De Filippis

 

De Filippis-Delfico

 

(Teramo, 1820)

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Stemma famiglia De Filippis-Delfico, Teramo, 1820

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Delfico

(Napoli, sec. XVIII)

(Teramo, sec. XV)

Stemma famiglia De Filippis, Napoli, sec.XVIII

Stemma famiglia Delfico, Teramo, sec.XV

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Melchiorre Delfico collezionista di libri e di monete

di Adelmo Marino

In I luoghi della storia a Teramo. Il Palazzo Dèlfico, di AA. VV., S. Atto di Teramo, Edigrafital 2004

Con la conclusione del restauro, rientrano nel Palazzo Delfico, da cui erano usciti per generosa donazione del suo antico proprietario, i molti libri che tra l'Otto e il Novecento hanno dato vita all'attuale Biblioteca provinciale di Teramo. Una biblioteca che, con il suo ingente patrimonio documentario e bibliografico, costituisce una delle risorse più importanti e uno dei punti di riferimento culturale più consistenti della società italiana meridionale.

L'avvenimento ci consente di lumeggiare un'attività significativa e per certi aspetti affascinante della poliedrica personalità di Melchiorre Delfico, non ancora studiata come si dovrebbe e come si sarebbe dovuto nonostante i periodici e, a volte, perentori suggerimenti da parte degli studiosi italiani e stranieri.

Melchiorre Delfico, oltre ad essere stato uno statista, uno storico, un filosofo ed un riformatore illuminato, fu collezionista di libri antichi e di monete romane e preromane assai apprezzato nel suo tempo.

"Malgrado la ricchezza degli studi su Delfico, sul suo pensiero e sulla sua attività riformatrice, non molto si conosce – ha notato recentemente e giustamente Anna Maria Rao nel volume collettaneo in onore di Mario Agrimi – del Delfico collezionista e ancor meno della sua opera di mediazione nel mercato antiquario"(cfr.a. M.Rao, Fra il pubblico bene e le lettere. La corrispondenza di Melchiorre Delfico con François Cacault e Pierre-Michel Hennin, in Filosofia Storiografia Letterature. Studi in onore di Mario Agrimi, Lanciano, ed. Itinerari, 2001, pp. 13 e sgg.).

Si appassionò al collezionismo agli inizi degli anni Ottanta del Settecento – è lui stesso a rivelarlo – frequentando gli ambienti raffinati della Corte napoletana e divenendone un esperto nel corso degli anni grazie ai suoi rapporti con gli uomini più rappresentativi della Curia romana e con gli intellettuali più apprezzati delle università italiane e straniere. Il secolo XVIII, come è noto, è il secolo di un collezionismo veri e intenso che per certi versi all'inizio appare lo sbocco naturale del mecenatismo tipico di una ristretta cerchia di potenti, cioè di sovrani e pontefici.

Con il tempo, al collezionismo esclusivo dei principi si aggiunse quello degli aristocratici e pertanto, per la diversità e la qualità dei ritrovamenti, divenne un fenomeno europeo complesso e di grandi dimensioni.

Spesso i rappresentanti più ricchi e colti della piccola nobiltà e della nascente borghesia approfittavano dei Grand Tour per fare incetta di reperti storici, artistici ed archeologici più o meno certi. Le persone si scambiavano di tutto e acquistavano tutto: quadri, tappeti, mobili, ceramiche, reliquie, conchiglie; passavano dalle cose più costose a quelle più modeste ed economiche.

Fu un fenomeno sociale e culturale di grande rilevanza e più diffuso di quanto non si creda perché prodotto dai più svariati bisogni di carattere estetico, sociale, scientifico e psicologico. Ma a parte le finalità ludiche, tese ad occupare piacevolmente il tempo libero o ad investire con oculatezza le piccole o grandi risorse economiche, le collezioni non furono altro che le manifestazioni visibili di un interesse scientifico vero o latente.

Talvolta il fenomeno è stato visto come un aspetto della decadenza scientifica (semplice passatempo), altre volte come una crisi di valori sociali in ordine al mutare delle sensibilità culturali ed economiche, altre volte ancora come una smania irresistibile di novità rispetto alle abitudini tradizionali e, infine, come il prevalere dell'apparire sull'essere.

Non è stato così per gli intellettuali seri del Settecento, in quanto dalle loro collezioni sono poi sorti i musei, le biblioteche, le varie scuole di arti e mestieri, le pinacoteche ecc.

Molte volte erano i negozianti di tessuti, quelli di cuoio e gli ecclesiastici, i quali ultimi – scrive Maurice Rheims – in quanto bibliofili, avevano modo di arrotondare le loro magre entrate fungendo da mediatori (cfr. M.Rheims, L'affascinante storia del collezionismo, trad. it., Torino, 1964, p. 22; Francesca Fedi, L'ideologia del bello. Leopoldo Cicognara e il classicismo fra Settecento e Ottocento, Milano, 1980).

Oltre ai re, ai nobili e all'aristocrazia in genere, diventarono collezionisti i banchieri, i giudici, i proprietari terrieri e i signorotti di provincia così, ad esempio, a Teramo Giamberardino Delfico, fratello di Melchiorre, il quale fu un accanito e fortunato raccoglitore di epigrafi latine e di statue romane.

Giamberardino addirittura trasformò la casa e i suoi giardini in un attraente museo archeologico all'aperto a disposizione degli amici. A lui possiamo aggiungere Gianfrancesco Nardi di Tottea (ricorda Coppa-Zuccari), Francesco Antonio Grue di Castelli e, naturalmente l'atriano Gabriello Cherubini amico del Delfico e in qualche modo suo collaboratore. (Novità numismatica, Atri, 1847). Dalla collezione di Giamberardino, faticosamente raccolta nelle campagne e nella città, e un tempo gelosamente conservata nel suo palazzo, è nato l'attuale Museo civico (G. Delfico, Dell'Interamnia Pretuzia, Napoli, Stamperia Reale, 1812).

Nella metà del Settecento, inoltre, si sviluppò un particolare tipo di collezionismo che, appunto in riferimento ai protagonisti, si disse "diplomatico". In effetti i funzionari politici si rivelarono assai preziosi per loro e per i loro sovrani in quanto – come scrive Francesca Fedi – "pur senza disporre di fortune principesche, riuscivano spesso ad accaparrarsi le opere più preziose e più gelosamente custodite, muovendosi appunto attraverso i canali diplomatici e i servizi consolari" (cfr. F. Fedi, L'ideologia del bello, Milano, Franco Angeli, 1990, p. 60).

