1) Melchiorre
Delfico, alla veneranda età di novantuno anni, "sempre giusto e benefico,
carico d'anni e d'onori finì la vita la sera del 21 giugno 1835 nel palazzo
della sua città circondato dall'amore famigliare e cittadino; meritò il
rimpianto sincero di quanti lo conobbero, e posò per suo volere senza pompa
nella tomba gentilizia di famiglia entro la cattedrale di Teramo".
Con queste parole
Giacinto Pannella chiudeva la prefazione, contenente brevi cenni storici su la
vita e su le opere dell'autore, alla edizione delle "Opere complete di M. Delfico", curata dal Pannella stesso unitamente al Savorini e pubblicata
dall'editore Giovanni Fabbri di Teramo, negli anni 1901-1904.
Il Delfico era
nato a Leognano, attuale frazione del Comune di Montorio al V., il primo agosto
1744, paese dove la famiglia si era trasferita nella imminenza dell'invasione
austriaca e da dove poco tempo dopo, passata l'invasione, rientrò a Teramo,
"antico domicilio suo".
Ma in quale
situazione politica, culturale, sociale, il Delfico si apriva ai doveri ed alle
sollecitazioni della esistenza?
La nascita
avvenne undici anni dopo che Napoli era tornata, con Carlo di Borbone, ad
essere, dopo la dominazione austriaca di 27 anni, la capitale di un regno con
una monarchia autonoma.
E la lunga vita
del Delfico, come si può immediatamente rilevare, si svolse quasi di pari passo
alle più importanti vicende storiche di un regno che, ad eccezione del decennio
francese (1806-1815), esercitò in autonomia il suo ruolo, fino alla
unificazione italiana.
Della sua patria
egli si considerò sempre un cittadino leale, di una lealtà non disgiunta da
quell'amore che lo portava a desiderarLa sempre più moderna, giusta e
prestigiosa.
2) L'autonoma
monarchia borbonica, al di là di obbiettive e persistenti resistenze, aveva
permesso un clima dove poterono cominciare e meglio esprimersi, anche con
importanti attuazioni normative, i pensieri e le espressioni di rinnovamento
propugnato dalla classe emergente: il medio ceto napoletano.
Le due classi
fino allora obbiettivamente privilegiate, la nobiltà ed il clero, cominciarono
ad essere ridimensionate nel loro ruolo egemone.
La nobiltà
andava in buona parte perdendo i caratteri prevalentemente conservatori, se non
reazionari, che rimanevano via via soltanto in una piccola minoranza di
tradizione "austriacante". Degli altri, molti si disinteressavano della vita
civile e politica, ma molti tra i più preparati e colti od impegnati negli
incarichi diplomatici, civili e militari, venivano praticando molta vicinanza di
idee con la parte più colta del ceto medio (1).
Lo stesso clero,
ridotto nel numero in base al concordato del 1741, privato di notevole parte dei
beni, a seguito dell'adozione del principio dell'incameramento, e
ridimensionamento nelle immunità, era spinto a riconoscersi come fattore di
sempre più convinta partecipazione alla vita dello Stato.
Non a caso le sue
espressioni più colte dovevano assumere un ruolo importante, come propugnatrici
e divulgatrici delle nuove idee di progresso.
Ricordiamo, tra
gli altri (ed avremo modo spesso di ricordarli)
Antonio Genovesi, l'abate Ferdinando Galiani, il vescovo Serao,
ecc.
Lo stesso G.
Pannella inizia la citata prefazione con queste parole: "Aria innovatrice
spirava dall'uno all'altro capo d'Italia, conseguenza come altrove, non
tanto delle dottrine francesi quanto della nuova forma di Governo specialmente
nel mezzogiorno. Un tesoro di dottrina veramente profonda e sana refluiva per le
vene della nazione, Sono dottrine che scendono nella pratica della vita e del
governo pubblico. Giambattista Vico, Pietro Giannone, Antonio Genovesi,
Ferdinando Galiani, Mario Pagano, Gaetano Filangieri erano i primi."
E' il periodo
nel quale si manifesta sempre più chiaramente il passaggio da una cultura
prevalentemente forense ad una filosofica, politica ed economica.
Si estendeva
inoltre, nella pubblicistica più avvertita, la coscienza di formulare proposte
e richieste che superavano le esigenze di privilegio della capitale per assumere
progetti di riforme (amministrative, economiche, ecc.) che interessavano
l'intero regno.
E molte riforme,
come si è già notato, venivano attuate, specie nel campo culturale e della
pubblica educazione, come quella della università, riformata due volte nel 1736
e nel 1777.
Non a caso negli
anni 1770-1790 si è potuto parlare di "accordo perfetto" tra monarchia e
classe dirigente. Era un accordo certamente più moderno per il ruolo maggiore
assunto dai ceti medi borghesi, ma che seguitava a lasciare al margine i
problemi gravi delle plebi urbane ed agricole.
3) In questa
atmosfera, il Delfico inizia i suoi studi a Napoli nel 1755, dove era andato
insieme ai fratelli maggiori, indossando l'abito talare, avendo la famiglia
ritenuto più confacente, anche alle sue condizioni di salute, l'avvio alla
carriera ecclesiastica piuttosto che a quella delle armi, per la quale vi erano
tutte le migliori condizioni, non ultima quella del grado di alfiere che a
Melchiorre era stato accordato da Carlo di Borbone, tra i vari benefici concessi
alla casata per la fedeltà dimostrata nei confronti della monarchia.
L'abito talare
verrà dismesso soltanto al suo rientro a Teramo nel 1768, dopo oltre dodici
anni di soggiorno di studio a Napoli, su volere della stessa famiglia, tenendo
presenti le precarie condizioni di salute aggravatesi nel frattempo e che
avevano anticipato il ritorno in provincia.
Inizia con il
rientro a Teramo quello che indicheremo come il secondo periodo della vita del
Delfico.
