica», 1903, pp. 46 sgg., il quale afferma che nessuno prima di allora aveva negato la storia nel modo assoluto del Teramano. Sulle critiche gentiliane a Delfico, cfr. M.L. Cicalese, Giovanni Gentile e la Rivoluzione francese, in Atti del congresso su La storia della storiografia europea sulla Rivoluzione francese, vol. II, Roma, Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea, 1990, pp. 471-4. Un estremo radicalismo nell'«anti-storicismo» delficino è stato rilevato anche da B. Croce, La storiografia in Italia dai cominciamenti del secolo decimonono ai giorni nostri: 1. Il «secolo della storia»  e  2. Il nuovo pensiero storiografico, in «La Critica», a. XIII (1915), rispettivamente fasc. I, pp. 16-8 e fasc. II, p. 95, poi rielaborati nel volume Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, Bari, Laterza, 1921, e da G. De Ruggiero, Il pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Bari, Laterza, 1921, pp. 158-65.   

(25) Forlì, Stamperia Roveri e Casali, 1808, ora in Opere complete, cit., vol. II, pp. 11-177.

(26) M. Delfico, Pensieri su l'istoria, cit., p. 11.

(27) Per un quadro d'insieme delle posizioni di questi autori, cfr. M. Petrocchi, Razionalismo architettonico e razionalismo storiografico, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1947, pp. 55-93.

(28) M. Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 109. Constantin-François Volney [1757-1820] prese parte attiva all'Assemblea Nazionale. Arrestato durante la lotta tra girondini e montagnardi venne liberato nel 1794, dopo la caduta di Robespierre. Con altri ideologi si schierò con Napoleone il 18 brumaio per divenirne presto avversario. Scrisse Les Ruines, où Méditations sur les Révolutions des Empires [Genève 1791] nelle quali simpatizzò con le tesi materialistiche e sensistiche. Per un esame delle dottrine filosofiche e scientifiche di Volney, cfr. S. Moravia, Il pensiero degli idéologues. Scienza e filosofia in Francia (1780-1815), Firenze, La Nuova Italia, 1974, pp. 585-671.

(29) Il titolo per esteso dell'opera è Leçons d'histoire, prononcées à l'École Normale en l'an III de la République française, par C.-F. Volney, Paris, chez J.A. Brosson, an VIII.

(30) Sull'affinità di vedute dei due autori, cfr. C. Rosso, De Volney à Melchiorre Delfico: l'histoire, une discipline aussi inutile que dangereuse, in L'héritage des lumières: Volney et les idéologues, Angers, Presses de l'Université, 1988, pp. 345-56. 

(31) M. Delfico, Pensieri su l'istoria, cit., p. 98.

(32) Ivi, p. 15.

(33) Cfr. M. Delfico, Pensieri su l'istoria, cit., p. 34. Anche per Volney la storia non ha fatto altro che narrare «guerres éternelles, égorgemens de prisonniers, massacres de femmes et d'enfans, perfidies, factions intérieures, tyrannie domestique, oppression étrangère […]. Sous des noms divers, un même fanatisme ravage les nations; les acteurs changent sur la scène; les passions ne changent pas, et l'Histoire entière n'offre que la rotation d'un même cercle de calamités et d'erreurs» (Leçons d'histoire, cit., pp. 236 e 246).

(34) M. Delfico, Pensieri su l'istoria, cit., pp. 36-8. Abusiva filiazione della storia sono state le biografie, scritte quasi sempre per «celebrar qualche principe»; le storie dei propri paesi, per cui non ve n'è uno «privo della sua storia sacra, profana e letteraria, colla serie de' vescovi, arcipreti e magistrati»; così come tutte quelle storie dettate esclusivamente dalla vanità di far sfoggio di conoscenze strane e singolari o «bella figura nelle compagnie» (ivi, pp. 36-7 e 40).

(35) Ivi, p. 30.

(36) Cfr. Considérations sur les causes de la grandeur des Romains et de leur décadence [1734], in Oeuvres, Amsterdam-Lepzig, Arkstée et Merkus, 1764, tome sixième, chap. XVIII, p. 166, in cui si trova la formulazione di una organica teoria della causalità e del divenire storico, in seguito ripresa e sviluppata da Montesquieu nella sua opera maggiore, De l'Esprit des lois.

(37) M. Delfico, Pensieri su l'istoria, cit., p. 43.

(38) Manoscritto delficino dal titolo Della certezza o probabilità storica, conservato presso la Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo «Manoscritti Delfico», Misc. 4, n. 951.

(39) Cfr. G. Vico, De antiquissima italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda [1710], trad. it., Dell'antichissima sapienza italica da dedursi dalle origini della lingua latina, in Opere, a cura di F. Nicolini, Milano-Napoli, Ricciardi, 1953, lib. I, cap. I, pp. 248-50.

(40) Sull'interpretazione sensistica che Delfico offre del factum vichiano, cfr. le obiezioni di F. Zambelloni, Le origini del kantismo in Italia, Milano, Marzorati, 1971, pp. 140 sgg. Spunti critici anche in F. Tessitore, Da Cuoco a De Sanctis. Studi sulla filosofia napoletana nel primo Ottocento, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, pp. 16 sgg.; R. Franchini, Delfico e la storia, in Studi politici in onore di Luigi Firpo, a cura di S. Rota Ghibaudi e F. Barcia, Milano, Angeli, 1990, vol. II, pp. 862 sgg.

(41) M. Delfico, Pensieri su l'istoria, cit., p. 58.

(42) Ivi, p. 69.

(43) Cfr. C. Borghero, La certezza e la storia. Cartesianesimo, pirronismo e conoscenza storica, Milano, Angeli, 1983, pp. 67 sgg.