Nella figura dell'uomo politico colto, infatti, spesso si riunivano una molteplicità di competenze e di aderenze, sia sul piano sociale sia su quello economico, che costituivano altrettante garanzie. A differenza del collezionista aristocratico, che per scelta si affidava ai gusti e al parere degli esperti e dei viaggiatori, non sempre scrupolosi o preparati, i collezionisti istituzionali e quelli più avveduti si affidavano ai diplomatici delle ambasciate che avevano una buona cultura di base e che dimostravano delle particolari sensibilità. Questi si rivelavano ancor più preziosi poiché riunivano nelle loro persone i ruoli di collezionista, di esperto, di estimatore e, quindi, di mercante-mediatore con un enorme risparmio sui tempi e sui costi.

E' in questa veste che nel 1787 incontriamo Melchiorre Delfico e a rilevarlo è stata Anna Maria Rao, pubblicando, nel ricordato contributo in onore di Mario Agrimi, la sua corrispondenza, del tutto sconosciuta, con François Cacault e Pierre-Michel Hennin.

La lettera del 26 gennaio 1787 al Cacault è senza dubbio significativa per il destinatario finale, Pierre-Michel Hennin, ma lo è ancora di più sul piano culturale poiché si caratterizza come un piccolo saggio sul commercio, sulle strategie e sulle caratteristiche di un collezionismo così costoso ed elitario come quello numismatico.

Intanto – scrive il Delfico – non bisogna avere "fretta" nell'acquisto delle monete o delle medaglie perché "già non sempre se ne trovano vendibili, e qualche volta vengono delle opportunissime occasioni". In secondo luogo avverte che nella compra-vendita non bisogna mai perdere di vista il mercato, che è quello che stabilisce il prezzo e definisce la qualità. In nessuna cosa ci sono delle costanti e meno che mai nell'antiquariato. Ci sono infatti delle medaglie d'argento che si possono "comperare pel doppio del peso, e quelle di rame o bronzo per una mezza lira di Francia per ciascuna, ed anche una lira intera se sono di buona conservazione" fino ad un Luigi di Francia. In terzo luogo, ricorda all'illustre francese, è bene togliersi dalla testa l'idea di trovare con facilità le monete d'oro. "Di monete d'oro non parlo, scrive, perché sono divenute tanto rare quelle della Magna Grecia, che in più anni che io raccolgo, non me n'è capitata alcuna".

Analogo discorso esprime per l'inedito e il raro. In tutta la sua collezione, confessa, "non ne posseggo che una sola e riguarda la città di Mesma o Medama come la chiamano comunemente i geografi".

In una successiva lettera del 21 agosto 1787 aggiunge altri avvertimenti, come quello di stare lontano dagli esercenti pubblici come i "brocanteur" che "mettono sempre prezzi impertinenti" e dai collezionisti occasionali come i "viaggiatori fanatici", che per mostrare una "intelligenza" che non hanno, sono disposti a pagare prezzi esorbitanti pur di "riportare in Patria qualche frutto esotico, segno del viaggio" piuttosto che "per gusto o per amore delle medaglie".

In un mercato così fluido e accidentato anche a causa dei falsi e delle contraffazioni è più facile, consigliava il Delfico all'Hennin, rivolgersi ai collezionisti privati in fase di "realizzazioni" immediate che a quelli di professione.

"Vi è una Collezione vendibile di urbiche, di Consolari, e d'Imperiali, suggerì, ma il possessore non vuole disfarsene nella sola parte delle medaglie di Città, volendo vendere tutta la collezione intera: Le urbiche in argento ed in bronzo passano le trecento, e ve ne sono delle rare ed anche delle rarissime, e se tutto si potesse avere per cento once o sia per cinquanta Luiggi [sic!]di Francia, sarebbe sicuramente buon negozio".

L'intermediazione andò a buon fine e il Delfico, felicitandosi per l'acquisto, gli scrive: "Mi ho presa poi la libertà di aggiungervene due, che aveva duplicate nella mia collezione, cioè una di Siri in bronzo, e l'altra di Nuceria Alfaterna nello stesso metallo, ed in caratteri osci e che io amo meglio chiamar sannitici" (Napoli, 21 agosto 1787).

Tre anni più tardi, nel 1790, suggerì all'Hennin l'acquisto di nuove medaglie appena scoperte e di gran pregio.

"Fortunatamente posso avvisarvi – gli fece sapere – di avere a vostra disposizione cento medaglie della Magna Grecia e Sicilia, tutte di buona conservazione, ed il prezzo delle quali importa sessanta ducati della nostra moneta, che conto si possano ragguagliare a lire centoquaranta, e mi lusingo che possiate esserne contento. Credeva potervi anche mandare una medaglia dei Popoli Frentani, ch'è di grandissima rarità, ma il possessore non avendo voluto liberarsene neppure per dieci ducati,mi è convenuto lasciarla: Essa è di rame di seconda grandezza, e nel dritto ha la testa di Mercurio, al rovescio un Pedaso con un tripode sotto, e dall'una e dall'altra parte la leggenda" (Napoli, 17 luglio 1790).

Nell'ambiente il Delfico era considerato un'autorità e un intermediario d'eccezione nel senso che non si limitava a offrire monete o medaglie, ma le illustrava anche nei dettagli facendo spesso ricorso a precise indagini storico-filologiche.

Il suo non era un collezionismo di tipo venale o, peggio, fine a se stesso, ma si articolava nell'ambito di una intensa partecipazione civile e perfino patriottica, elaborando un concetto, quello di "bene culturale" che per l'epoca era rivoluzionario.

Pur nell'ambito delle sue occupazioni presso la corte o nell'ambito del Consiglio delle Finanze, il Delfico non lesinava consigli ed aiuti agli amici come a semplici conoscenti.

E così, ad esempio, tra il 1790 e il 1792 inviò all'amico Gazola di Verona, interessato ad ampliare la sua raccolta, alcuni esemplari di conchiglie e di pietre di lava vesuviana e qualche anno più tardi offrì all'archeologo Giuseppe Micali l'acquisto di alcune monete abruzzesi.