Una
semplificazione della vita del nostro in periodi è una licenza personale che mi
sono concesso, senza alcuna presunzione di originalità, ma nell'esclusivo
tentativo di inquadrare e possibilmente comprendere meglio (data appunto la
necessaria limitatezza di questa relazione), il percorso delle esperienze, degli
impegni sociali, del pensiero e dell'opera del Delfico.
Il primo
periodo, sul quale credo tutti possano convenire, è quello appunto degli
studi a Napoli dal 1755 al 1768, dagli undici ai ventitré anni, gli anni
della formazione culturale. Qui ebbe i più famosi maestri dell'epoca, da
Genovesi per la filosofia e l'economia, a Gennaro Rossi per le lettere, a
Mazzocchi per l'archeologia a Pasquale Ferrigno per il diritto.
"Venne su in
mezzo al fiorire degli studi economici, politici, giuridici e storici e fra
un'eletta schiera di ingegni; i quali preparavano coi loro studi e con le loro
critiche la rivoluzione, ma erano intanto adoperati nei pubblici uffici e
favoriti in ogni ruolo e incoraggiati dal governo, che si giovava spesso del
loro sapere e del loro consiglio" (2).
Anche se il
Genovesi, a dire stesso del Delfico, non l'avrebbe pienamente soddisfatto
soprattutto per le basi dell'insegnamento filosofico, è pur vero che dovette
senz'altro presentare per lui un punto di riferimento significativo, la cui
influenza, come avremo modo di accennare più innanzi, doveva essere
determinante proprio nello sviluppo del suo pensiero economico.
D'altro canto
il Genovesi (scomparso nel 1769 - un anno dopo il rientro a Teramo M. Delfico) fu
il maestro indiscusso di un'intera generazione di intellettuali meridionali,
soprattutto per la ricerca economica.
Ed il Delfico è
indicato sempre da tutti gli studiosi di questioni economiche del settecento
napoletano come uno dei discepoli più. importanti.
Ricordo, per
tutti, quanto detto da G. Candeloro nella sua "Storia dell'Italia moderna"
: "L'illuminismo napoletano sviluppatosi sul tronco di una cultura storica,
filosofica, giuridica ed economica già in fase di rinnovamento alla fine del
seicento, ebbe intorno alla metà del secolo il suo centro di irradiazione nella
scuola di Antonio Genovesi ed ebbe contatti
stretti con la cultura francese, attraverso uomini come Ferdinando
Galiani (3) e Domenico Caracciolo......
Dalla scuola del
Genovesi, che pose con chiarezza il problema di un rinnovamento, non solo
economico ma anche educativo della società meridionale, vennero uomini come
Gaetano Filangieri, Giuseppe M. Galanti, Giuseppe Palmieri, Mario Pagano,
Melchiorre Delfico......
Del Genovesi è
opportuno tra l'altro ricordare che questi ricopriva presso l'università di
Napoli quella cattedra di scienze economiche (anche se la denominazione esatta
era commercio e dinamica), la prima
ad essere istituita in Italia, ed una delle prime, se non la
prima, in Europa, e che era stata promossa da Bartolomeo Intieri.
La seconda
cattedra di economia politica in Italia sarebbe stata quella della scuola
Palatina di Milano, istituita appositamente per Cesare Beccaria e chiamata
esattamente di scienza camerale.
Ho inteso
richiamare tali aspetti, certamente importanti, per capire il clima culturale
entro il quale mosse le prime approfondite conoscenze l'intelletto del
Delfico.
Ma non posso fare
a meno a tal punto, sempre per la migliore comprensione del quadro culturale in
cui deve essere coerentemente inserito il Delfico, di riportare alcune
significative considerazioni, sempre sul Genovesi e sul periodo,
che recuperano in modo preciso le radici di una questione meridionale già nella
sensibilità intellettuale dei pensatori del settecento.
Nell'antologia
della questione meridional, sotto il titolo "il Sud nella storia d'Italia" (4) Rosario Villari ospita, in apertura, un saggio di Antonio
Genovesi "il problema della terra".
Il Villari
giustifica tale scelta con queste parole:
"Possiamo aprìre
la nostra documentazione con uno scritto di Antonio Genovesi non solo per la
grande influnza ideale che egli esercitò su tutto il pensiero meridionale
moderno e, in qualche misura, anche sul pensiero meridionalista,
ma anche per la natura dei problemi che
si posero nel tempo suo e che congiuntamente si rispecchiano nella sua opera e
nella sua azione politica. Problemi che sorgono dall'incontro tra la realtà
economica e civile del Mezzogiorno, con i suoi fermenti e le sue obiettive
esigenze, la coscienza moderna ed
europea, illuministica, di cui Genovesi è nel Regno di Napoli, la prima e più
alta espressione".
Rileva inoltre,
sempre in premessa al saggio citato, che la scelta del momento in cui
sorge il movimento illuminista riformatore, a metà del secolo XVIII, quale
inizio della raccolta si giustifica proprio per una relazione più diretta con
l'analisi della questione meridionale. Ed infatti prosegue, affermando:
"Allora
cominciarono a porsi alla coscienza politica e civile i temi del rinnovamento
del Mezzogiorno, allora cominciò a svilupparsi, dalle crisi e dalla
disgregazione del regime feudale, quel complesso di rapporti che costituivano la
base e la premessa del contributo merìdionale al compimento della rivoluzione
nazionale e, insieme, il fondamento storico della questione
meridionale".
E' stata questa
del Villari una provocazione? Non crediamo. Avremo modo di accorgerci come anche
nel Delfico possiamo ritrovare tante denunce e proposte di cambiamento che vanno
in quella direzione.
4) Tornando più
direttamente al Delfico, se è ormai indiscutibile che molto della sua
formazione fu dovuta al Genovesi, molto, per sua stessa ammissione, dovette al
Locke, uno dei più importanti maestri dell'illuminismo, ed al Condillac. E
non a caso il metodo empirico permea sia il suo pensiero filosofico che quello
storico ed economico, così come lo era per il Genovesi.
