All’inizio dell’estate 1788 Delfico richiese ed ottenne licenza di
ritornare in Provincia [da Napoli ove si trovava], rimanendo ancora
esonerato dall’incarico di assessore militare per potersi liberamente
muovere da questa residenza (47): sappiamo che intendeva accompagnare il
nipote Orazio, figlio di Giamberardino, all’Università di Pavia, e che
si disponeva egli stesso ad un prolungato soggiorno nell’Italia
settentrionale.
Nelle ultime righe della supplica di esonero diceva che in questo
periodo si sarebbe tuttavia
ingegnato «a non essere inutile cittadino». A tale impegno Delfico
faceva quindi risalire la visita di quella estate alla terra di
Castelli, e la Memoria in forma di lettera inviata al Ministro
Corradini direttore del Consiglio delle Finanze sulla nota industria di
maioliche, in data 1 luglio 1788 (48).
«… Si tratta di una fabbrica che dà
sussistenza ad un intera popolazione [Castelli] - si legge nella Memoria
-che introduce nel Regno e nella più scarsa Provincia tanto numerario
col solo capitale del proprio travaglio, e che compensa in parte il
debito col Forestiere… Essa è stranamente aggravata di dogana, di passi,
ed altri dritti poco convenientemente introdotti, che la fanno tutto
giorno decadere… Nello stato vicino, ed a molta prossimità si è
stabilita una nuova fabbrica ricolma di favori ecciò mirasi decisamente
su la rovina della nostra… L’ignoranza attuale dei fabbricanti tende
fatalmente a far cadere in dispregio l’industria… Anche gli abusi
feudali contribuiscono ad aggravarla… Per ristabilire quella manifattura
e quel commercio di altro non bisogna che di un piccolo sguardo del
Sovrano… »
Questa per sommi capi la traccia della Memoria, di oggetto
prettamente politico-economico e ricca di inediti ed interessanti dati
provinciali. Memoria per molti versi ravvicinabile a quella dei Risi.
Quantunque qui si tratti non già di una cultura, bensì di una industria,
si fa pur sempre leva su una risorsa economica del territorio con un
obbiettivo mercantile e finanziario, e la richiesta di riforma si
applica ancora una volta alla eliminazione di impacci feudali e fiscali
che rischiano di soffocarla. La Terra di Castelli, posta sopra un colle
do argilla alle immediate pendici del Gran Sasso, è patria di una antica
fabbrica di ceramiche, «molto conosciute in Regno e fuori d’Italia
ancora col nome di majoliche dei Castelli». Situata in territorio
ingratissimo e non suscettibile di agricoltura. L’industria degli
abitanti ha da più secoli trovato il proprio sostentamento elaborandovi
l’abbondante argilla e giovandosi del comodo delle altrettanto
abbondanti acque e combustibile. Per la bontà intrinseca del prodotto
resistente alle alte temperature la fabbrica ha «avuto la preferenza
sopra tutte le altre del regno, e sostenuto anche il concorso colle
fabbriche forestiere». Il prodotto annuo è di 6000 ceste, ossia tremila
salme, di vario vasellame per uso domestico. Di queste prendono
annualmente la via dell’esportazione 4.500, cioè i due terzi, che
vengono collocate sui mercati di Ancona e di Senigaglia. Il giro di
affari supera i 15.000 ducati annui, che immessi nella circolazione
della Provincia costituiscono una voce non secondaria al suo attivo
(«rinfrancano in qualche modo le ingenti somme che [dalla Provincia]
escono per provvedersi de’ generi necessarj»); che costituiscono inoltre
una voce di credito «coi Forestieri, già di troppo nostri creditori»,
rendendosi perciò degna di tutta l’attenzione del Consiglio delle
Finanze.
Delfico «rappresenta» lo stato di progressiva decadenza in cui versa
questa manifattura, ed il rischio che, ove non si venga agli opportuni
ripari, essa possa correre alla totale rovina. Parlando delle cause
della crisi, le ricollega ad una condizione generale all’economia del
Regno: «Due – dice – sono le principali cagioni delle
distruzioni delle manifatture in questo regno: l’una fu nelle cattive
leggi, e disposizioni economiche; l’altra nella feudalità, che deturpa
ed avvelena lo Stato Politico, Economico, e Morale nel Regno».
Nella individuazione delle «cause malefiche» che colpiscono in specie
questa produzione e smercio, indica in primo luogo la esorbitanza della
dogana di esportazione, che gli risulta oltre tutto pagata anche
dalla parte non destinata alla esportazione. La tesi economica del
Delfico è che tale dogana dovrebbe cadere solamente sul valore
intrinseco del genere lavorato, cioè la creta, e con esclusione dei
materiali d’importazione (piombo, stagno, sale e colori necessari alla
verniciatura e smaltatura), i cui dazj sono già stati previamente
pagati. Ogni ulteriore tassazione, che verrebbe necessariamente a
gravare sul lavoro umano, costituisce «un germe di distruzione delle
arti e delle industrie, che invece si dovrebbe creare e sostenere, e
dalle quali abbisogna tanto il nostro Regno» (49).