Le lettere datate rispettivamente 20 febbraio 1792 e 9 aprile 1792, purtroppo, non ci dicono nulla di quali monete si tratti: se i duplicati di quelle personali, proposte al francese Hennin, o quelle che andarono perdute.

A lui, invece, alcuni anni prima, il romano Pietro Borghesi propose l'acquisto di monete e di medaglie italiane oramai introvabili.

Con Friedrich Munter (1761-1830), tedesco di Ghota, ma danese di educazione, che soggiornò in Italia e soprattutto a Napoli per un lungo periodo di tempo, il Delfico condivise a lungo la passione per la numismatica (cfr. B. Croce, Federico Munter e la massoneria di Napoli nel 1785-86, in Aneddoti di varia letteratura, Bari, Laterza, 1954; Armando Di Nardo, Storia e scienza in Melchiorre Delfico, Chieti, 1978, p. 125).

In una lettera del 1786, dopo essersi lamentato con lui per la lunga assenza da Napoli, senza per altro mandargli alcun "pezzo" per la sua collezione, il Delfico gli fece sapere che lui invece pur "in tanta scarsezza di medaglie […] un piccolo acquisto […] un buon negozio col comperarne centosei da un particolare per la somma di ducati 36, delle quali 35 sono di argento e le restanti di bronzo. E mi spinsi specialmente a questo contratto per avervi trovato una Bitontina ben conservata, che a me costò ducati 7, una Barina e una Iuria inedita, e la piccola Breggia colla […] ed insegne di Ercole che è rarissima. Il Talani, lo informò, non da più le urbiche d'argento, che al prezzo di 8 o 10 carlini l'una le comuni, ed a molto maggiore quelle che sono un poco rare. D. Fortunato credo che acquisti per Valdek, perché non mi porta più nulla, con tuttoché l'abbia sempre pagato generosamente. La collezione, aggiunse, è cresciuta poco in numero, ma in qualità assai, e con dispendio non indifferente; giacchè a qualunque costo ho voluto aver da Carlo Cornè la Campana e la Posidonia in argento; e dal Nevico Elia la medaglia di Reggio in argento, una di Larino inedita, una di Atri, ed un'altra di Messina differente da quella che aveva e più elegante, oltre di molte altre di minore importanza e del Regno e di fuori, che insieme montano a più di 80 ducati.

Ultimamente, proseguì, ho fatto una corsa in Puglia fino a Molfetta, non solo ad oggetto di vedere e osservare la celebre miniera, ma per la Numismatica ancora: quanto però sono stato contento del primo oggetto, altrettanto i miei desideri sono rimasti poco soddisfatti pel secondo, perché non ho trovato nulla a comperare, e solo dalla generosità di un amico ho avuto una monetina di Ugento OIAN un tipo che mi mancava, e più intiera e conservata di quella pubblicata dal Pellerin" (cfr. A. Di Nardo, 1978, p. 141-42).

Purtroppo erano finiti i tempi d'oro quando, come ricordava lo stesso Munter in una lettera da Copenaghen, era facile trovarle: "Pensi, scriveva, al nostro viaggio di Pesto, e alla divisione e ripartizione delle medaglie comprate in istrada, che facevamo nella locanda di Salerno". (Copenaghen, 8 agosto 1810, G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, libri due, Teramo, 1836, p. 97).

Il Delfico si teneva costantemente aggiornato, seguendo il Catalogo Numismatico del Thott, che arrivava puntualmente a Napoli, attraverso il quale nel 1790, acquistò alcune sia "pure piccole cose e di poco momento" ma assai interessanti sul piano culturale.

Forse risale a questo periodo l'idea di scrivere qualcosa sulla numismatica italiana perché in una lettera del 1790 confessò al Munter: "Se riguardo però la collezione, vedo che ho un buon numero di medaglie inedite e degne di veder la luce, e forse gli preannunciò un giorno comparirò con la divisa di Autore in questa parte della Filologia, 200 sono le città che posseggo finora, ma delle città della Grecia propriamente detta sono molto scarso", mentre possedeva due preziose monete Captane o Campane in argento colla legenda KAMPANO "con piccole differenze di segni monetali e colla leggenda – spiegava – in una da destra a sinistra, e l'altra al contrario, e questa con non piccolo disturbo l'ebbi dal sig. Borghesi di Sevignano che era forse la più copiosa raccolta fra i privati d'Italia, specialmente per le medaglie delle Romane famiglie. In Venezia – concluse – ebbi anche qualche cosa per via di permute ma non arrivai a comperare nulla" (cfr. A. Di Nardo, 1978, p. 144).

Purtroppo non sapremo mai quante monete il Delfico raccolse nella sua vita, a quale epoca risalissero e di quali città fossero. Tra le sue carte si conserva una lista intitolata: "Note di medaglie romane che si vogliono comprare, colla nota de' prezzi in moneta Napoletana, sin dove deve estendersi il commissionato, a cui si raccomanda più di tutto la buona conservazione, e l'indubitata antichità, lasciandosi anche quelle, sopra le quali cada un menomassimo dubbio di falsità" di cui però non sappiamo se, quando e quante ne acquistò.

Quelle possedute e personalmente acquistate e gelosamente custodite, purtroppo, andarono perdute a Pescara durante la sua fuga precipitosa, sotto il falso nome di Carlo Cauti, alla volta della Repubblica di S. Marino per sottrarsi alla restaurazione borbonica postrepubblicana.

"Fra gli effetti che più rincrebbe al nostro profugo, in quella disgraziata emergenza, sono da annoverarsi, ricorda il suo primo biografo, le medaglie antichissime dette Urbiche, da lui raccolte non senza molta cura e dispendio, coll'intendimento di provare per tal testimonio quanto l'itala civilizzazione avesse preceduto l'epoca de' Romani, i quali ci riguardò sempre con un determinato disdegno. E queste medaglie perdute in Pescara – specifica – erano residuo pur ricco ed importante d'un maggior numero di esse, ch'egli aveva dimezzato per vendita fattane nel 1796 ad un Inglese in Livorno, e, prima, nel 1787, anche a Napoli" (G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, libri due, Teramo, 1836, pp. 52-53).

Con molta probabilità da allora smise di coltivare personalmente un passatempo così difficile e dispendioso, anche se continuò a fare da tramite con i suoi amici collezionisti, talora approfittando, specie durante il periodo francese, della sua posizione in seno al governo.