Proprio
nell'ultimo anno della sua permanenza a Napoli (1768) si mette in luce con due
memorie aventi per oggetto l'esame delle ragioni, soprattutto giuridiche, per
rivendicarsi la sovranità di Napoli sulla città di Ascoli l'una e su
Benevento l'altra.
Già da queste
due memorie, redatte forse anche con l'intento di accattivarsi le simpatie
degli ambienti politici del Regno e dei maggiori rappresentanti, a cominciare
dal Tanucci, si evidenziano due elementi distintivi dell'impegno culturale e
sociale del Delfico nel primo periodo:
- la capacità e
la passione di ergersi a portavoce, e rappresentante, delle esigenze, dei
problemi locali rispetto al potere centrale. Un impegno al quale terrà fede
sempre nella sua vita;
- il legame che
anch'egli ha con la tradizione di pensiero comune a quasi tutti i riformatori
del settecento: quella cioé di vivere le prime esperienze letterarie proprio
attraverso le battaglie di contenuto giurisdizionale. Ma è questo un aspetto
che Delfico ripudierà al più presto, nella consapevolezza che fosse molto
limitativo, se non sterile, l'utilizzo degli strumenti della tradizione
giuridica per incidere sulla riforma e l'ammodernamento dello Stato.
Il rientro a
Teramo segna anche l'inizio di una prima fase del periodo trentennale – 1769
- 1799 — centrale e determinante nella vita del Delfico. In questa prima fase,
che possiamo collocare tra il 1769 ed il 1780 i1 Delfico si tuffa con
impegno e costanza negli studi, soprattutto filosofici, nella convinzione che
soltanto dal ripensamento dei grandi problemi etici e politici potevasi
contribuire al miglioramento della società. Furono, questi teramani, anni oltre
che di studio e riflessione, anche di avvio della sua produzione letteraria.
Nel 1774 dava
alla luce il "Saggio filosofico sul matrimonio" e nel 1775 gli "Indizi di
morale": due opere colpite entrambe da traversie di censura e di sospensione
della pubblicazione.
Opere di grande
originalità? Non molto, secondo anche la convinzione quasi generale di saggisti
e critici che si sono interessati del Delfico, ma di certo segnale preciso delle
fondamenta sulle quali si muovono gli ideali culturali e politici del Delfico.
In tali opere si manifesta chiaramente l'influsso di Locke e Condillac, nei
confronti dei quali è stata sempre netta la volontà di farsi guidare, ma anche
dello stesso Rousseau, di Diderot, dell'enciclopedismo francese.
Delfico non è un
provinciale. E' pienamente inserito nella scia del movimento illuminista
europeo. E proprio da questa coerenza di adesione partoriscono le prime due
opere citate.
Sono i principii
del sensismo, è quel radicalismo antistorico, è quel certo materialismo legato
all'osservazione della natura, proprio del movimento illuminista, che
concorrono a plasmare la visione della vita ed a farne emergere i binari del
successivo impegno politico e sociale. Principii che sfronderà nel tempo delle
rigidità estremiste ma ai quali resterà sempre coerente, soprattutto per
quella grande fede che, contemporaneamente, emerge limpida nei confronti di quei
fattori che dovrebbero essere a base del nuovo Stato, della nuova Società.
"Eguaglianza e libertà sono parole reciproche in politica ed in morale,
giacché l'una non può essere dall'altra scompaginata" afferma nel saggio
sul matrimonio.
E della
affermazione del principio di libertà ne farà il cardine dello svolgimento di
qualsiasi attività o settore per il progresso della società nel suo insieme.
Come resterà fedele alla concezione negativa della storia, almeno nel modo fino
ad allora inteso, e che si manifesterà anche più decisamente in successive
opere. Ma al riguardo domina nettamente l'influenza del Rousseau, del quale
ricordiamo attribuire alla storia due difetti principali:
- rappresentare
più il male e la parte cattiva degli uomini che quella buona; - non essere una
riproduzione esatta dei fatti come sono realmente accaduti.
Questi postulati
rappresenteranno infatti la parte principale dei "Pensieri sulla storia e su
la incertezza ed inutilità della medesima" che il Delfico, come vedremo,
pubblicherà nel 1805.
Comunque, come
uno dei più noti riformatori illuministi si caratterizzerà sempre più il
Delfico, in tale veste riconosciuto sempre più concordemente con il passare
degli anni dalla critica storica e letteraria.
E Delfico ebbe
modo di riconfrontare e pungolare le proprie idee in occasione del suo ritorno a
Napoli nel 1778, quando fu costretto ad allontanarsi da Teramo per alcune beghe
locali. Ed a Napoli ebbe certamente buona consuetudine di incontri, tra gli
altri, con Pagano, Grimaldi e Filangieri. E fu forse un bagno benefico per il
Delfico, potendosi egli rialimentare alle novità delle correnti di pensiero
nazionali e europee.
5) Riterrei a tal
punto opportuno fare un'altra piccola disgressione sempre sull'illuminismo.
Quando si parla
di illuminismo è rmai ampiamente accettato che non si possa parlare di
esso come movimento omogeneo, per cui si è affermato che "è soprattutto una
mentalità, un atteggiamento culturale e spirituale, che non è solo dei
filosofi in senso stretto, ma di molta parte della società del tempo,
particolarmente della borghesia e degli intellettuali".
L'illuminista,
che si definisce in primo luogo philosophe, si caratterizza con la personalità
di un "vivificatore di idee, di un educatore, di colui cioè che in tutto si
lascia guidare dai lumi della ragione e che scrive per essere utile, per dare un
contributo al progresso intellettuale sociale e morale, contro ogni forma di
tirannia" (5)
Esprime cioè la
volontà di realizzare sui dati di fatto dell'esistenza un mondo nuovo,
libero, più ordinato e felice, per cui la ragione è rivolta ad impostare ed
analizzare progetti di riforme sociali ed economiche, a sollecitare nuove
legislazioni ed a svolgere un'opera di educazione collettiva.
