Degli incantatori
di serpenti e del loro presunto potere antiofidico Delfico si occupa in
una breve Lettera senza titolo, inserita a guisa di nota nel VI
tomo degli Annali del Regno di Napoli di Francescantonio Grimaldi
(1), il quale si era rivolto all'amico teramano per avere notizie
sull'esistenza nella Marsica moderna di antiche costumanze di carattere
ofidico e su eventuali relazioni tra queste e i rituali moderni.
Rimasta a lungo
sconosciuta, la Lettera è stata riproposta all'attenzione degli
studiosi da Giuseppe Profeta, che ne ha, alcuni anni fa, ripubblicato il
testo (2).
La dissertazione è
l'occasione per Delfico per muovere una dura critica nei confronti delle
mitologie la cui origine sarebbe dovuta a superstizione, ad ignoranza o
ad «impostura». Motivi, questi, che da sempre hanno indotto gli uomini,
persino quelli più «sensati», a considerare i fenomeni naturali, di cui
non si è ancora riusciti a fornire una spiegazione razionale, come
prodigi, come opere «soprannaturali». E questo perché l'uomo ha, per
natura, la tendenza ad attribuire ad ogni effetto una causa, per cui
ogni qualvolta egli non è in grado di trovare la ragione vera delle cose
si rifugia dietro «cose invisibili» o si «acquieta alle favole» (3).
Da questa «malattia dello spirito» nessun popolo è stato mai veramente
esente.
Uno degli eventi
che da sempre ha attirato la curiosità degli uomini è il potere che
alcuni sembrano possedere contro le serpi e i loro morsi velenosi.
Nell'antichità sarebbe stata questa una peculiarità propria di alcune
etnie, in particolare dei Psilli africani e dei Marsi nostrani. Ancora
oggi Cocullo, un piccolo paese nel territorio marsicano, in provincia
dell'Aquila, è rinomato per la virtù antiofidica dei serpari.
Secondo la
tradizione popolare - riferisce Delfico - l'origine del culto
risalirebbe alla figura di S. Domenico abate, monaco cassinese, vissuto
a cavallo tra il decimo e l'undicesimo secolo (4),
che di passaggio a Cocullo si rese artefice di numerosi prodigi tanto
che gli abitanti del luogo lo pregarono di restare o di lasciare loro
una sua reliquia affinché fossero preservati dal veleno dei serpenti che
infestavano il paese. Accogliendo la supplica, il santo donò ai
cocullesi, prima di ripartire, un suo dente molare e un ferro tolto dai
piedi della sua mula ed ordinò a tutti gli animali velenosi di non
recare più, d'ora innanzi, alcun danno a quelle popolazioni. Da allora
gli abitanti sono talmente sicuri di essere immuni dagli animali
velenosi che non ricordano di aver ricevuto mai alcuna offesa (5).
Della tutela assicurata loro dal santo essi danno prova in una
processione durante la quale gli abitanti di Cocullo recano in mano,
nient'affatto intimoriti, serpenti vivi (6).
Lungi dal
considerare il fenomeno come prodigio, Delfico conduce nella
dissertazione una dura requisitoria contro gli «impostori» serpari (7),
i quali spacciano per miracoli e portenti ciò che in realtà non avrebbe
nulla di prestigioso ma sarebbe solo il risultato o di una conoscenza
particolare delle caratteristiche dei serpenti o di effetti naturali (8).
Le ricerche effettuate avrebbero infatti dimostrato che il morso della
vipera è letale solo nel caso in cui il veleno riesca a raggiungere il
sangue e i centri nervosi e che ciò possa essere scongiurato qualora sia
succhiato tempestivamente. L'illuminista teramano, inoltre, non sembra
neppure escludere (ma la congettura - egli ritiene -
necessiterebbe di una verifica sperimentale) che il fenomeno
possa avere anche una «causa locale» di carattere fisico-naturale,
l'ipotesi cioè che l'aria, per l'esalazione di alcuni vegetali o di
vapori minerali, avrebbe in quei luoghi una proprietà «balsamica» contro
i veleni mentre risulterebbe particolarmente nociva per gli animali
velenosi (9).
