Con la conclusione del restauro, rientrano nel Palazzo Delfico, da cui
erano usciti per generosa donazione del suo antico proprietario, i molti
libri che tra l'Otto e il Novecento hanno dato vita all'attuale
Biblioteca provinciale di Teramo. Una biblioteca che, con il suo ingente
patrimonio documentario e bibliografico, costituisce una delle risorse
più importanti e uno dei punti di riferimento culturale più consistenti
della società italiana meridionale.
L'avvenimento ci consente di lumeggiare un'attività significativa e per
certi aspetti affascinante della poliedrica personalità di Melchiorre
Delfico, non ancora studiata come si dovrebbe e come si sarebbe dovuto
nonostante i periodici e, a volte, perentori suggerimenti da parte degli
studiosi italiani e stranieri.
Melchiorre Delfico, oltre ad essere stato uno statista, uno storico, un
filosofo ed un riformatore illuminato, fu collezionista di libri antichi
e di monete romane e preromane assai apprezzato nel suo tempo.
"Malgrado la ricchezza degli studi su Delfico, sul suo pensiero e
sulla sua attività riformatrice, non molto si conosce – ha notato
recentemente e giustamente Anna Maria Rao nel volume collettaneo in
onore di Mario Agrimi – del Delfico collezionista e ancor meno della
sua opera di mediazione nel mercato antiquario"(cfr.a. M.Rao, Fra
il pubblico bene e le lettere. La corrispondenza di Melchiorre Delfico
con François Cacault e Pierre-Michel Hennin, in Filosofia
Storiografia Letterature. Studi in onore di Mario Agrimi, Lanciano,
ed. Itinerari, 2001, pp. 13 e sgg.).
Si appassionò al collezionismo agli inizi degli anni Ottanta del
Settecento – è lui stesso a rivelarlo – frequentando gli ambienti
raffinati della Corte napoletana e divenendone un esperto nel corso
degli anni grazie ai suoi rapporti con gli uomini più rappresentativi
della Curia romana e con gli intellettuali più apprezzati delle
università italiane e straniere. Il secolo XVIII, come è noto, è il
secolo di un collezionismo veri e intenso che per certi versi all'inizio
appare lo sbocco naturale del mecenatismo tipico di una ristretta
cerchia di potenti, cioè di sovrani e pontefici.
Con il tempo, al collezionismo esclusivo dei principi si aggiunse quello
degli aristocratici e pertanto, per la diversità e la qualità dei
ritrovamenti, divenne un fenomeno europeo complesso e di grandi
dimensioni.
Spesso i rappresentanti più ricchi e colti della piccola nobiltà e della
nascente borghesia approfittavano dei Grand Tour per fare incetta
di reperti storici, artistici ed archeologici più o meno certi. Le
persone si scambiavano di tutto e acquistavano tutto: quadri, tappeti,
mobili, ceramiche, reliquie, conchiglie; passavano dalle cose più
costose a quelle più modeste ed economiche.
Fu un fenomeno sociale e culturale di grande rilevanza e più diffuso di
quanto non si creda perché prodotto dai più svariati bisogni di
carattere estetico, sociale, scientifico e psicologico. Ma a parte le
finalità ludiche, tese ad occupare piacevolmente il tempo libero o ad
investire con oculatezza le piccole o grandi risorse economiche, le
collezioni non furono altro che le manifestazioni visibili di un
interesse scientifico vero o latente.
Talvolta il fenomeno è stato visto come un aspetto della decadenza
scientifica (semplice passatempo), altre volte come una crisi di valori
sociali in ordine al mutare delle sensibilità culturali ed economiche,
altre volte ancora come una smania irresistibile di novità rispetto alle
abitudini tradizionali e, infine, come il prevalere dell'apparire
sull'essere.
Non è stato così per gli intellettuali seri del Settecento, in quanto
dalle loro collezioni sono poi sorti i musei, le biblioteche, le varie
scuole di arti e mestieri, le pinacoteche ecc.
Molte volte erano i negozianti di tessuti, quelli di cuoio e gli
ecclesiastici, i quali ultimi – scrive Maurice Rheims – in quanto
bibliofili, avevano modo di arrotondare le loro magre entrate fungendo
da mediatori (cfr. M.Rheims, L'affascinante storia del collezionismo,
trad. it., Torino, 1964, p. 22; Francesca Fedi, L'ideologia del
bello. Leopoldo Cicognara e il classicismo fra Settecento e Ottocento,
Milano, 1980).