La stessa
economia è vista come uno dei principali strumenti per migliorare e
razionalizzare la vita.
Lo stesso
antistoricismo illuminista non significa semplicemente, come è stato osservato,
"rifiuto o disinteresse per tutto quello che la storia ha portato, ma
piuttosto rifiuto di ciò che ha autorità per il solo fatto di essere
storico".
Interessante
sarebbe approfondire questo antistoricismo nel Delfico, ma l'economia di
questa prolusione non ce lo consente. A tal fine si può rimandare al saggio di
G. Gentile "Dal Genovesi al Galluppi" del 1903, nel quale l'autore conduce
un'ampia e articolata radiografia delle posizioni del Delfico in merito,
attraverso l'analisi delle sue due priricipali opere:
"Le ricerche
sul vero carattere della giurisprudenza romana" ed i citati "Pensieri sulla
storia...".
Intanto, é
soprattutto con la seconda generazione illuministica, nella quale riteniamo che
il Delfico possa inserirsi a buon titolo, che si accentuano gli interessi per un
radicale rinnovamento sociale.
E su questa scia
si pone decisamente il Delfico in quella che possiamo indicare come la seconda
fase del periodo teramano, gli anni del decennio 1780 - 1790.
Pubblica a Teramo
nel 1782 il "Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale".
In esso,
prendendo a motivazione l'esame della funzione dei militari in una società in
trasformazione, ha modo di affermare il ruolo delle realtà provinciali,
auspicandone una maggiore autonomia.
Su questo ruolo
del localisrno tornerà spesso. E la sua non è una gretta rivendicazione di
municipalisrno antistatalista, ma, proprio come servitore dello Stato, di questo
ritiene che meglio possa ricercarsi la modernità attraverso un rapporto più
funzionale tra i poteri centrali e la giusta autonomia locale. Quanta novità a
quei tempi, ma anche quale livello di moderna intuizione! Quando ancor oggi si
è impegnati a portare a compimento il cammino già proficuamente intrapreso
degli "Stati delle autonomie" o della "Europa delle regioni".
Forse anche per
merito del suddetto discorso Delfico veniva nominato dal ministro Acton nel
giugno del 1783 "assessore militare del tribunale di milizia della provincia
di Teramo".
E nello stesso
anno pubblica la "Memoria sulla coltivazione del riso nella provincia di
Teramo".
Nel giugno del
1784 torna a risiedere nella capitale, dove, l'anno successivo (1785), dà alle
stampe la "Memoria sul tribunale della Grascia e sulle leggi economiche nelle
provincie confinanti del regno."
Con questa
memoria e l'altra sulla coltivazione del riso inizia la serie di quelli che
possiamo definire gli scritti di politica economica del Delfico che riteniamo
molto importanti per una valutazione giusta della sua attività di studioso e di
politico, anche per questo rapporto stretto tra analizzatore dei mali economici,
propositore di un rinnovamento produttivo e sociale all'insegna di una
maggiore libertà e sollecitore di leggi riformatrici.
Seguono nel 1788
il "Discorso sul Tavoliere di Puglia" e nel 1790 la memoria sulla
"Abolizione o moderazione della servitù del pascolo invernale detto dei regi
stucchi nelle provincie marittime d'Abruzzo". Sempre nel 1788 aveva
pubblicato il "Breve saggio sull'importanza di abolire la giurisdizione
feudale e sul modo".
Intanto a cavallo
di quegli anni – 1788 - 1789 – aveva compiuto quel significativo - per la
sua esperienza di uomo di pensiero - viaggio al Nord, dove ebbe modo di
incontrare molti dei più illustri studiosi del momento. Tra questi: Spallanzani
e Volta a Pavia, Beccaria, Parini e i due Verri a Milano, nel Veneto l'abate
Fortis.
Proprio dal
ritorno del detto viaggio inizia per il Delfico un altro periodo particolarmente
intenso. Esso si caratterizza, come rileva V. Clemente nella recente (1981)
ampia e documentata opera sulla "Rinascenza teramana e riformismo napoletano" (6), "per il deciso spiegamento delle iniziative verso gli
oggetti più generali della riforma dello Stato. Nel dibattito sulle feudalità
sembra incanalarsi il suo maggiore ingegno, applicandosi alla vendita dei feudi.
Ma la questione della vendita dei feudi è impostata in modo da investire in
profondità la costituzione politica ed economica del Regno, con obbiettivi che
convergono in maniera evidente con quelli del Galanti" (pag. 289)
6) Una seppur breve
digressione è opportuna a tal punto su questo periodo della rinascenza
teramana che il citato Clemente colloca tra il 1777 ed il 1798. Questo tempo
di indubbio risveglio nei vari campi è senz'altro favorito dalle condizioni
politiche generali d'apertura che abbiamo all'inizio ricordate, ma esso
trova modo di meglio esprimersi proprio dal contributo fervido di un manipolo di
uomini, fortemente impegnati nel sociale e dotati di una preparazione culturale
di buon livello. E' un gruppo nel quale il Delfico spicca, influendo in modo
decisivo con il suo insegnamento, la sua opera di intelletto e la sua attività
politica sull'azione complessiva per la rinascita.
Come può dire lo
stesso Clemente "il ceto medio locale si espande ed acquista nuova autonomia
ed iniziativa, la classe dirigente locale recupera una prospettiva globale della
realtà provinciale e ad essa applica analisi inventiva, ambizioni, cultura. I
Delfico pilotano il processo e forniscono ad esso tutta la sua specificità".
E tutto questo in un'area che, posta tra il Tronto ed il Pescara, aveva
sofferto sempre di una posizione di emarginazione nel contesto del Regno, con
l'aggravio particolare dei vincoli posti per i commerci di confine e con
quello stesso della riserva di destinazione di una parte dei territori collinari
alla pastorizia transumante.