Se la spiegazione
della virtù antiofidica attraverso il fattore climatico risulta essere
infondata, essendo il motivo vero la innocuità dei serpenti o l'adozione
di particolari tecniche come quelle di far saltare i denti agli ofidi o
di costringere le serpi a scaricare il loro veleno mordendo oggetti
morbidi poco prima del rito, non vi è dubbio tuttavia che il problema di
fondo che Delfico si pone nella dissertazione - la quale si colloca nel
filone della letteratura illuministica di «confutazione delle
superstizioni» - sia soprattutto quello di «far luce sulla
mistificazione vecchia e nuova degli incantatori di serpenti» (10).
Se il culto
antiofidico continua a sopravvivere nel tempo è perché ancora persiste
una diffusa superstizione e un'eccessiva credulità nei confronti delle
presunte qualità taumaturgiche dei serpari sia da parte di coloro che
sono stati morsi sia da parte di coloro che soltanto «temono o credono
di esserlo» (11).
La
confutazione dell'errore e la ricerca della verità che Delfico si
prefigge nella dissertazione sugli incantatori di serpenti costituiscono
anche i due obiettivi che egli «ha in mira» allorché affronta il tema
della storia. E non è certo casuale il fatto che proprio nell'Elogio
(12)
di Francescantonio Grimaldi del 1784, analizzando gli Annali del
Regno dell'amico prematuramente scomparso, egli manifesti tale
esigenza allorché esprime la convinzione che «l'ottimo storico» dovrebbe
narrare la storia evitando di fermarsi «su i fatti isolati», per cercare
invece le cause degli avvenimenti, così da «richiamarli quasi a nuova
vita». All'idea di una storia intesa come «nudo racconto di fatti»,
volta ad occupare il tempo «degli oziosi e degli annojati», Delfico
contrappone l'idea di una storia che sia «d'un utile presente» per il
genere umano (13).
Il principio dello
studio della storia in stretta relazione con la realtà presente trova
diretta applicazione nelle Memorie storiche (14)
di San Marino. Nonostante, infatti, l'Autore dichiari, nelle battute
iniziali della prefazione, di non essere «nell'opinione di coloro i
quali riguardano la storia come maestra della vita e dispensatrice della
civile sapienza» per il fatto di mostrare «sempre scarsi gli annali
della virtù in confronto dei voluminosi giornali del vizio e
dell'orrore» (15),
in realtà poi egli, attraverso una «ricerca diligente» e «vasta», scrive
«una vera storia» (16).
Delfico
indaga su come San Marino sia riuscita a conservare intatta nei secoli
la sua indipendenza, a fronte di tanti sconvolgimenti di repubbliche e
di imperi, ed abbia «felicemente adombrato un tipo dei veramente umani
governi» (17).
Ricerca, in altri termini, nella storia le ragioni del «mito» di San
Marino (18),
di come cioè un piccolo stato abbia mantenuto nel tempo la propria
libertas (19)
e serbato l'antica e prediletta forma repubblicana, tanto da assurgere a
modello politico agli inizi del Seicento con Traiano Boccalini (20),
Lodovico Zuccolo (21)
e Matteo Valli (22).
Ed è proprio il fatto di scorgervi un modello, una delle ragioni che
spingerà Delfico, nel 1799, a scegliere San Marino come luogo di esilio.
Di fronte alla «tempestosa crisi» di fine secolo, la conoscenza dei
«fatti permanenti o conservati nella storia» della piccola repubblica
diventava particolarmente interessante perché mostrava la possibilità
reale, non utopistica, di dar vita ad una forma di civile associazione
«più adatta o conveniente» alla specie umana. Sotto tale aspetto dunque
scriverne la storia era tutt'altro che inutile, perché essa avrebbe
mostrato le vicende di un popolo che poteva costituire «un esempio degno
d'imitazione» (23).
Questa
«rivalutazione» dell'esperienza storica appare quanto meno strana in un
pensatore solitamente collocato dalla storiografia neo-idealistica tra
gli esponenti più rappresentativi dell'antistoricismo italiano
(24).