Nel 1807, ad una precisa richiesta, rispose al Munter: "Non ho di nuovo che una bella Siracusana in oro, ed una Possidonia, con alcune altre persiane di buona conservazione, e piccole altre cose di pochissimo momento. Se tu vai a Parigi, potrai avere delle molte cose Greche, perché non vi è Console che non sia raccoglitore" (cfr. A. Di Nardo, 1978, p. 148).

Gli appunti, che comunque prese mentre le acquistava, le selezionava e le confrontava, fortunatamente confluirono nel volume sulle monete atriane. Di quest'opera ne esistono tre edizioni: due curate personalmente dall'Autore (a due anni di distanza l'una dall'altra), mentre la terza, da Giacinto Pannella all'inizio del Novecento per conto dell'editore Giovanni Fabbri.

La prima porta il seguente titolo: Antica Numismatica della città di Atri / nel Piceno con un Discorso preliminare su le origini italiche / Con permesso; la seconda ha per titolo: Della Antica Numismatica / della / Città di Atri / Nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini italiche / Napoli / dalla tipografia di Angelo Trani / 1826.

I frontespizi divergono sia dal punto di vista della grafica che dal punto di vista del formato. Quella più grande è del '26, quella più contenuta del 1824.

Nell'edizione del 1826 c'è addirittura l'aggiunta del marchietto dell'editore A(ngelo) T(rani), mentre quella del '24 si apre con una lettera, senza data, ma firmata dal Delfico e dedicata – Alla Reale Accademia Ercolanense di Archeologia ed a S. E. Reverendissima Monsignor Rosini Presidente della medesima e della Reale Società Borbonica di Napoli – e comprende la richiesta autorizzazione per la stampa, avanzata dall'editore Ubaldo Angeletti al Marchese Tomacelli (11 maggio 1824), concessa il 17 maggio 1824 su giudizio favorevole del canonico don Giulio Quartaroli – Rettore del R. Collegio di Teramo.

L'edizione napoletana del '26, invece, si apre con la lettera – A Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Colangelo Presidente della Giunta per la Pubblica Istruzione – e si conclude con l'autorizzazione, richiesta il 17 luglio 1826 e ottenuta il 18 luglio 1826 con tutte le formule di rito.

Il volume si apre con una lettera de L'Editore a' Lettori, prosegue con l'Introduzione e con alcune novità sui Rischiaramenti ad alcune osservazioni fatte sull'opera della numismatica atriana. A S. E. Il Signor Conte Giuseppe Zurlo (pp. 55-82), tutte di mano del Delfico, ed è sempre dedicato allo Zurlo, e contiene, inoltre, il breve trattato Delle antiche ghiande missili di piombo – Lettera a S. E. il Signor Conte D. Giuseppe Zurlo – con la raffigurazione di undici missili di cui sei con la scritta e cinque senza. Termina con la riproduzione di tre recensioni: la prima apparsa su l'Antologia di Firenze, firmata da Giuseppe Micali (aprile 1825), la seconda sulla Biblioteca Italiana di Milano e la terza sulla Rivista Enciclopedica Francese (gennaio 1826).

Nelle intenzioni dell'Autore, quindi, la nuova edizione voleva essere qualcosa di più che una semplice ristampa. L'edizione del Pannella è modellata su questa del 1826 e contiene, oltre alle note del curatore, alcune aggiunte iconografiche. Con il libro il Delfico intendeva mostrare soprattutto l'enorme valore scientifico delle monete per la conoscenza della storia dell'umanità nell'epoche antiche.

Tra la prima e la seconda edizione si diede molto da fare nel chiedere aiuti, consigli, lumi, incoraggiamenti e notizie a tutti, agli amici e agli specialisti come l'aquilano Giacinto Dragonetti, all'atriano Francesco Sorricchio e ad altri. Leggendo velocemente le prefazioni e le lettere sembra che il Delfico non attribuisse grande importanza alla sua fatica. Al Dragonetti la presentò come "un'opera senile", al Presidente della Reale Accademia Ercolanense uno "studio tranquillo", adatto alla sua età (quasi che in fatto culturale si potesse fare una graduatoria ideale fra i lavori senili, giovanili e di mezza età) mentre, all'amico Giuseppe Zurlo come "un'opera quasi del tutto concettuale", ma non era così.

Nelle due introduzioni chiese venia a tutti per le eventuali negligenze e imperfezioni dovute all'età "che chiamasi decrepitezza" ma anche alla pochezza dei libri a disposizione, spiegando come per questi motivi si era dovuto mantenere "sobrio in citazioni ed in ragionamenti congetturali, che sogliono far gran giuoco nel trattar tali argomenti".

Tutte queste espressioni hanno più il senso di una captatio benevolentiae che non un valore limitativo. In questo "tranello" cadde anche il redattore de' La Ricreazione scrivendo che il trattato "Fu uno sfogo dell'età cadente l'andar ravvicinando le antiche e moderne opinioni intorno a tale argomento. E trovandole involte nelle favole, piuttosto create dagli autori che dalla natural fantasia, figliole dell'ignoranza, volle occuparsi a rintracciare qualche indizio del vero. Questa opera fu bene accolta in Italia e in Francia che, i giornali ne fecero i più distinti elogi. Ma l'Autore avendo trovato in quello di Firenze alcune osservazioni che stimò degne di essere rischiarate, non si dispensò dall'eseguirle e furono pubblicate nella seconda edizione che ne fece a Napoli, cui aggiunse una Memoria epistolare sulle ghiande missili degli antichi. Di esperti studi però si era molto occupato il Delfico nel corso della sua vita, si aveva formato una sceltissima raccolta delle monete urbiche specialmente dell'Italia, che nelle vicende della fine del secolo scorso fu costretto ad abbandonare". (cfr. La Ricreazione, 7 agosto 1834, a. I, n. 23).

Il riferimento alla vecchiaia e alla pochezza delle informazioni è deviante in quanto in quanto ad una lettura attenta si capisce come l'Autore vi pensasse appunto fin dal 1795 e cioè da quando al Micali chiese delle informazioni sul valore di alcune monete che aveva recuperato. La storia delle monete atriane non fu un lavoro estemporaneo, fatto per divertimento o per ingannare il tempo libero, ma un'opera pensata che gli assorbì tempo, denaro e molti sacrifici e il dominio di una pluralità di discipline e di tecniche per aver ragione di una quantità di quesiti diretti e indiretti.