Intanto la società
patriottica teramana è un altro importante fattore del risveglio provinciale di
quegli anni. Del resto tali società patriottiche, viste dal Clemente, quali
tarde filiazioni periferiche del Consiglio delle Finanze, "fanno le prime e
forse le uniche prove negli Abruzzi".
Così
l'Accademia agronomica teramana si collocava nel contesto provinciale non solo
come istituzione volta a favorire il confronto letterario ma assumeva un ruolo
decìsamente politico.
Nasceva, per
merito di V. Comi, uno di quel manipolo di uomini benemeriti comprendente tra
gli altri anche Tulli, Quartapelle, Palma, ecc., la rivista "Il commercio
scientifico d'Europa col regno delle due Sicilie", pubblicata solo con
alcuni numeri negli anni 1792 - 93.
Ma in quel
fervore di studi ed iniziative, di confronti ed anche scontri, non possiamo
dimenticare quell'altra dimensione che caratterizza lo svolgimento della
comunità teramana e che si esprime in quella che oggi chiameremmo "positiva
conflittualità" tra questo movimento di pensatori laici ed il ruolo della
Chiesa locale, guidata da quella forte ed intelligente personalità che era il
vescovo Pirelli.
Era questi un
pastore anch'egli attento ai cambiamenti, propositore di iniziative ed
interventi nel campo economico, sociale e religioso, chiamato peraltro a gestire
una delicata fase nella quale cominciava a porsi il problema dei rapporti e
della distinzione delle funzioni tra potere civile e missione della chiesa. Fino
ad allora la chiesa aveva coperto in moltep1ici campi, da quello culturale a
quello assistenziale, una serie di compiti proprio nella carenza dei pubblici
poteri.
In questa fase di
risveglio politico, culturale e sociale del teramano la problematica accennata
non poteva essere assente, ponendo questioni di ruoli e di equilibri. Un aspetto
che si è voluto soltanto brevemente annotare, ma che esigerebbe ulteriori ed
adeguati approfondimenti.
Nel riprendere il
nostro discorso, si deve ricordare come al fervore delle idee si accompagni,
sempre con la presenza preminente del Delfico, un'attività politica di
rilievo, che propone realizzazione di opere pubbliche, specie nel campo della
viabilità per migliorare i collegamenti tra l'Abruzzo del Tronto e Napoli, e
così pure con l'aquilano. Ci si batte nel richiedere la cosiddetta
"piccola" università, alla quale assegnare cinque cattedre con maestri di
prevalenza teramana.
Nel 1787 fu
ripristinato, per opera del Delfico, il tribunale a Teramo, che ne era stata
privata nel 1744. Era stato intanto abolito il tribunale della Grascia, quella
bardatura soffocante, la pesantezza dei vincoli doganali, per i commerci anche
oltre confine. Il Delfico ottenne un decreto reale che toglieva oneri fiscali
alla produzione delle maioliche di Castelli. E su molte altre riforme di
carattere nazionale seguita ad incidere con molte sue apprezzate memorie.
Ma se pensiamo
alle richieste avanzate in termini di viabilità, di studi universitari, di
interventi per migliorare le strutture delle produzioni agricole, alla
successiva proposta di un porto alla foce del Pescara, ci sembra di rivivere i
problemi che hanno formato e formano oggetto di impegno politico, seppure in
prospettive diverse, di questi ultimi decenni di vita democratica della nostra
provincia e dell'Abruzzo. Un periodo certamente anch'esso di cambiamenti e
di risveglio.
Altri due lavori
del Delfico vedono intanto la luce: le "Riflessioni sulla vendita dei feudi"
(1790) e la "Memoria sull'importanza di abolire la giurisdizione feudale, e
sul modo" (1791).
In tale polemica
antifeudale, che riprende le proposte di revisione di superati istituti, egli
porta avanti una linea ancor più intelligente e consapevole della necessità di
superare i meccanismi sui quali si fonda l'immobilismo del regime. E si
conferma con forza espressione autorevole di quell'illuminismo giuridico
meridionale "che punta, attraverso il rinnovamento della legislazione, a
spezzare il paralizzante congegno d'interessi tra magistrato togato - in
specie le magistrature fiscali - e feudalità".
In questo periodo
- più che mai - sui temi delle riforme assume il ruolo di promotore in una
posizione di avanguardia, collocandosi in una dimensione di grande prestigio
nazionale e sovranazionale.
7) Ma intanto il
clima politico napoletano cominciava a cambiare. Stava iniziando, anche come
reazione ai venti che spiravano in Francìa, un tempo (da collocare tra il 1791
ed il 1799) di crescente restrizione alle idee dei riformatori.
Forse anche
intuendo che i tempi premevano, il Delfico ha un altro colpo d'ala, con la
stesura nel 1791 dell'opera "Ricerche sul vero carattere della
giurisprudenza romana e dei suoi cultori".
Recatosi a Teramo
nell'inverno dello stesso anno avvertì già qui un'atmosfera pesante, la
stessa che ritrovò, certo più spessa, poco tempo dopo, rientrando a Napoli.
Con quell'opera,
come il Delfico spesso confessa ai fratelli, intende "rivendicare i diritti
della Morale e della Giustizia dov'essi erano condannati al silenzio.....",
ma soprattutto sollecitare una riforma dell'amministrazione della giustizia,
nella linea della polemica antifiscale ed antifeudale.
Fu in viaggio nel
1795 per Roma e per
la Toscana. In
Abruzzo tornò nel 1796 e gli furono affidate nuovamente mansioni militari. Nel
1798 era a capo della città di Teramo, incarico che non mancò di procurargli
angustie, facendo esperienza del "lato negativo, gretto e meschino"
dell'ambiente municipale. Nel settembre dello stesso anno fu agli arresti,
diremmo oggi domiciliari, nel palazzo "con tutta la famiglia e tutti i
domestici". Con l'arrivo delle truppe Delfico venne rimesso a capo della
municipalità e quindi chiamato al Governo dei due Dipartimenti d'Abruzzo con
sede a Pescara.