È nei Pensieri
su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima (25)
che Delfico affronta il problema della conoscenza storica in tutta la
sua interezza ed estensione, per stabilire «se la scienza di ciò che fu,
debba preferirsi a quella dell'esistenza; e se l'aver trascurato queste
verità, poté ritardare i felici progressi della specie» (26).
È muovendo dall'assunto dell'arretratezza degli studi storici che si
forma in lui la determinazione di avviare una disamina critica di tutta
la storiografia precedente.
Con la stesura dei
Pensieri Delfico si inserisce nel dibattito sulla storia che si
sviluppa in Europa nella seconda metà del diciottesimo secolo, a cui
prendono parte, oltre ad autori quali Fontenelle, Voltaire, D'Alembert,
Rousseau, Condorcet ed altri, numerosi italiani tra cui Galeani Napione,
Bettinelli, Bertola, Ortes, Bocalosi (27).
Ma fra tutti gli ideologi della storiografia illuministica nessuno,
afferma Delfico, «ha finora portato lo spirito di analisi su la istoria
meglio di Volney» (28).
Delle riflessioni del Francese racchiuse nelle Leçons d'histoire
(29)
risente la stesura dei Pensieri (30).
Quello che lo
scrittore teramano riprende e porta all'estrema conseguenza sono le
argomentazioni addotte da Volney per sostenere i limiti della
storiografia tradizionale. Per buona parte dell'opera egli si dilunga a
mostrare la incertezza della storia, la sua inutilità e i danni che essa
cagiona ingombrando la mente di pregiudizi, mentre nel capitolo
conclusivo verifica la fondatezza delle sue affermazioni con esempi
tratti dalla storia di Roma. Delfico si pone principalmente il problema
della manière d'écrire l'histoire, proprio della storiografia
illuministica, dal momento che «non è nel modo - afferma - in cui sono
state trattate insino ad ora che le storiche ricerche possono influire
felicemente ai progressi delle scienze e dello spirito umano» (31).
A tal fine, denuncia deficienze e manchevolezze che ancora permangono
negli studi storici e lamenta che la proliferazione incontrollata degli
stessi abbia dato luogo ad una loro stagnazione piuttosto che a un
ripensamento critico dei principi e dei criteri della pratica
storiografica. Persino Voltaire, «il più gran battagliere de' pregiudizj»
(32),
le cui opere Le siècle de Louis XIV e l'Essai sur les moeurs
avevano inaugurato un nuovo modo di fare storia, sarebbe rimasto
«inviluppato» nelle pastoie del suo tempo.
Come nella
dissertazione sugli incantatori di serpenti Delfico riconduce la
fondazione del culto ofidico al bisogno naturale dell'uomo di dare ad
ogni cosa una spiegazione così nei Pensieri egli fa derivare
l'origine della storia tradizionale, da una parte, dal bisogno fisico e
dal piacere che l'uomo prova a raccontare le proprie esperienze;
dall'altra, dalla curiosità di conoscere le vicende altrui. Entrambi
questi bisogni alimentarono lo sviluppo dell'immaginazione e di storie
inverosimili, piene di prodigi e di stravaganze, dirette a stimolare la
fantasia degli ascoltatori.
Se la storia
tradizionale è poco attendibile perché lontana dalla verità dei fatti,
non si può certo dire che essa muti considerevolmente con l'introduzione
della scrittura. Poiché nessuno, infatti, pensò mai di chiarire il
significato vero della storia, si ignorò per lungo tempo quale metodo
«fosse da preferire». Ciascuno, pertanto, senza conoscere quali criteri
fossero da privilegiare e quali circostanze da rappresentare per prime,
ricorse al metodo che più si addiceva alla sua opera. Ma difettosi chi
per un verso chi per un altro, quei sistemi («il genealogico, il
cronologico, il drammatico, il geografico, il progressivo, il
retrogrado, l'analitico, il sintetico, il generale, il particolare»)
contribuirono tutti a lasciare la storia in uno stato di imperfezione.
Troppo spesso
l'attività storiografica, afferma Delfico facendo proprie le
osservazioni di Volney, si è limitata a registrare solo le vicende più
vistose, in massima parte biasimevoli, come le guerre, le conquiste, le
distruzioni, gli sconvolgimenti, le imprese dei re, dei generali, degli
eroi: fatti, questi, che configurano la storia come una continua e
successiva ripetizione degli stessi avvenimenti sotto nomi e tempi
diversi (33).