Ora, poiché le majoliche non hanno alcun valore intrinseco ma solo
quello prodotto dall’arte, esse neppure dovrebbero essere soggette al
dazio di esportazione. Per contro, negli ultimi vent’anni la dogana era
stata prima imposta e poi addirittura triplicata da grana 3
1/3 a 9
2/3 per cesta, «quasi che la terra argillosa fosse cresciuta di
valore, o si pensasse di sopprimere un’arte dannosa allo Stato». Al
rincaro della dogana si dovevano aggiungere il rincaro della legna, del
piombo e dello stagno d’importazione.
Ma l’esorbitanza della dogana non era che una delle cause di decadimento
di quell’industria,
«… e già ognun sa quanto nel Regno si
ripetino frequentemente le coazioni e le vessazioni su le industrie de’
cittadini. I vasellami de’ quali si parla, e de’ quali s’è detto che per
più di tre quarte parti vanno fuori del Regno, devono essere trasportati
sopra animali da soma insino al Mare, e specialmente nella Marina di
Giulia. Ma non vi sono disgraziatamente strade in Regno nelle quali non
s trovino violenti ostacoli al commercio per antichi abusi baronali, che
sussistono tuttora con pubblico danno e vergogna, e contro le lagnanze
generali e la ragione anche riconosciuta dal Governo. Tali sono i
passi; ed i poveri Castellani in una giornata di tragitto devono
pagarne tre, cioè alla Guardia del Vomano, a Notaresco, ed a Giulia,
ciascuno di grana tre, che vale a dire di nove grana a salma, l’istesso
che si paga pel dazio doganale».
I cd. passi o pedaggi sono antiche angarie feudali, ma il
fatto che il feudo di Roseto fosse rientrato in pertinenza del Sovrano
non aveva portato alla loro abolizione, semplicemente tramutandoli in
rendite del regio fisco.
«Né questo è tutto - continua la Memoria -. Arrivati che sono al
luogo dell’imbarco senza che la merce ivi si contratti devono pagare il
dritto di piazza, la custodia, la bastaria, che supera
altrettanto gli altri dazi annoverati, e tutte queste contribuzioni
cadono non sul valore reale della merce ma sulla manodopera» per un
ulteriore importo di quattro carlini a salma.
Calcolato il valore intrinseco della merce in grana venticinque per
salma, Delfico rileva che la dogana e questi ulteriori diritti ammontano
a quasi il doppio di tale valore. E non sono ancora finite le «gravezze»
cui è assoggettata questa manifattura:
«In ogni imbarco si devono pagare molte
persone che non servono né al fisco né ai commercianti, ma tendono
certamente ad impedire il commercio, tanto perché lo aggravano, quanto
perché lo ritardano: di tale specie sono diversi dritti che si ripetono
in ogni carico, cioè cinque carlini cadauno a tre ufficiali di mare; e
carlini sette per la licenza del Portulano; ma quel ch’è più strano
cinque carlini per ciascuno ai Deputati della salma; e da alcuni anni a
questa parte una lettera dal Tribunale di Teramo che si paga carlini
quattro, ed un’altra lettera o licenza dell’Amministrazione delle
Dogane, che cresce progressivamente, giacchè principiò col pagarsi due
carlini, nell’anno passato crebbe a quattro, ed in questo è cresciuto
fino a cinque».
Siamo qui nell’ambito di quegli «uffici» e di quei «dritti» parassitari
contro cui andrà in ultimo a convergere una parte essenziale del
confronto antiburocratico di Delfico, ma che è già ben delineata nelle
memorie dei Risi e della Grascia in note sulla venalità
dei «bassi impieghi» provinciali, sulla corruttela delle leggi, e sugli
abusi, eccessi, irregolarità e violenze dei dazi (50).
Il bilancio di questi ulteriori aggravi porta Delfico a considerazioni
sulla necessaria diminuzione del lucro per gli addetti a quella delicata
lavorazione, ed al conseguente decadimento dell’arte. Ed aggiunge: «così
sono venute meno in questa Provincia le fabbriche de’ panni che prima ne
facevano la ricchezza, l’industria delle calze di lana, e la
coltivazione dello zafferano, che se fossero state riparate a tempo
ancora felicemente sussisterebbero».
Esaurito con questo il tema delle «cattive leggi, e disposizioni
economiche del regno» e passando alle gravezze feudali, la Memoria
accenna alla angaria feudale delle acque che incide sui costi di
fabbricazione:
«La fabbrica delle majoliche ha bisogno
di acqua specialmente per i piccoli molinelli che macinano il bianco, o
sia smalto dei vasellami; un piccolissimo getto di acqua basta a far
muovere queste machinette appena di tre palmi di diametro; ma l’acqua si
pretende sempre feudale (sia o non sia tale) e nell’incertezza stessa i
poveri vassalli sono obbligati a pagare quindi per ogni molinello, o
sia, macinando o no si devono pagare ducati sei. Sono ora quindici, e
più sarebbero come più erano prima se non vi fosse questa non
indifferente gravezza sull’arte che è per se stessa tapina» (51).