Oltre ai re, ai nobili e all'aristocrazia in genere, diventarono
collezionisti i banchieri, i giudici, i proprietari terrieri e i
signorotti di provincia così, ad esempio, a Teramo Giamberardino Delfico,
fratello di Melchiorre, il quale fu un accanito e fortunato raccoglitore
di epigrafi latine e di statue romane.
Giamberardino addirittura trasformò la casa e i suoi giardini in un
attraente museo archeologico all'aperto a disposizione degli amici. A
lui possiamo aggiungere Gianfrancesco Nardi di Tottea (ricorda
Coppa-Zuccari), Francesco Antonio Grue di Castelli e, naturalmente l'atriano
Gabriello Cherubini amico del Delfico e in qualche modo suo
collaboratore. (Novità numismatica, Atri, 1847). Dalla collezione
di Giamberardino, faticosamente raccolta nelle campagne e nella città, e
un tempo gelosamente conservata nel suo palazzo, è nato l'attuale Museo
civico (G. Delfico, Dell'Interamnia Pretuzia, Napoli, Stamperia
Reale, 1812).
Nella metà del Settecento, inoltre, si sviluppò un particolare tipo di
collezionismo che, appunto in riferimento ai protagonisti, si disse
"diplomatico". In effetti i funzionari politici si rivelarono assai
preziosi per loro e per i loro sovrani in quanto – come scrive Francesca
Fedi – "pur senza disporre di fortune principesche, riuscivano spesso
ad accaparrarsi le opere più preziose e più gelosamente custodite,
muovendosi appunto attraverso i canali diplomatici e i servizi consolari"
(cfr. F. Fedi, L'ideologia del bello, Milano, Franco Angeli,
1990, p. 60).
Nella figura dell'uomo politico colto, infatti, spesso si riunivano una
molteplicità di competenze e di aderenze, sia sul piano sociale sia su
quello economico, che costituivano altrettante garanzie. A differenza
del collezionista aristocratico, che per scelta si affidava ai gusti e
al parere degli esperti e dei viaggiatori, non sempre scrupolosi o
preparati, i collezionisti istituzionali e quelli più avveduti si
affidavano ai diplomatici delle ambasciate che avevano una buona cultura
di base e che dimostravano delle particolari sensibilità. Questi si
rivelavano ancor più preziosi poiché riunivano nelle loro persone i
ruoli di collezionista, di esperto, di estimatore e, quindi, di
mercante-mediatore con un enorme risparmio sui tempi e sui costi.
E' in questa veste che nel 1787 incontriamo Melchiorre Delfico e a
rilevarlo è stata Anna Maria Rao, pubblicando, nel ricordato contributo
in onore di Mario Agrimi, la sua corrispondenza, del tutto sconosciuta,
con François Cacault e Pierre-Michel Hennin.
La lettera del 26 gennaio 1787 al Cacault è senza dubbio significativa
per il destinatario finale, Pierre-Michel Hennin, ma lo è ancora di più
sul piano culturale poiché si caratterizza come un piccolo saggio sul
commercio, sulle strategie e sulle caratteristiche di un collezionismo
così costoso ed elitario come quello numismatico.
Intanto – scrive il Delfico – non bisogna avere "fretta"
nell'acquisto delle monete o delle medaglie perché "già non sempre se
ne trovano vendibili, e qualche volta vengono delle opportunissime
occasioni". In secondo luogo avverte che nella compra-vendita non
bisogna mai perdere di vista il mercato, che è quello che stabilisce il
prezzo e definisce la qualità. In nessuna cosa ci sono delle costanti e
meno che mai nell'antiquariato. Ci sono infatti delle medaglie d'argento
che si possono "comperare pel doppio del peso, e quelle di rame o
bronzo per una mezza lira di Francia per ciascuna, ed anche una lira
intera se sono di buona conservazione" fino ad un Luigi di Francia.
In terzo luogo, ricorda all'illustre francese, è bene togliersi dalla
testa l'idea di trovare con facilità le monete d'oro. "Di monete
d'oro non parlo, scrive, perché sono divenute tanto rare quelle
della Magna Grecia, che in più anni che io raccolgo, non me n'è capitata
alcuna".
Analogo discorso esprime per l'inedito e il raro. In tutta la sua
collezione, confessa, "non ne posseggo che una sola e riguarda la
città di Mesma o Medama come la chiamano comunemente i geografi".