Per secoli la storia non è stata scritta se non «per interesse, per
gratitudine, per ammirazione, o per qualunque più strana bizzarria»,
determinando «un abuso pernicioso, una filiazione dannosa» (34)
della medesima. Raramente, però, dinanzi a produzioni storiche di questo
genere, ci si è chiesti se esse rispecchiassero realmente l'indole della
storia o se quest'ultima potesse essere concepita in maniera diversa.
Scopo ultimo della
ricerca storica è invece, per Delfico, «far conoscere il vero degli
avvenimenti in quella integrità necessaria a soddisfare lo spirito di
osservazione» (35).
Perché dunque la storia possa rivelarsi utile all'uomo occorre che essa
sia innanzitutto vera. La possibilità per le opere storiche di
riprodurre il vero dipende, a suo avviso, dalla soluzione di due ordini
di problemi. Bisogna innanzitutto distogliere l'analisi storica dal
proporre il «secco e nudo racconto» di pochi avvenimenti, per indurla a
valutare le circostanze nel loro complesso, ad indicare i rapporti che
intercorrono tra gli effetti e le loro cause e ad elaborare un quadro
integrale e completo delle cause generali e particolari, occasionali e
permanenti, fisiche e morali, «de' felici o de' contrarj cangiamenti»
delle società umane nel corso dei secoli. Il fatto storico si configura
così come un evento estremamente complesso, la cui conoscenza dipende
non solamente dalla individuazione dell'avvenimento in generale, ma,
come aveva affermato lo stesso Montesquieu (36),
dalla totalità delle cause che lo producono e delle circostanze
particolari che lo completano nella sua integrità. L'opera storica,
scrive Delfico, «dovrebbe consistere in un'esposizione analitica di
fatti gli uni dipendenti dagli altri, per i quali si scorgesse come dai
primi e più semplici siamo graduatamente giunti alle attuali positive
cognizioni», di modo che «mostrandoci i due estremi c'indicherebbe più
facilmente la strada da percorrere, per andare in cerca delle altre
verità desiderose di venire alla luce» (37).
Non avremmo più allora la storia degli errori, ma quella delle scienze e
del faticoso cammino dell'uomo verso il miglioramento sociale.
L'altro problema posto dal Teramano
riguarda la definizione di un criterio a cui la metodologia storica deve
rigorosamente rifarsi. Perché l'analisi storica possa realmente sperare
in una riproduzione veritiera degli avvenimenti occorre che essa sia in
grado di mostrare con certezza la verità stessa dei fatti oggetto
d'indagine.
Ma come
si può sapere un avvenimento da chi non ne fu spettatore? o per averne
sentito un rapporto o racconto di chi vi fu testimone, o per seconda
mano da chi ne ascoltò il racconto. Questo costituisce positivamente la
storia. […] Due condizioni par che siano primamente necessarie a dar la
base alla storica verità ed alla moral certezza che ne deve risultare.
La prima: che il fatto non sia da opposizione reale colle leggi le più
confermate dal mondo fisico e morale. La seconda: che i testimoni degli
avvenimenti abbino voluto, potuto e saputo dire la verità. Questi canoni
critici sviluppati su tutte le loro applicazioni sono i perni su i quali
lo spirito umano può giudicare dei gradi della verità, o sia della
certezza o probabilità storica che vogliam dire (38). |
L'affermazione del
criterio verità-certezza (certamente di ascendenza vichiana (39))
trova in Delfico un ulteriore rafforzamento nell'estensione a tale
principio della concezione sensistica. Egli intende la certezza
essenzialmente come «certezza fisica», proveniente dalle
sensazioni e dalle successive elaborazioni dello spirito. Al di fuori
del riscontro sensoriale non vi è più certezza, ma solo
probabilità, la cui base è nella possibilità del fatto e nei motivi
di credenza per chi racconta (40).