Delfico, che già nella memoria dei risi ha sostenuto la tesi del
libero uso delle acque, libero dono della natura, sostiene qui
sussidiariamente che nelle liti per la demanialità delle acque – quale
quella che si trascinava in Castelli – le Università o addirittura i
«poveri particolari» non dovessero essere lasciati soli a fronteggiare
le rivendicazioni baronali, ma dovessero essere sostenuti da «coloro
che, essendo avvocati del Re, e del Real Patrimonio, devono esserlo
anche della Nazione, che se in un aspetto è la famiglia, in un altro è
il vero patrimonio del Sovrano».
Il discorso di politica economica generale trova un interessante
sviluppo nella circostanza che ultimamente nel vicino Stato Pontificio e
precisamente nella Città di Ascoli si era introdotta una fabbrica di
ceramiche simile a quella di Castelli, senza dubbio intesa a sottrarle i
mercati delle Marche. La manifattura ascolana godeva di una serie di
vantaggi, che Delfico elencava come segue: «1. – il non essere
assoggettata alla Dogana ed avere anzi una gratificazione del mezzo per
cento sul valore della mercanzia; 2. – del non dover pagare i passi
già da molti anni aboliti in quello Stato; 3. – il trasporto per terra
assai più breve, più comodo e meno dispendioso»; e di un vantaggio
particolare che derivava a quella fabbrica dalla particolare protezione
del governo. Sappiamo che i Teramani seguivano la politica economica di
Pio VI e gli indirizzi di sviluppo marchigiani con attenzione e spirito
di emulazione – i Saggi del Nardi presentano in tal senso più di
uno spunto, ed è forse ancor più significativo che la visita del Galanti
negli Abruzzi del 1791 comprendesse una attenta ricognizione nelle
Marche, della quale attesta anche il diario di viaggio (52).
Dalla nuova politica economica pontificia, protezionistica e di
incentivi all’industria il liberista Delfico traeva la seguente
allarmata considerazione: «Già si sa che ora le Nazioni si fanno la
maggior guerra col togliersi le industrie commerciabili, e che tolte che
sono è impossibile il restituirle (53). Onde la cura de’ Supremi
Amministratori dev’essere di gelosamente conservarle».
Passando infine alle indicazioni di riforma, Delfico dice che rimedio «aggevole,
pronto ed efficace» consisterebbe nell’«abolizione della dogana e de’
passi e degli altri non necessari ostacoli che impediscono il
commercio». Tra altre considerazioni in favore dell’abolizione della
dogana, si osserva che questa, tanto pesante per l’industria, risulta
essere «molto leggiera cosa per l’Erario», e lo sostiene sull’autorità
del Galanti della Descrizione delle Due Sicilie, secondo le cui
rilevazioni gli introiti doganali non superavano i ducati 600 annui:
«Oggetto molto piccolo, se si riguarda in se stesso, oggetto, oggetto
decrescente, e di tanta poca importanza, che non ha bisogno di
rimpiazzi. Molto meno, e forse neppur la metà sarebbe ciocchè si paga
per i passi, che in questa Provincia appartenete al Sovrano
sarebbe un bell’esempio di generosità e di giustizia il vederli
aboliti». «Tolti quest’incomodi principali, gli altri dovrebbero cessar
anche in parte o diventare meno importuni, e così si otterrebbe il
ristabilimento di questa fabbrica cadente».
Sembra evidente che Delfico non intendeva portare il discorso sugli
uffici parassitari e sulle cariche venali al di là della denuncia di
principio. Per le angarie dei passi e delle acque
richiedeva la totale abolizione nei territori acceduti al Regio fisco;
per le controversie sulla feudalità delle acque intendeva che l’avvocato
del Re e del Real Patrimonio si erigesse a rivendicatore della
demanialità contro il Barone. Infine richiedeva la particolare
protezione del Sovrano su questa manifattura: essa avrebbe potuto
esplicarsi o dando alla fabbrica dei Maestri e delle istruzioni in modo
da aggiornarne le antiquate tecniche e gusto, oppure facendo venire in
Napoli alcuni dei locali ad istruirsi: «La somma generosità del nostro
Sovrano mi fa fondatamente sperare, che tale ajuto non sarebbe lontano
dai di lui abituali sentimenti; e se di tanto che si spende a sostenere
la Real Fabbrica di Porcellana [di Capodimonte] si convertisse una
piccola porzione a sostenere quella manifattura, ch’è stata madre della
Porcellana istessa, sarebbe quasi una dovuta gratitudine filiale, tanto
più che nell’uno o nell’altro modo il dispendio sarebbe di piccola
importanza».
Risulta che un decreto del 5 giugno 1789 venne incontro a quella parte
della Memoria che aveva richiesto il totale sgravio fiscale di quelle
majoliche (De Filippis Delfico, pp. 25-26). |