Oltre alla storia vera e propria, dovette tener conto anche dei risultati raggiunti dalla geografia fisica, dalla politica, dall'economia, dalla linguistica storica, dalla filosofia, passando per la critica delle fonti, le tecniche monetarie e così via. L'argomento non era facile, anzi era assai complesso e i problemi che direttamente o indirettamente sollevava erano infiniti. Bisognava di volta in volta isolarli, identificarli e trattarli uno alla volta per poi compararli con altri e poi come in un mosaico riunirli senza perdere mai l'unità della trattazione.

Da questo punto di vista l'opera, al di là delle conclusioni, vere o presunte che siano, è un capolavoro di storiografia ottocentesca e una dimostrazione concreta delle immense informazioni che si potevano trarre con il metodo della storia comparata. Nonostante le apparenze, quindi, non è una storia locale, studiata per attribuirne ad Atri un primato e ai Romani una patente di arretratezza culturale e politica, ma un modo importante per verificare l'attendibilità della filosofia vichiana. Il trattato, che si configura come la prima opera postnapoletana, dava un senso alla sua collezione, del resto disgraziatamente andata perduta, e in secondo luogo, era un omaggio alla città di Atri dove, insieme ai suoi fratelli, aveva appreso, prima di partire per l'Università di Napoli, i primi rudimenti del sapere (E. Ruggirei, Biografia di Angelantonia Rozzi, in fasc. n. 6 nov. dic. 1848 de' Il Gran Sasso d'Italia, pp. 369-374, ci dice appunto che i fratelli Delfico, Giovan Berardino, Gianfilippo e Melchiorre studiarono nel collegio dei Gesuiti di Atri).

Con il volume sulle monete, inoltre, il Delfico contribuì a sviluppare gli studi storici sulla preistoria regionale, indicando gran parte della topografia delle genti d'Abruzzo, il numero dei centri storici romani e preromani, il tipo di economia prevalente presso i popoli italici e il valore delle testimonianze epigrafiche. Diversamente dalle monete, Melchiorre acquistò libri per tutta la vita almeno per tre buoni motivi: per portare avanti le sue ricerche, per soddisfare il suo amore per i codici antichi e rari e per andare incontro ai desideri dei suoi amici teramani e non. E' a tutti nota la lettera con la quale Giambattista Mezucelli informava Berardo Quartapelle della condizione degli studi a Teramo e della carenza di libri: "Noi continuamente godiamo della compagnia dell'illustre D. Melchiorre, e profittiamo sempre dei suoi lumi. Si aspetta a momenti il baule grande dei suoi libri, poiché l'altro è già giunto. Egli, si legge ancora nella lettera, si compiace darci qualunque libro ci bisogna. Il dovere dunque porta che noi dobbiamo corrispondere coi nostri sforzi alle sue ottime intenzioni"(Teramo, 14 dicembre 1789, in Giacinto Pannella, Lettere inedite di M. Delfico, G.B. Mezucelli e A. Tullj pubblicate nelle auspicatissime nozze della nobile donzella Elisabetta Delfico de' Conti di Longano coll'egregio avv. Luigi Paris, Teramo, p. 9).

Meno nota è l'altra, inviata al Fortis tramite il Pagani, nella quale fa riferimento all'amico Vincenzo Comi e alle sue ricerche. "Esso [il pacco] contiene, scrisse, tre tomi dell'Effemeridi, due di Leske, tre copie della Chimica di Scopoli, cioè due di vostra commissione, ed un'altra che regalerete a nome mio a D. Vincenzo Comi, insieme con i sei tomi di questo Giornale di Fisica, ed un Almanacco per i Medici. Così vedrete che cos'è questa Biblioteca di Fisica, che potrebbe essere qualche cosa di meglio, ma intanto col dare delle cose inedite, e notizie scoverte recentissime ha qualche merito. La spesa della medesima è di £ 12 di Milano all'anno, ed ogni anno sei volumetti. Volta [Alessandro] protegge questo giornale, ma non credo gli altri, perché non sono estinti i germi della discussione" (Pavia, 20 febbraio 1789).

All'amico Pietro Custodi, che gli chiedeva di leggere qualche suo nuovo lavoro, rispose che avrebbe voluto pubblicare qualcosa, ma non era nelle condizioni di "comparire innanzi al pubblico". Per scrivere qualcosa, gli ricordò, bisognava conoscere il pensiero degli altri sullo stesso argomento e questo per il momento gli era possibile anche perché, gli confessò, "devo pur dire che [l'acquisto dei libri] incomodano a volte le mie Serafiche Finanze" (S. Marino, 16 novembre 1805).

Tuttavia pregava gli amici di non dimenticarlo.

Il bibliotecario romano Gaetano Marini, con il quale fu in grande dimestichezza, gli fu di grande aiuto mentre stava elaborando le Memorie storiche della Repubblica di San Marino poi edite a Milano nel 1804.

Nel dicembre del 1802, ringraziandolo per le informazioni che gli aveva fornito su alcuni codici, gli chiedeva come fare per avere le edizioni più corrette di alcuni documenti e libri. "Nell'ultima vostra mi parlate dell'istrumento del Card. Anglico [Grimoardi] di cui non conosco che il pezzo pubblicato dal Borgia nelle Memorie di Benevento, e che sarebbe ben averlo in maggiore integrità. Mi proponete anche le Carte Albornoziane, per le quali vi pregai di volermene far estrarre le copie, come tutt'altro che fosse relativo ai miei desideri. Se fosse tutto ciò pronto, ad un vostro avviso, manderei a prenderlo da persona sicura. Aggiungo poi un altro bisogno: cioè che avendo delle edizioni del XV secolo, ve ne sono varie mancanti di qualche pagina, come il Lattanzio del 1468, il Cesare del 1472, entrambi della Casa de' Massimi, e così altri, e vorrei poterle riparare, o coll'imitazione o con supplirle da altri libri, come meglio si potrà, e vi prego dirmi il vostro parere" (Ascoli, 19 dicembre 1802, cfr. G. Morelli, Aprutium, 1996, pag .21 e sgg.).

In precedenza aveva avuto da lui due copie del "Breve di Giovanni XXII" e del "Capitolo del Cardinale Albornoz" a lui quasi ignoti visto che scrive "il primo non lo conoscevo che monaco, e l'altro [gli] era noto solo dal Marini di S. Leo" (S. Marino, 15 settembre 1802).