Era stato anche
nominato nel frattempo membro del Governo provvisorio di Napoli, ma non si recò,
o non ebbe modo, di recarsi in quella città per assolvere l'ircarico.
E' un periodo
certamente tormentato, questo tra il 1791 ed il 1799, ma sempre vissuto
intensamente.
E' tra
l'altro il periodo nel quale, e precisamente nel 1797, egli redige la
"Memoria sulla libertà del Commercio".
E'
l'occasione per il Delfico di presentare in modo organico il suo pensiero sui
problemi dell'economia, facendone una trattazione di alto valore teorico e
pratico collegandosi chiaramente con i movimenti di pensiero a dimensione
europea. Conferma la sua coerenza sull'argomento in sintonia con quanto aveva
elaborato trattando i problemi particolari di riordinamento delle vecchie
strutture economiche.
8) In un breve
saggio da me pubblicato quindici anni fa, certo senza grandi pretese
scientifiche, volli occuparmi del pensiero economico di M. Delfico, rilevandone
quella importanza che forse era rimasta un pò secondaria rispetto agli altri
filoni dal pensiero del nostro. E questa sollecitazione venne proprio dalla
lettura delle "Memorie sulla libertà del commercio" che, inserite
nel tomo 39° della collezione degli scrittori classici italiani di economia
politica, pubblicato da Custodi nel
1805 a
Milano, era stata ristampata nel
1967 in
fac-simile anastatico dalle Edizioni Bizzarri di Roma con l'aggiunta di
un'appendice critica di Oscar Nuccio comprendente anche un'aggiornata
bibliografia.
Come nelle
"Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza" del 1784, il Delfico
aveva esaltato la libertà sotto il profilo politico; in questa memoria sul
commercio il tema del valore della libertà economica.
Ora, se il
Delfico non può essere considerato un economista nel senso compiuto, è
pur vero che la parte degli scritti economici non è la meno rilevante e
rappresenta un filone ben preciso che va dalle
prime memorie, come quella sulla coltivazione del riso, sul tribunale
della Grascia, al discorso sul Tavoliere di Puglia, e di
cui abbiamo già avuto modo di parlare, a questa memoria sul commercio.
Seguiranno nel 1808 una "Memoria sulla tassa fondiaria" e, nel 1822, una
"Proposta di alcuni mezzi economici per sopperire agli attuali bisogni dello
Stato". Scritti minori sono tra i manoscritti unificati "Miscellanea di cose
economiche".
Se è vero,
pertanto, che non può aversi la pretesa di rinvenire originali elementi di
novità nelle tesi economiche del Delfico, però possiamo senz'altro trovarvi
spunti interessanti per quei tempi, e testimoni della presenza nel suo pensiero
di una cultura economica aggiornata e documentata, "per cui riesce a staccarsi
in molte occasioni dalle tradizioni della scuola napoletana, ed in definitiva
dal sincretismo di fisiocrazia e mercantilismo, per immettersi nel filone della
scuola economica classica di cui Adamo Smith era, negli ultimi decenni del
secolo XVIII, l'iniziatore autorevole" (7).
E dell'opera
fondamentale dello Smith "La ricchezza delle nazioni", Delfico ha buona
conoscenza già a breve distanza dalla sua uscita nel 1776. Infatti di tale
conoscenza possiamo già trovare le tracce nella memoria
sulla coltivazione del riso del 1783. Del resto già negli "Indizi di
morale" aveva accennato al filosofo Smith per precedenti suoi scritti.
Nella memoria sul
tribunale della Grascia chiama in causa e sostegno delle sue tesi "il savio
autore del trattato della ricchezza". Nel discorso sul "Tavoliere di
Puglia" richiama espressamente sempre lo Smith, citandone il libro 1 - cap. 7
dell'opera sulla ricchezza delle Nazioni, "per non temere la esorbitante
alterazione dei prezzi, come effetto del libero uso della proprietà". E
Delfico lo porta appunto a giustificazìone della libertà dell'uso dei fondi
agrari, per le colture che si riterranno più convenienti. Il fatto di non
doversi preoccupare dell'aumento provvisorio dei prezzi è così giustificato:
"che i prezzi si conservino nel
livello naturale delle cose comuni sorge dal concorso solito dei compratori -
dei venditori".
Sembra di
ascoltare uno dei più importanti economisti della scuola classica,
propugnatrice della completa libera economia di mercato, se non tesi che saranno
a base delle più recenti teorie sull'equilibrio generale del mercato.
E' certo che
anche per questa via Delfico si colloca tra i primi innovatori dell'Ottocento.
Ma, ancora,
nell'insieme del pensiero economico del Delfico, si può individuare un
patrimonìo di analisi, anche sotto il profilo demografico e sociale, di
denuncia dei limiti delle attività agrarie, dì esigenza di infrastrutture,
aspetti che hanno rappresentato ancor fino a pochi decenni fa, nodi insoluti del
Mezzogiorno e che tuttora esigono definitive soluzioni. La stessa necessità di
un ridimensionamento della eccessiva centralizzazione amministrativa dello Stato
andava nella direzione di liberare energie ed iniziative per sostenere lo
sviluppo.
E' un approccio
veramente moderno alla questione meridionale, che tornerà vivace nei
meridionalisti dello Stato unitario.
Abbiamo prima
ricordato i richiami fatti dal Delfico all'opera dell'inglese Smith. Come
pure inglese era il Locke. Sarebbe forse stimolante approfondire l'influenza
che il pensiero inglese ebbe su quello del Delfico.
9) Siamo intanto
nel 1799, anno della prima restaurazione borbonica. Delfico è costretto ad
intraprendere la via dell'esilio, sistemandosi a San Marino.
Questo degli armi
tra il 1799 ed il 1806, che possiamo indicare come il terzo periodo della vita
di Delfico, è in buona parte il periodo dell'isolamento e della delusione.