In una successiva lettera del 21 agosto 1787 aggiunge altri
avvertimenti, come quello di stare lontano dagli esercenti pubblici come
i "brocanteur" che "mettono sempre prezzi impertinenti" e dai
collezionisti occasionali come i "viaggiatori fanatici", che per
mostrare una "intelligenza" che non hanno, sono disposti a pagare prezzi
esorbitanti pur di "riportare in Patria qualche frutto esotico, segno
del viaggio" piuttosto che "per gusto o per amore delle medaglie".
In un mercato così fluido e accidentato anche a causa dei falsi e delle
contraffazioni è più facile, consigliava il Delfico all'Hennin,
rivolgersi ai collezionisti privati in fase di "realizzazioni" immediate
che a quelli di professione.
"Vi è una Collezione vendibile di urbiche, di Consolari, e
d'Imperiali, suggerì, ma il possessore non vuole disfarsene nella
sola parte delle medaglie di Città, volendo vendere tutta la collezione
intera: Le urbiche in argento ed in bronzo passano le trecento, e ve ne
sono delle rare ed anche delle rarissime, e se tutto si potesse avere
per cento once o sia per cinquanta Luiggi [sic!]di Francia, sarebbe
sicuramente buon negozio".
L'intermediazione andò a buon fine e il Delfico, felicitandosi per
l'acquisto, gli scrive: "Mi ho presa poi la libertà di aggiungervene
due, che aveva duplicate nella mia collezione, cioè una di Siri in
bronzo, e l'altra di Nuceria Alfaterna nello stesso metallo, ed in
caratteri osci e che io amo meglio chiamar sannitici" (Napoli, 21
agosto 1787).
Tre anni più tardi, nel 1790, suggerì all'Hennin l'acquisto di nuove
medaglie appena scoperte e di gran pregio.
"Fortunatamente posso avvisarvi – gli fece sapere – di avere a
vostra disposizione cento medaglie della Magna Grecia e Sicilia, tutte
di buona conservazione, ed il prezzo delle quali importa sessanta ducati
della nostra moneta, che conto si possano ragguagliare a lire
centoquaranta, e mi lusingo che possiate esserne contento. Credeva
potervi anche mandare una medaglia dei Popoli Frentani, ch'è di
grandissima rarità, ma il possessore non avendo voluto liberarsene
neppure per dieci ducati,mi è convenuto lasciarla: Essa è di rame di
seconda grandezza, e nel dritto ha la testa di Mercurio, al rovescio un
Pedaso con un tripode sotto, e dall'una e dall'altra parte la leggenda"
(Napoli, 17 luglio 1790).
Nell'ambiente il Delfico era considerato un'autorità e un intermediario
d'eccezione nel senso che non si limitava a offrire monete o medaglie,
ma le illustrava anche nei dettagli facendo spesso ricorso a precise
indagini storico-filologiche.
Il suo non era un collezionismo di tipo venale o, peggio, fine a se
stesso, ma si articolava nell'ambito di una intensa partecipazione
civile e perfino patriottica, elaborando un concetto, quello di "bene
culturale" che per l'epoca era rivoluzionario.
Pur nell'ambito delle sue occupazioni presso la corte o nell'ambito del
Consiglio delle Finanze, il Delfico non lesinava consigli ed aiuti agli
amici come a semplici conoscenti.
E così, ad esempio, tra il 1790 e il 1792 inviò all'amico Gazola di
Verona, interessato ad ampliare la sua raccolta, alcuni esemplari di
conchiglie e di pietre di lava vesuviana e qualche anno più tardi offrì
all'archeologo Giuseppe Micali l'acquisto di alcune monete abruzzesi.
Le lettere datate rispettivamente 20 febbraio 1792 e 9 aprile 1792,
purtroppo, non ci dicono nulla di quali monete si tratti: se i duplicati
di quelle personali, proposte al francese Hennin, o quelle che andarono
perdute.
A lui, invece, alcuni anni prima, il romano Pietro Borghesi propose
l'acquisto di monete e di medaglie italiane oramai introvabili.
Con Friedrich Munter (1761-1830), tedesco di Ghota, ma danese di
educazione, che soggiornò in Italia e soprattutto a Napoli per un lungo
periodo di tempo, il Delfico condivise a lungo la passione per la
numismatica (cfr. B. Croce, Federico Munter e la massoneria di Napoli
nel 1785-86, in Aneddoti di varia
letteratura, Bari, Laterza, 1954; Armando Di Nardo, Storia e
scienza in Melchiorre Delfico, Chieti, 1978, p. 125).