Al centro dei suoi interessi, comunque, c'era sempre la ricerca delle edizioni antiche e rare. Al Munter in una lettera spiegò che: "I perigli sul finire del secolo [XVIII] mi fanno distrar dalla mia raccolta di medaglie urbiche; ma come non si può star senza qualche oggetto di passione letteraria, da più anni in qua vi surrogai l'acquisto di libri del XV secolo, di cui ho già una raccolta ragguardevole per numero e per qualità" (Napoli, 12 maggio 1813).

Nel 1808, commentando il Catalogo pubblicato dei libri del Duca di Cassano, appena edito, disse al marini: "Il mio può essere più forte in numero di soldati, ma non di capi" (Napoli, 22 aprile 1808, cfr. G. Morelli, op.cit.).

Nel 1803, rispondendo al Marini, che gli aveva chiesto delle notizie biografiche su Alberto Fortis, gli disse: "Intanto, per non rendere l'amicizia oziosa, profitterò delle vostre cortesi esibizioni, facendovi sapere, che io ha un poco il gusto delle edizioni del XV secolo. Sicché, se ne avete in vista alcuna acquisibile, e che non fosse molto contro l'economia, mi fareste somma grazia a darmene notizia; e così, come volete, incomodarvi, vo do nuova prova de' sentimenti, che mi rendono Vostro Serv. ed amico" (cfr. Pompilio Pozzetti, Commentario della vita e delle opere di P.P. delle Scuole Pie con lettere a lui indirizzate da celebri uomini e con veri elogi d'insigni scolopi in esse ricordati, per Alessandro Checcucci dello stesso ordine, Firenze, nella Tipografia Calasanziana, 1858, pp. 107-110).

Ha ricordato recentemente Giuseppe Morelli, in un puntualissimo studio su alcune Lettere di Melchiorre Delfico nella Biblioteca Apostolica Vaticana ("Aprutium", 1996, pp. 21 e ss.), che il Delfico e il Marini si erano conosciuti a Roma nel 1795 e il carteggio tra i due si interruppe nel 1808 quando quest'ultimo per dovere d'ufficio seguì a Parigi gli Archivi della S. Sede, requisiti da Napoleone in seguito alla diaspora con il Pontefice.

Ma, tornato a Napoli sotto i Francesi alla guida del dicastero delle Finanze, gli chiese "bramerei le Familiari di Cicerone, se sono quelle della prima stampa veneta: dico della prima di quella città, poiché sapete che ve ne furono due nell'anno stesso 1469 e dello stesso stampatore […] Più De Natura Deorum etc. del 1741, Venezia 1477, Virgilio, Roma, 1473" (Napoli, 27 novembre 1806, cfr. G. Morelli op .cit., p. 9).

L'anno successivo, invece, si lamentò con l'amico Francesco Reina che a causa dei numerosi impegni non poteva seguire con assiduità la sua collezione, ma solo in maniera episodica "così per divertimento ad acquistar qualche edizione del vecchio XV, ma qui non trovo neppure a soddisfare questo mio gusto, poiché tutto è stato spazzato e passato in mano forte o all'Estero" (Napoli, 19 febbraio 1807). Il Reina, rispondendogli, lo informò che anche a Milano "le cose rare vanno sparendo", mentre cresceva a "dismisura" il numero dei libri a stampa, comunque gli promise  qualcosa: "Se però – scrisse – tornerete fra le braccia degli amici vostri Lombardi, troverete ancora qualche tesoretto nascosto" (Milano, 6 giugno 1807).

Un grosso ostacolo era costituito dal cambio monetario non solo per gli operatori finanziari, per i commercianti, per gli importatori ed esportatori, ma anche per i semplici acquirenti magari di libri e per "questo motivo, notò il Delfico, si perde quasi metà delle somme". Lo stesso Fortis da Venezia, nel marzo del 1796, in un'analoga situazione politica e militare, così gli fece eco: "La compra fatta con parte del credito in assegnati acquistati rappresenta 200 lire torinesi di credito sul Gran Libro al 5 per 100. Per ora io sarò alla condizione di altri venditori: ma a pace fatta i pagamenti si dovranno fare in numerario o in assegnati al corso. Sarà oggetto di personale esame se convenga meglio tenere una rendita di 10.000 lire o di cambiare il capitale in terreni" (cfr. Stevka Smitran, Dalla corrispondenza di Alberto Fortis a Melchiorre Delfico, in "Atti del Convegno di studi storici- L'Abruzzo e la repubblica di Ragusa tra il XIII e il XVII secolo", Ortona, 1988, p. 130).

Per aggirare l'ostacolo, nel 1810, il Delfico suggerì al Munter lo scambio dei libri con altri collezionisti, "io mi lusingo che fra breve si potranno dare delle combinazioni favorevoli ad attenuare…" poiché per il momento non c'erano altre alternative. "Le combinazioni che accenno, gli disse, le vedo negli invii de' ministri in codesti regni Settentrionali: per mezzo di essi il cambio si potrà ottenere quasi alla pari per i reciproci bisogni" (cfr. A. Di Nardo, Storia e scienza, op. cit., p. 150). Il cambio di oggetti fra amici è stato  e resta sempre un modo per avere qualcosa che diversamente non si ottiene, ma nel Settecento rientrava in una più complessa pratica esoterica e lo si faceva solo tra gli affiliati.

"La consuetudine di scambiarsi favori, informazioni e perfino "pupilli", osserva Francesca Fedi, apparteneva del resto tanto a un codice massonico quanto a quello, non scritto, della società dei collezionisti, la quale aveva poi in comune con la libera muratoria altre due caratteristiche fondamentali: l'internazionalità e il gradualismo" (cfr. F. Fedi, op. cit., p. 63).