Da questa premessa
Delfico parte per mostrare in quale grave errore siano caduti quanti
hanno esaltato la certezza dei fatti storici. Contro costoro porta a
sostegno esempi del mondo greco e di quello romano, dai quali si evince
come la veridicità sia stato un problema estraneo agli storici o per lo
meno da essi troppo spesso trascurato, vuoi perché ritenevano bastevole
limitarsi alla tradizione orale e alle memorie, vuoi perché incapaci di
liberarsi delle proprie passioni e dei propri sentimenti e stati
d'animo. Diffidenza tuttavia egli mostra non soltanto verso gli storici
antichi, che come Livio e Sallustio furono «alienati involontariamente
dal rispetto pel vero» (41),
ma anche verso quelli contemporanei, i cui racconti si fondano raramente
su testimonianze dirette e sempre più invece su ipotesi e deduzioni.
Lo stato di dubbio
e d'incertezza che Delfico manifesta verso la storia non si traduce però
nell'affermazione dello «storico pirronismo», cioè in una negazione
assoluta della verità storica, bensì nel rifiuto di una certa
storiografia, dal quale traspaiono indicazioni di linee metodologiche
nuove. Occorre superare l'atteggiamento psicologico di assoluta e
passiva credulità con il quale ci si è posti e ci si pone di fronte ai
racconti storici, per conferire credibilità soltanto a quelle produzioni
che consentono un processo di «verificazione di tutte quelle condizioni
e motivi, dalla compiuta combinazione de' quali solo la verità e la
certezza possono risultare» (42).
Diversamente da quanti, come La Mothe Le Vayer, avevano visto
nell'eccessiva credulità degli uomini un ulteriore presupposto del
proprio pirronismo storico (43),
Delfico considera la credulità e il pirronismo «due
malattie della mente», ugualmente «assai gravi», caratterizzate l'una
«dall'inerzia», l'altra «dalla debolezza». Sarebbe utile pertanto
formulare una gradualità della probabilità storica, relativamente al
tempo e alla natura degli avvenimenti, alla presenza o meno di
testimoni, alle qualità personali degli storici, sulle quali Delfico
insiste in maniera particolare. Prima di concedere credibilità allo
storico occorre indagare sulle sue qualità fisiche, morali e
intellettuali, accertare che sia scevro di pregiudizi di qualunque
genere e libero da influenze politiche o religiose, così da risultare
illuminato unicamente dalla ragione e spinto dall'amore per il vero.
Il principio
dell'esperienza sensoriale quale condizione essenziale della certezza
storica non è oggetto nell'elaborazione delficina di una rigida e
meccanicistica applicazione. Un ricorso assoluto ed esclusivo ai
postulati del sensismo, quasi fossero bastevoli a conferire carattere
scientifico all'analisi storica, trova infatti una smentita da parte
dello stesso Delfico, per il quale i limiti e gli ostacoli che si
frappongono al ritrovamento della verità delle vicende passate
permangono anche per gli storici contemporanei che narrano gli
avvenimenti presenti. A tal proposito egli riproduce integralmente,
tradotto in italiano, il «bel ragionato discorso» di Tiraboschi (44),
in cui si accorda scarsa attendibilità agli scrittori contemporanei che
solitamente incorrono in errore «o per ignoranza o per malizia». Assieme
alle cause materiali, come ad esempio la distanza locale, e assieme
all'eccessiva sterilità nei racconti, alla negligenza nell'esaminare gli
eventi narrati, all'esagerata credulità o all'ostinata incredulità verso
i racconti popolari, Tiraboschi valuta le cause di natura psicologica
che inducono lo storico a non riferire il vero, nonostante sia testimone
oculare di un avvenimento. Tale è il caso di chi, scrivendo per
adulazione, per prevenzione o, peggio ancora, per spirito di partito,
perde l'obiettività e si abbandona a storie agiografiche ricche di
mistificazioni. Ma, guardandosi bene dal promuovere con tale critica un
«pericoloso universale pirronismo», egli è pieno di ammirazione per lo
storico dotto, libero da prevenzioni, nemico dei partiti e amante del
vero, che non scrive la storia senza aver prima raccolto con cura e
intelligenza i documenti e le prove più complete ed esaurienti, proprio
come un «bravo e circospetto giudice» (45)
nell'adempimento della sua attività. Il discorso di Tiraboschi, di cui
Delfico mostra di condividere sia la pars destruens che quella
construens, pone l'accento sulla forza del dubbio, fino a
farne una regola metodologica, di malebranchiana memoria (46),
in grado di stimolare il ricercatore a corroborare le proprie
affermazioni con una ricca e probante documentazione.