(44) Girolamo Tiraboschi [1731-94] gesuita, diviene nel 1770 bibliotecario del duca Francesco III d'Este di Modena. Conosciuto soprattutto per la celebre Storia della letteratura italiana [Modena 1772-81], è autore di un breve ragionamento, Discours sur l'autorité des historiens contemporains, recitato nella pubblica Accademia dell'Arcadia il 3 agosto 1780 e pubblicato la prima volta nell'«Encyclopédie méthodique. Histoire», tome premier, Padoue 1784. La versione italiana del testo, dal titolo Ragionamento sopra l'autorità degli storici contemporanei, è in appendice a M. Petrocchi, Razionalismo architettonico e razionalismo storiografico, cit., pp. 103-19.

(45) M. Delfico, Pensieri su l'istoria, cit., p. 78.

(46) Cfr. N. Malebranche, De la recherche de la vérité [1674], livre premier, chap. XX, § III, in Oeuvres complètes, édité par G. Rodis-Lewis, tome I, Paris, J. Vrin, 1962, p. 188.

(47) L. Febvre, Problemi di metodo storico, Torino, Einaudi, 1976, p. 141.

(48) Su questi e altri pregiudizi tramandati dai racconti storici, cfr. M. Delfico, Pensieri su l'istoria, cit., pp. 101-5.

(49) Ivi, p. 94. Delfico allude ai dubbi che Henry Bolingbroke aveva manifestato circa l'applicazione ed imitazione degli storici esempi, nonostante egli fosse «uno dei più grandi assertori del merito della storia» (cfr. Pensées de Milord Bolingbroke sur différents Sujets d'Histoire, de Philosophie, de Morale, Amsterdam, Prault, 1771, pp. 231-52, opera di cui il Teramano era in possesso), e cita il passo della Istoria d'Italia (Milano, Dalla Società Tipografica de' Classici Italiani, 1803, vol. I, lib. I, p. 137) in cui Guicciardini aveva affermato: «È senza dubbio molto pericoloso il governarsi cogli esempi, se non concorrono non solo in generale, ma in tutti i particolari le medesime ragioni; se le cose non sono regolate con la medesima prudenza, e se, oltre a tutti gli altri fondamenti, non v'ha la parte sua la medesima fortuna».

(50) Cfr. M. Delfico, Ricerche su la sensibilità imitativa considerata come il principio fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle Nazioni [1813], in Opere complete, vol. III, cit., p. 482.

(51) Cfr. M. Delfico, Pensieri su l'istoria, cit., p. 105.

(52) Ivi, p. 99.

(53) Ivi, p. 174.

(54) Antoine-François Fourcroy [1755-1809], chimico e uomo politico, fondò nel 1789 con Lavoisier e Berthollet le «Annales de Chimie». Nel 1792 pubblicò a Parigi la Philosophie chimique, tradotta in italiano nel 1794, in cui passava in rassegna tutte le verità fondamentali della scienza chimica ed offriva un quadro di tutte le mutazioni di cui erano suscettibili i corpi naturali nelle loro reciproche attrazioni. Del 1801 è l'altra sua opera importante, Système de connaissance chimique et de leur applications aux phenomènes de la nature et de l'art. Partecipò alla vita politica della Francia rivoluzionaria e sotto Napoleone Bonaparte divenne ministro dell'Istruzione pubblica.

(55) Lettera s.d. di Delfico all'abate D. Cataldo Jannelli, Dell'uso vero della storia, in Opere complete, cit., vol. IV, p. 121.

(56) Ivi, p. 122. Nei confronti di Jannelli, Delfico nutre una sincera stima nonostante l'Abate nei suoi Cenni sulla natura e necessità della scienza delle cose e delle storie umane, Milano, Fontana, 1832 (Ia ediz., Napoli 1817) lamenti che abbia «largo corso presso di noi un libro [Pensieri su l'istoria], che dell'inutilità e danno della storia assai lungamente e sottilmente favelli» (ivi, p. 96). Ritornando sul problema della storia in una lettera del 1° ottobre 1830 all'amico Dragonetti, Delfico ha modo di ribadire la sua ammirazione per l'opera di Jannelli: «Io non conosco le due opere che m'indicate cioè del Niebuhr e dell'Herder, ma fra noi non conosco che il bravo Abate Iannella [sic!] il quale incominciò ad occuparsene con buona provigione di opportune cognizioni e dopo un primo volume […] non so perché non proseguisse il bel lavoro» (Spigolature nel carteggio letterario e politico del march. Luigi Dragonetti, a cura del marchese G. Dragonetti suo figlio, Firenze, Uffizio della Rassegna Nazionale, 1886, p. 135). Nei Cenni sulla natura Jannelli, dopo aver definito il concetto di «Istoria» e di «utilità» e negato che la storia potesse essere fisicamente, eticamente o politicamente utile, riconosce che «la vera utilità delle storie, utilità universale e manifesta è l'utilità Scientifica, l'utilità letterata», la sola che soddisfi il bisogno vivissimo che abbiamo di sapere e di apprendere sempre nuove conoscenze (ivi, p. 104). Sull'Abate cfr. F. Crispini, Dubbio, credenza, persuasione nella scienza storica dopo Vico: C. Jannelli, in Studi Politici in onore di Luigi Firpo, cit, vol. III, pp. 341-56.

(57) Ivi, p. 119.

(58) Cfr. I. Kant, Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung? [1784], trad. it., Che cos'è l'illuminismo, Roma, Editori Riuniti, 1987, p. 48.

(59) M. Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., p. 42.