In una lettera del 1786, dopo essersi lamentato con lui per la lunga
assenza da Napoli, senza per altro mandargli alcun "pezzo" per la sua
collezione, il Delfico gli fece sapere che lui invece pur "in tanta
scarsezza di medaglie […] un piccolo acquisto […] un buon negozio col
comperarne centosei da un particolare per la somma di ducati 36, delle
quali 35 sono di argento e le restanti di bronzo. E mi spinsi
specialmente a questo contratto per avervi trovato una Bitontina ben
conservata, che a me costò ducati 7, una Barina e una Iuria inedita, e
la piccola Breggia colla […] ed insegne di Ercole che è rarissima. Il
Talani, lo informò, non da più le urbiche d'argento, che al
prezzo di 8 o 10 carlini l'una le comuni, ed a molto maggiore quelle che
sono un poco rare. D. Fortunato credo che acquisti per Valdek, perché
non mi porta più nulla, con tuttoché l'abbia sempre pagato
generosamente. La collezione, aggiunse, è cresciuta poco in
numero, ma in qualità assai, e con dispendio non indifferente; giacchè a
qualunque costo ho voluto aver da Carlo Cornè la Campana e la Posidonia
in argento; e dal Nevico Elia la medaglia di Reggio in argento, una di
Larino inedita, una di Atri, ed un'altra di Messina differente da quella
che aveva e più elegante, oltre di molte altre di minore importanza e
del Regno e di fuori, che insieme montano a più di 80 ducati.
Ultimamente, proseguì, ho fatto una corsa in Puglia fino a
Molfetta, non solo ad oggetto di vedere e osservare la celebre miniera,
ma per la Numismatica ancora: quanto però sono stato contento del primo
oggetto, altrettanto i miei desideri sono rimasti poco soddisfatti pel
secondo, perché non ho trovato nulla a comperare, e solo dalla
generosità di un amico ho avuto una monetina di Ugento OIAN un tipo che
mi mancava, e più intiera e conservata di quella pubblicata dal
Pellerin" (cfr. A. Di Nardo, 1978, p. 141-42).
Purtroppo erano finiti i tempi d'oro quando, come ricordava lo stesso
Munter in una lettera da Copenaghen, era facile trovarle: "Pensi,
scriveva, al nostro viaggio di Pesto, e alla divisione e ripartizione
delle medaglie comprate in istrada, che facevamo nella locanda di
Salerno". (Copenaghen, 8 agosto 1810, G. De Filippis-Delfico,
Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, libri due, Teramo,
1836, p. 97).
Il Delfico si teneva costantemente aggiornato, seguendo il Catalogo
Numismatico del Thott, che arrivava puntualmente a Napoli,
attraverso il quale nel 1790, acquistò alcune sia "pure piccole cose
e di poco momento" ma assai interessanti sul piano culturale.
Forse risale a questo periodo l'idea di scrivere qualcosa sulla
numismatica italiana perché in una lettera del 1790 confessò al Munter:
"Se riguardo però la collezione, vedo che ho un buon numero di
medaglie inedite e degne di veder la luce, e forse gli preannunciò
un giorno comparirò con la divisa di Autore in questa parte della
Filologia, 200 sono le città che posseggo finora, ma delle città della
Grecia propriamente detta sono molto scarso", mentre possedeva due
preziose monete Captane o Campane in argento colla legenda KAMPANO "con
piccole differenze di segni monetali e colla leggenda – spiegava –
in una da destra a sinistra, e l'altra al contrario, e questa con non
piccolo disturbo l'ebbi dal sig. Borghesi di Sevignano che era forse la
più copiosa raccolta fra i privati d'Italia, specialmente per le
medaglie delle Romane famiglie. In Venezia – concluse – ebbi
anche qualche cosa per via di permute ma non arrivai a comperare nulla"
(cfr. A. Di Nardo, 1978, p. 144).
Purtroppo non sapremo mai quante monete il Delfico raccolse nella sua
vita, a quale epoca risalissero e di quali città fossero. Tra le sue
carte si conserva una lista intitolata: "Note di medaglie romane che
si vogliono comprare, colla nota de' prezzi in moneta Napoletana, sin
dove deve estendersi il commissionato, a cui si raccomanda più di tutto
la buona conservazione, e l'indubitata antichità, lasciandosi anche
quelle, sopra le quali cada un menomassimo dubbio di falsità" di cui
però non sappiamo se, quando e quante ne acquistò.