La cultura Massonica, infatti, innalzava il collezionismo e la sua pratica alla ricerca della perfezione, nell'esperienza della "raccolta" vissuta, nel dualismo di vita e ricerca, come scrive Goethe nella sua terza lettera sull'educazione (cfr. Goethe, Il collezionista e i suoi, in Scritti sull'arte, trad. di N. De Ruggiero, Napoli, Ricciardi, 1914, pp. 23-89). Un altro sistema era quello di pagare i libri facendo ricorso alla buona volontà degli amici. Un caso del genere, che, purtroppo, non tutto andò a buon fine è stato segnalato da Marcello Sgattoni a proposito dei libri acquistati dal Canova per il Cicognara e che il Delfico avrebbe dovuto pagare attingendo i soldi dalle prebende acquisite [dal Cicognara] con l'aggregazione all'Ordine delle Due Sicilie (cfr. M. Sgattoni, Cinque lettere di Melchiorre Delfico a Leopoldo Cicognara, in "Notizie dalla Delfico, 1995, n. 1, p. 23"). Gli ostacoli non gli impedirono comunque di continuare la ricerca poiché nel 1813 al danese Munter comunicò con soddisfazione di aver una "raccolta raguardevole per numero e qualità" di incunaboli. La lettera del 1813 è importante per diversi motivi: intanto perché indica la data esatta della sua uscita dal Governo "giacchè era uno de' quattro presidenti del Consiglio di Stato" e in secondo luogo, perché ci parla dei suoi rapporti con la Società Reale e dei suoi progetti culturali (Napoli, 11 maggio 1813). "In febbraio – scrisse – lessi Memoria alla Società Reale "Su la sensibilità imitativa, considerata come il principio fisico della socialità della specie e del civilizzamento de' popoli". Fu gradita molto dai nostri Fisiologisti, annotò con soddisfazione, e si stamperà nel prossimo mese nel primo e secondo volume". La ricerca venne pubblicata nel 1819 dopo quella sulla perfettibilità organica (cfr. M. Delfico, Ricerche su la sensibilità imitativa considerata come principio fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle nazioni. Letta nella R. Accademia delle Scienze a dì 17 febbraio 1813. Sta in Atti della Reale Accademia delle Scienze. Sezione della Società Reale Borbonica. Memoria, 1819, vol.I, pp. 343-376). In relazione ai suoi interessi immediati lo informò che stava lavorando "sulla Scienza Etimologica de' Romani" che era poca cosa ma che gli dava possibilità e "luogo a non inutili operazioni su lo stato intellettuale di quel popolo".

Tra le sue carte non mancano infatti appunti, annotazioni e qualche riflessione approfondita con l'inizio di un piccolo vocabolario, in lingua italiana (cfr. D. Striglioni Ne' Tori. L'inventario del Fondo DelficoArchivio di Stato di Teramo – Teramo, 1994). In precedenza aveva ringraziato il Fortis per la scaletta dei libri da studiare per un corso accelerato di economia politica (A. Lettieri, op. cit., Teramo, 19 agosto 1788). Purtroppo, l'intero corpo degli incunaboli, composto di quasi mille titoli, non si trova nella sua città natale, ma a Napoli come suo contributo alla nascente Biblioteca Borbonica Napoletana (A. Marino, Il contributo del Delfico alla formazione della Reale Biblioteca Borbonica di Napoli, in Atti del Convegno di Studi Gli archivi come fonte di Ricerca Storica, Chieti, ed. Tinari, 1995, p. 49 e sgg.). Un gesto apprezzatissimo dai suoi amici ed estimatori tanto che da Parigi (8 agosto 1811), ad esempio, G. Melzi gli scrisse: "Il vostro dono veramente patriottico fatto a codesta Regia Biblioteca è degno di voi, e mi conferma sempre più nell'opinione di stima e di ammirazione che ho sempre avuto per voi. Io mi rallegro con voi di un sì bell'uso che avete fatto della vostra collezione" (cfr. M. Delfico, Opere complete, Teramo, 1904, vol. 4, p. 230). In precedenza da Milano gli aveva detto: "Vi confesso la verità, non avrei avuto io l'egual virtù di privarmi dei miei quattrocentisti che avete fatto voi, ma giacchè faceste questo sforzo, vi lodo che il sacrificio sia stato completo, mentre invece di contrattare la vostra preziosa raccolta, l'avete donata. Voglio essere sincero – aggiunse – io ho posto invidia alla R. Biblioteca di Napoli principalmente, perché possederà il bello esemplare del Petrarca 1471 di Roma. Molte altre edizioni io stimo della vostra collezione – concluse – ma questo cimelio sopra tutte" (M. Delfico, op. cit, p. 226).

A Teramo, invece, lasciò la sua libreria, smembrata in più occasioni per vendite o donazioni, ed ora fortunatamente ricomposta. Un primo smembramento implicitamente si ebbe, come abbiamo riferito, con la fornitura dei libri scientifici fatta in favore degli amici che ne erano privi e, purtroppo, con quelli disgraziatamente perduti nel 1799 a Teramo e a Montesilvano in occasione dei fatti legati alle vicende della Repubblica Napoletana.

Un secondo si verificò nel 1824 allorché il Delfico stesso, tornato definitivamente a casa sua, dopo l'esperienza parlamentare napoletana (1821), donò i volumi prettamente ecclesiastici e religiosi ai Cappuccini che avevano aperto nel loro convento teramano una fiorente cattedra regionale di Teologia in alternativa a quella funzionante presso il Convento dei Frati Minori della Madonna delle Grazie (cfr. Filippo da Tussio, I frati cappuccini della monastica provincia degli Abruzzi. Memorie cronologiche-biografiche, S. Agnello di Sorrento, 1880).

Un terzo si ebbe due anni dopo, nel 1826, in favore del Real Collegio, istituito nel 1813 da Gioacchino Murat per venire incontro ad un'antica aspirazione teramana. Non era la Piccola Università, richiesta dal Delfico, concessa dai Borboni e osteggiata dal Vescovo Pirelli (Vincenzo Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano (1777-1798). L'attività di Melchiorre Delfico presso il Consiglio delle Finanze, Roma, 1981, pp. 288 e sgg.), ma certamente qualcosa di importante in quanto per alcuni periodi il Real Collegio rilasciò, almeno sino al 1857, titoli di studio simili alle lauree.

L'ultimo smembramento si ebbe alla sua morte, quando i volumi superstiti e rimasti in casa confluirono nella costituenda Biblioteca provinciale (cfr. Adelmo Marino, Illuminismo e preromanticismo nella biblioteca di M. Delfico, in Scritti inediti di Melchiorre Delfico, Chieti, Solfanelli ed., 1986, pp. 143 e sgg.). La donazione dei libri al Real Collegio, al di là degli aspetti burocratici e testamentari che impegnarono non poco il Delfico e gli amministratori locali, è senza dubbio inferiore per numero e valore economico a quella napoletana degli incunaboli, ma è sicuramente superiore per concezione e organicità, anche se ciò non appare dall'elenco, redatto in ordine alfabetico dal notaio Gaetano Grue.