Scrive in proposito Aldo Garosci: "A questo atteggiamento del Delfico è da
assegnare come causa essenziale
una crisi, che si tradusse in una sorta di protesta contro l'andamento della
politica, contro la politica delle rivoluzioni e dei grandi Stati e, in
definitiva, contro la storia". Non a caso di quegli anni sono le "Memorie
storiche della Repubblica di San Marino" (1803) e quindi dei già ricordati
"Pensieri sulla storia ..." (1800).
Nella prima
riafferma la sua fede nel ruolo del municipalismo e nel valore dei piccoli
Stati, criticando i maneggi e le strategie dei grandi Stati, fattori di
turbamento dalla pace per desiderio dì egemonia. Della seconda si è già
parlato, quale riconferma appunto del suo spirito antistoricista.
Sono queste due
le ultime opere importanti che chiudono quasi il periodo di maggiore fecondità
letteraria del Delfico. Nel 1806 aveva 63 anni.
Dopo la parentesi
sammarinese, con il rientro a Napoli il 25 giugno 1806, inizia per il
Delfico il quarto periodo della sua vita, interamente legato a1 "Decennio
francese", e che è ritenuto quello più fortunato e tranquillo, almeno sotto
il profilo politico. Da Giuseppe Bonaparte era stato nominato componente del
Consiglio di Stato, nell'ambito del quale fu prima membro della sezione di
finanza, e poi Presidente di sezione dell'interno.
Fu anche, seppure
per pochi mesi, Ministro degli Interni,
per due volte, nel 1810 e nel 1813, adottando molteplici ed
importanti provvedimenti, e tra questi anche la fondazione del Manicomio di
Aversa.
Partecipò a
molte Commissioni e, per incarico di Murat, predispose il "Progetto di decreto
sull'ordinamento della pubblica Istruzione". Propose l'istituzione in
quella Univesità di Napoli della cattedra di filosofia e della Storia e di
un'altra per l'esegesi della Bibbia.
Egli assolse ai
suoi doveri "senza che mai o per vituperoso talento di ambizione o per viltà dì
cuore mentisse alla sua coscienza, ed al vero al giusto proponesse l'utile suo,
o di pochi" (8), mantenendo fede a quelle linee di azione e di proposta che
già, in particolare negli anni dal 1780 al 1799, aveva inteso affermare.
Non potè o non volle prendere parte ai tentativi murattiani di allargare il
Regno unificando l'Italia, anche se aveva le sue idee sui modi e sui tempi per
raggiungere tale obiettivo, in prevalenza improntati ad un sano gradualismo, nel
passaggio ad una federazione costituzionale.
E' molto
dubbio, e senza alcun riscontro valido, quanto attribuitogli in merito alla sua
partecipazione ad una congiura di quattordici eminenti italiani di diverse parti
d'Italia per offrire a Napoleone, nel suo esilio all'isola d'Elba, la
corona di un costituendo regno italico. Il fatto stesso, comunque, che potesse
essere ritenuto uno dei congiurati conferma il prestigio che l'uomo godeva.
10) Certamente
non aver preso parte alla ricordata impresa murattiana gli giovò al momento
della seconda restaurazione borbonica nel giugno 1815. Quale ex consigliere di
Stato ebbe modo di godere della relativa pensione e mantenere l'incarico di
Presidente degli Archivi del Regno con relativa remunerazione. Furono quelli che
seguirono - gli ultimi venti anni
della sua vita - anni di serena
tranquillità
dedicati prevalentemente agli studi. E' del 1818 il lavoro sulle "Nuove
ricerche sul bello".
E quasi uno
spaccato del suo impegno di vita il Delfico ci offre nella premessa indirizzata
"Ai giovani educati" quando afferma:
"Chi si occupò
già a svelare e combattere i pregiudizi e gli abusi dell'antica economia, chi
invocò l'attenzione dei governi considerare la perniciosa influenza delle
irregolari legislazioni su la morale dei popoli, chi vi propose di accompagnare
allo studio della storia l'esercizio continuo della ragione acciò non si
contaminasse lo spirito con i suoi venerandi pregiudizi vi presenta ora idee ed immagini
più liete, ma non meno utili ed importanti, cioè il quadro dei
naturali rapporti fra la virtù e la Bellezza" (9).
Un ritorno di
fiamma nella attività politica lo ebbe nel 1820. Dopo una breve visita a
Teramo, dove tornava dopo più di venti anni, rientrando a Napoli nell'estate
di quell'anno prendeva parte alla proclamazione del governo costituzionale.
Eletto deputato
nel settembre, sia a Napoli che a Teramo, optò per Napoli lasciando
rappresentare Teramo a V. Comi.
Era stato
incaricato, insieme a Giulio Rocco, con decreto regio dell'8 luglio 1820, di
tradurre la Costituzione spagnola da prendersi come base per quella che si aveva in animo di
redigere per il regno di Napoli.
Ma deputato fu
solo poco più di un mese, dal 3 settembre al 17 ottobre, quando si
dimise per ragioni
di salute.
Nel frattempo,
nel dicembre, cadeva ogni tentativo o speranza di instaurare una monarchia
costituzionale. "La causa liberale era perduta, ed il Nostro si ritirò per
sempre dalla vita pubblica" . Fu a Teramo nel 1822 e dopo un breve ritorno a
Napoli rientrò definitivamente nella sua provincia teramana nella primavera del
1823. "Tornò quasi ottuagenario alla domestica pace della sua casa, dove,
serenamente, tra gli studi proseguiti amorosamente fino agli ultimi giorni della
vita ed il frequente carteggio con gli amici devoti, che in lui continuavano
sempre a riverire l'alto consigliere e quasi il principe della cultura
napoletana, in mezzo alle cure affettuose dei nipoti, visse i suoi ultimi dodici
anni" (10). Così G. Gentile nel saggio citato. Comunque, anche in questi
anni, seguitò ad interessarsi dei problemi della provincia. Perorava
l'esigenza di costruire un porto franco alla foce del Pescara. Chiedeva il
ripristino della cattedra di giurisprudenza nel Collegio reale di Teramo, cosa
che avvenne.