Appare chiaro a
questo punto come il problema principale per il Teramano non sia tanto
quello di stabilire la scientificità o meno della storia, se cioè essa
possa a buon diritto appartenere al rango delle scienze, quanto
piuttosto quello di indicare e fissare nuovi postulati metodologici che
consentano di qualificare la storia non come scienza bensì, se si può
utilizzare un'espressione di Lucien Febvre, «come studio condotto
scientificamente» (47).
Agli storici
Delfico rimprovera di aver tramandato pregiudizi ed errori che hanno
lasciato l'umanità in uno stato di ignoranza e di superstizione. Così,
vedendo Sparta e Roma nascere povere e divenire in seguito potenti, si
ritenne, senza ricercare le cause di quella grandezza, che la povertà
fosse il presupposto dello sviluppo e della felicità delle nazioni. Allo
stesso modo, narrando continuamente storie di guerre e di popoli
infelici si trasse la convinzione che la pace e la felicità fossero
condizioni precluse al genere umano (48).
Né possono avere una funzione educativa i fatti che la storia ci ha
portato ad esempio, poiché spesso la loro nefandezza rende l'imitazione
addirittura più dannosa che vantaggiosa. Nessuna imitazione è poi
possibile se prima non si raggiunge una conoscenza profonda e completa
dei fatti imitabili e delle circostanze che li hanno prodotti. Ma dal
momento che essa resta incompleta, si deve concludere, osserva Delfico
richiamandosi a Bolingbroke e a Guicciardini, che la stessa imitazione
«è cosa in vero assai malagevole e pericolosa» (49).
Nella naturale
facoltà imitativa Delfico vede la prima e la vera sorgente dei «migliori
affetti o sentimenti» degli uomini, i quali hanno però abusato di questa
loro qualità e se ne sono serviti soprattutto per riprodurre vizi ed
emanazioni dell'orrore (50).
Oggetto dell'attività imitativa devono essere infatti, per lo scrittore teramano, unicamente le manifestazioni relative all'umano «civilizzamento»,
quali le belle arti, i felici concepimenti, i sublimi sentimenti, i
progressi sociali. La stessa conoscenza storica potrebbe rivelarsi di
notevole interesse qualora riuscisse ad indagare le cause per cui lo
sviluppo della civiltà è stato spesso suscettibile di interruzioni e di
involuzioni. Conoscendone le cause, non sarebbe difficile trovare il
modo per rimuoverle e accelerare il processo di graduale incivilimento
del genere umano (51).
L'indagine storica, permetterebbe così di recuperare positivamente
l'eredità del passato, che cesserebbe di appartenere alla memoria per
divenire una componente integrante del processo storico contemporaneo.
Quest'azione di
cerniera tra il tempo andato e quello avvenire rappresenta l'aspetto più
interessante della storia. Essa la pone su un piano di parità con le
altre scienze a cui l'accomuna il merito di protendere al miglioramento
fisico e morale dell'uomo. Ma perché la ricerca storica possa adempiere
a queste funzioni conoscitive si richiede che essa sia «qual non
esiste», cioè una disciplina nuova, ancora intentata, che Delfico chiama
anche «storia delle scienze» quale
dev'essere
quella delle cognizioni o verità esposte nell'ordine progressivo, ciò
che costituisce quasi un metodo d'invenzione, o un sistema analitico
delle medesime: ciò che forma la vera storia dei progressi dello spirito
relativa al soggetto di cui si occupa. E che altro sono infatti le
scienze, se non le verità esposte in tal metodo amico all'umana
intelligenza? La storia degli errori può costituire l'erudizione degli
errori; ma la storia della verità costituisce essenzialmente la scienza.