I libri sono in linea con la cultura scientifica del periodo, gli autori sono quasi tutti del Settecento e dei primi anni dell'Ottocento con esclusione quasi totale delle opere del secolo precedente. Compaiono i libri posteriori a quelli presenti negli scaffali delle biblioteche abruzzesi, ad esempio, del marchese de' Sterlich o di Federico Valignani (cfr. Giuseppe F. de Tiberis, Federico Valignani in L'Abruzzo nel Settecento, Chieti, 2000, pp. 473-498; Annamaria De Cecco, Federico Valignani. Fonti archivistiche, in L'Abruzzo nel Settecento, Chieti, 2000, pp. 490 e sgg.), mentre non mancano quelli degli autori regionali come Sallustio, Ovidio, Antinori ecc. Sono presenti anche quattro libri del Delfico, forse quelli che lui stesso riteneva più significativi. Essi sono: i Pensieri sulla Storia (1814), le Memorie Storiche della Repubblica di San Marino (1804), la dissertazione Sul vero carattere della giurisprudenza romana e dei suoi cultori (1815) e l'Elogio di Francescantonio Grimaldi (1784).

Tutti si situano all'interno di una intensa dinamica pedagogica articolata e nell'ambito di una cultura europea. Ci sono, infatti, libri in italiano, in latino, in madre lingua o in traduzioni pregevoli, senza alcuna restrizione ideologica e religiosa e comunque provenienti dalle più accreditate case editrici europee. Scorrendo l'elenco si ha la sensazione che il Delfico seguì un suo progetto universitario in riferimento ai cambiamenti sopravvenuti in Europa e in vista delle nuove sfide. Non va sottaciuto che egli era informato dei problemi scolastici, avendo partecipato a più riprese ai lavori del Consiglio di Stato (1809-1810) per la stesura dei progetti di riforma dell'istruzione pubblica napoletana (cfr. G. Lisciani, Melchiorre Delfico. Scritti pedagogici. Con alcuni inediti. Prefazione di Mauro Laeng,1969).

Le Osservazioni a un progetto di riforma, che prevedeva una diversa articolazione sia delle materie sia dei programmi in ordine ai titoli e alle professioni, l'abbiamo trovato tra le sue carte (cfr. Biblioteca Provinciale "M. Delfico" Teramo, Fondo Delfico, Miscellanea n. 2, nn. 851-852). L'articolato prevedeva dei nuovi percorsi formativi teorici e pratici che gli studenti avrebbero dovuto seguire negli anni insieme a una serie di impegni e di controlli che lo Stato doveva garantire. Per il momento Melchiorre Delfico si limitò a fornire al Real Collegio quei sostegni bibliografici utili alle sole cattedre attivate e previste nell'art. 2 del Regio Decreto n. 1767 del 16.5.1813 che erano: Grammatica inferiore e media (denominata anche "Latinità inferiore e media"), Retorica ed Eloquenza, Filosofia e Matematica elementare, Grammatica superiore, denominata anche "Latinità sublime". Nel 1820 l'organico al completo era così composto: Timoteo Wagnon (Grammatica e Lingua italiana), Fulgenzio Lattanzi (Retorica e Poesia), Agostino Giosia (Latinità inferiore e media), Gennaro Seguino (Latinità superiore o sublime), Luigi Paris (Matematica sublime e Fisica) e Berardo Taraschi (Filosofia e Matematica elementare) (cfr. Giovanni Di Giannatale, Il personale docente del Real Collegio di Teramo nei suoi primi anni di vita (1814-1819), in "Notizie dalla Delfico", Teramo, 1993, n. 1, p. 4 e sgg.).

La libreria, comunque, non rientrava nel quadro di un superficiale filantropismo culturale bensì nell'ambito di una consolidata visione massonica e, quindi, sulla stessa linea culturale sia del ricordato Cicognara sia di Cesare Beccaria, i libri proposti erano importanti non per il loro pregio formale (ricchezza e preziosità della veste tipografica) ma per il valore del loro contenuto. Il Delfico, infatti, non era un avido bibliomane, che con la sete di investimento sottraeva il libro alla libera circolazione e quindi alla sua intrinseca finalità, che è quella di essere letto, ma un bibliofilo scrupoloso al servizio degli studiosi (cfr. L. Cicognara, Vita di San Lazzaro monaco e pittore, preceduta da alcune osservazioni sulla bibliomania, Brescia, 1807; C. Beccaria, Il Bibliomane, in Scritti filosofici e letterari, a cura di L. Firpo, G. Francioni e G. Gaspari, Milano, 1984, vol. II). Personalmente, non gradiva la scomparsa dei libri innanzitutto perché ciò avrebbe interrotto il naturale "gradualismo" della scienza e in secondo luogo perché avrebbe ritardato di molto lo sviluppo della "perfettibilità" della specie umana e quindi – come scriveva Schiller nelle Lettere sull'educazione estetica dell'Uomo, un autore che lui conosceva benissimo – impediva la conquista di una "propria umanità integrale" (cfr. F. Schiller, Saggi estetici, a cura di C. Baseggio, Torino, UTET, 1968, pp. 203-323).

In conclusione, Melchiorre Delfico operò con la donazione certamente in funzione e negli interessi di un ceto amministrativo illuminato, ma non dimenticò le sue aspirazioni laiche, le sue battaglie riformiste e la sua passione civica. Il collezionismo di libri o di monete non fu la manifestazione di un gioco vacuo di società o un modo intelligente di investimento finanziario, bensì l'espressione di una cultura storica in continua evoluzione e sempre nella prospettiva di una profonda trasformazione della società.

Serie monetale atriana

Serie monetale atriana. Da Melchiorre Delfico, Della antica numismatica della città di Atri nel Piceno

con un discorso preliminare su le origini italiche. Teramo 1824. Dai Tipi di Ubaldo Angeletti. Con permesso.

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Serie monetale atriana. Da Melchiorre Delfico, Della antica numismatica della città di Atri nel Piceno

con un discorso preliminare su le origini italiche. Teramo 1824. Dai Tipi di Ubaldo Angeletti. Con permesso.

Serie monetale atriana

Serie monetale atriana. Da "Atri. La regina delle colline", a cura dell'Associazione

 culturale "Iuvenis Hadria", Atri e Pineto (Te),   Tipolitografia Punto Stampa, 2006