Abbiamo detto che
fu uomo attaccato profondente alla sua provincia, un legame che esaltava però
nel suo indiscutibile ruolo di personaggio a dimensione nazionale (quella del
regno di Napolì) ed italiana.
E' uomo che
vive il suo tempo, immerso nella vicenda storica, culturale e politica del regno
e pienamente inserito in quel filone illuninista dei riformatori napoletani,
specie della seconda generazione.
Nella indubbia
libertà del suo spirito, come rileva il Pannella, "tre amori lo
signoreggiarono e lo ispirarono nelle opere, quello del bene per il genere
umano, quello della sua provincia e del regno e quello dell'amicizia.
E questo risulta
costante sia quando lotta per far emanare importanti riforme sia quando propugna
decisamente le prospettive di un moderno sviluppo agriolo sia quando affronta i
problemi dello sviluppo economico e culturale locale, sia nel fervore di
divulgatore delle idee.
Lo stesso
laicismo del Delfico è
soprattutto filosofico, per quella preminenza dell'empirismo sensista,
quale veicolo per
meglio comprendere i fatti ed i fenomeni sociali.
Non scade nel
gretto anticlericalismo pur aggredendo in ternini politici - e diremmo oggi
laici - il curialismo, al fine di rivendicare l'autonomia dell'autorità
secolare.
Attraverso il suo
impegno politico un grande ammaestramento possiamo ancor oggi ricavare, nella
validità che è di ogni epoca:
di come l'azione politica debba far discendere la sua dignità dalla
preparazione culturale, per meglio analizzare i problemi e formulare proposte
adeguate.
Non il semplice
pragmatismo, ma lo stretto rapporto tra capacità di analisi, comprensione dei
fatti e validità di proposte. In ciò si caratterizza il politico che sia anche
uomo di Stato. E questo fu indubbiamente il Delfico. Uomo capace di comprendere
i tempi, di porsi in questi come protagonista, con la volontà di cambiare e
migliorare la società. Rifugge dagli estremismi rivoluzionari, ma opera per il
cambiamento. E' un leale servitore dello Stato, ma non codino od ipocrita.
Tiene alla dignità delle sue idee.
La linea della
proposizione della libertà è una costante. Potrebbe essere apparso, e qualcuno
lo ha rilevato, che nelle molteplici vicende politiche della sua esistenza vi
sia stata una frequenza di adattamento ai mutamenti. Ma Delfico era in
definitiva rispettoso dell'autorità sovrana. Egli si batteva per ammodernare
meccanismi ed istituti attraverso i quali lo Stato si esprime. Ed in tale
visione si collocava la più volte
ricordata esigenza del nuovo ruolo da assegnare alle amministrazioni locali.
Non fu certamente
un cospiratore per vocazione ma riteneva di utilizzare tutti gli spazi possibili
perchè progredisse la via delle riforme. Del resto il prestigio di studioso e
di politico che si era conquistato nel tempo lo mise al riparo più volte
dall'essere perseguito dalla reazione dei governanti, che anzi vollero
utilizzare la sua esperienza ed il suo ingegno.
Pagò comunque
con l'esilio sammarinese il troppo rapido plauso alla nuova autarità
francese, che riteneva comunque incarnare i nuovi ideali di progresso e di
libertà. E la fede in questi ideali ai quali fu sempre coerente nella sua lunga
esistenza, riscattando pienamente
alcuni momenti di debolezza compromissoria.
Uomo di
significativa dimensione culturale, di fervido e generoso impegno sociale,
presenza autorevole della storia del regno di Napoli, questo fu il Delfico. Un
uomo al quale la cultura storica, politica e letteraria italiana deve forse
dedicare una maggiore attenzione. E la ricorrenza di questo centocinquantenario
della morte può essere una felice occasione (11).
Ma un uomo ancora
che il teramano e l'intero Abruzzo debbono, senza presunzione retorica ma con
giusto orgoglio, tenere nella la doverosa considerazione, come tassello
irnportante di quelle radici storiche e culturali, alle quali oggi più che mai
ricollegarsi per dare risposta a quell'esigenza sempre più avvertita di far
crescere lo spessore della moderna cultura regionale.
E questo è
appunto oggi più che mai indispensabile per colmare lo scarto esistente tra
l'accelerato progresso economico e
sociale degli ultimi decenni e l'ancora ristretto saggio di
crescita della moderna cultura.
Di fronte alle
sfide complesse che abbiamo di fronte, del difficile passaggio verso le
trasformazioni in atto delle articolazioni economiche, dei rapporti produttivi e
sociali, sarà più facile e coerente comprendere e guidare la via dello
sviluppo se verrà alimentata di pari passo la cultura dell'aggiornamento al
nuovo, fuori dalle tentazioni di un regionalismo autarchico nella mentalità e
nelle idee, per inserirsi invece a pieno titolo nella realtà nazionale ed
europea.
Ed al riguardo
1'ammaestrameuto del Delfico, con 1'esempio della sua vita, con le sue opere
ed il suo pensiero, è tutto da approfondire e recuperare, soprattutto per
quella indiscussa capacità di saldare i problemi locali ad un contesto di più
vasto respiro, di legare ricerca e proposta di soluzione.
Nel concludere
queste mie considerazioni svolte senza presunzione di novità e nella
consapevolezza della loro limitatezza, potrei ritenermi pago se sarà stato
stimolato, al di la della ristretta cerchia dei conoscitori, un qualche interesse ad approfondire
meglio la nostra storia e trarre il giusto profitto dall'insegnamento tuttora
valido del Delfico, nella certezza che le molteplici ed interessanti iniziative
celebrative che seguiranno nei prossimi mesi risponderanno a questo obbiettivo.
Sarà il più degno riconoscimento che avremo dato a questo illustre ita1iano,
figlio di Teramo e dell'Abruzzo.
- giugno 1985 -
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