Nel modo proposto essa c'indica gli estremi, e mostrandoci il punto
donde siamo partiti, e quello dove ci troviamo, ci segna più
distintamente la strada da progredire. La storia della natura e quella
dello spirito umano così correrebbero parallele, e potrebbesi in tal
modo considerar la storia sotto un aspetto più utile e più favorevole
alle scienze ed all'umanità, cioè come le serie successive di
cangiamenti avvenuti alla specie, e delle cagioni per le quali furono
prodotti (52). |
Emerge
qui l'idea di uno strumentalismo storiografico: ci si rivolge al passato
per scoprire le leggi dell'evoluzione della società le quali, oltre a
fornire una conoscenza più approfondita del presente, permettono di
intravedere le linee del futuro sviluppo dell'umanità. Le cognizioni
storiche perdono il carattere di sterile nozionismo, che hanno sempre
avuto, e acquistano un valore intrinseco: «Sobriamente conoscendo
quel che fu», afferma Delfico a conclusione della sua opera,
«potremo facilitarci la strada a saper ampiamente quel che è»
(53).
La storia cessa di essere, usando un'espressione moderna, l'histoire
événementielle, limitata cioè al racconto delle vicende
politico-militari e diviene la storia progressiva delle conoscenze,
delle esperienze, delle osservazioni, delle scoperte, così come essa era
stata compiuta da Fourcroy per il mercurio (54).
Sia
benedetta la storia - scrive all'abate Jannelli, dopo aver ribadito
l'idea di una scienza analitica e ragionata - quando mi mostrerà questi
progressi dell'umanità; poiché facendomi conoscere quali cagioni
produssero probabilmente tali e tali effetti, potremo studiarci a
riprodurle o ad allontanarle secondo la loro indole, |
e ciò senza lo stupore di
nessuno «poiché tutto l'umano sapere va a cercar nelle origini le prime
cagioni della sua esistenza» (55). Nulla esclude dunque che, se
adeguatamente rinnovata, possa sorgere la storia ragionata o la «vera
critica storica», con le qualità proprie di una scienza alla quale
le stesse scienze si rifacciano per trovarvi la loro origine e il loro
fondamento, oltre alle direttive per nuovi progressi e avanzamenti
Io mi vado
augurando - conclude nella lettera a Jannelli - che i vostri travagli
potranno in qualche modo imprimere su la storia l'impronto [sic!] della
verità ed il pregio assai maggiore, cioè quello della utilità. E con ciò
lungi di sentire, anche confermate le mie idee, colle quali
contrastai questi pregi alla storia, qual'esse si trova ancora; non
quale potrebb'essere, e mi auguro, che sarà nelle vostre mani (56) |
Delfico si pone
così sullo stesso piano di Jannelli, in quanto «entrambi animati dallo
stesso pensiero di essere utili all'umanità», anche se il primo «ebbe in
mira di scoprire un errore», mentre il secondo avrà «il bel vanto di
distruggerlo, e far comparire nella sua luce il vero» (57).
E questo nell'essenza dello spirito dell'illuminismo per il quale il
philosophe è colui che - come afferma Kant (58)
- ha il coraggio di servirsi del proprio intelletto per far uscire il
genere umano dallo stato di «minorità» in cui si trova, denunciando
errori ed inganni e facendo emergere la verità vera delle cose, anche
nei confronti di tutto ciò che da secoli viene passivamente accettato.
La ragione
è per Delfico essenzialmente uno strumento critico e operativo, di
battaglia polemica e di azione politica e come tale deve rivolgere la
propria indagine alla sfera concreta, alla individuazione dei problemi
reali degli uomini e alla loro effettiva soluzione, di modo che la
conoscenza - che ha il proprio fondamento nella teoria delle sensazioni
- diventi innanzitutto conoscenza di cose utili e necessarie al
benessere e alla felicità del genere umano. Si eviterebbe così di
ripetere l'errore spesso commesso in passato, quando - scrive Delfico -
«invece di cercare le cagioni de' fenomeni fisici e morali si vollero
indovinare, ed invece di prendere per guida l'analisi, le esperienze, e
le osservazioni si produssero delle ipotesi, e da essi i sistemi, e si
dettarono le leggi della Natura, esistenti solo nel cranio degli
inventori» (59). |