Quelle possedute e personalmente acquistate e gelosamente custodite,
purtroppo, andarono perdute a Pescara durante la sua fuga precipitosa,
sotto il falso nome di Carlo Cauti, alla volta della Repubblica di S.
Marino per sottrarsi alla restaurazione borbonica postrepubblicana.
"Fra gli effetti che più rincrebbe al nostro profugo, in quella
disgraziata emergenza, sono da annoverarsi, ricorda il suo primo
biografo, le medaglie antichissime dette Urbiche, da lui raccolte non
senza molta cura e dispendio, coll'intendimento di provare per tal
testimonio quanto l'itala civilizzazione avesse preceduto l'epoca de'
Romani, i quali ci riguardò sempre con un determinato disdegno. E queste
medaglie perdute in Pescara – specifica – erano residuo pur ricco
ed importante d'un maggior numero di esse, ch'egli aveva dimezzato per
vendita fattane nel 1796 ad un Inglese in Livorno, e, prima, nel 1787,
anche a Napoli" (G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere
di Melchiorre Delfico, libri due, Teramo, 1836, pp. 52-53).
Con molta probabilità da allora smise di coltivare personalmente un
passatempo così difficile e dispendioso, anche se continuò a fare da
tramite con i suoi amici collezionisti, talora approfittando, specie
durante il periodo francese, della sua posizione in seno al governo.
Nel 1807, ad una precisa richiesta, rispose al Munter: "Non ho di
nuovo che una bella Siracusana in oro, ed una Possidonia, con alcune
altre persiane di buona conservazione, e piccole altre cose di
pochissimo momento. Se tu vai a Parigi, potrai avere delle molte cose
Greche, perché non vi è Console che non sia raccoglitore" (cfr. A.
Di Nardo, 1978, p. 148).
Gli appunti, che comunque prese mentre le acquistava, le selezionava e
le confrontava, fortunatamente confluirono nel volume sulle monete
atriane. Di quest'opera ne esistono tre edizioni: due curate
personalmente dall'Autore (a due anni di distanza l'una dall'altra),
mentre la terza, da Giacinto Pannella all'inizio del Novecento per conto
dell'editore Giovanni Fabbri.
La prima porta il seguente titolo: Antica Numismatica della città di
Atri / nel Piceno con un Discorso preliminare su le origini italiche /
Con permesso; la seconda ha per titolo: Della Antica Numismatica
/ della / Città di Atri / Nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini
italiche / Napoli / dalla tipografia di Angelo Trani / 1826.
I frontespizi divergono sia dal punto di vista della grafica che dal
punto di vista del formato. Quella più grande è del '26, quella più
contenuta del 1824.
Nell'edizione del 1826 c'è addirittura l'aggiunta del marchietto
dell'editore A(ngelo) T(rani), mentre quella del '24 si apre con una
lettera, senza data, ma firmata dal Delfico e dedicata – Alla Reale
Accademia Ercolanense di Archeologia ed a S. E. Reverendissima Monsignor
Rosini Presidente della medesima e della Reale Società Borbonica di
Napoli – e comprende la richiesta autorizzazione per la stampa, avanzata
dall'editore Ubaldo Angeletti al Marchese Tomacelli (11 maggio 1824),
concessa il 17 maggio 1824 su giudizio favorevole del canonico don
Giulio Quartaroli – Rettore del R. Collegio di Teramo.
L'edizione napoletana del '26, invece, si apre con la lettera – A Sua
Eccellenza Reverendissima Monsignor Colangelo Presidente della Giunta
per la Pubblica Istruzione – e si conclude con l'autorizzazione,
richiesta il 17 luglio 1826 e ottenuta il 18 luglio 1826 con tutte le
formule di rito.
Il volume si apre con una lettera de L'Editore a' Lettori,
prosegue con l'Introduzione e con alcune novità sui Rischiaramenti ad
alcune osservazioni fatte sull'opera della numismatica atriana. A S. E.
Il Signor Conte Giuseppe Zurlo (pp. 55-82), tutte di mano del
Delfico, ed è sempre dedicato allo Zurlo, e contiene, inoltre, il breve
trattato Delle antiche ghiande missili di piombo – Lettera a S. E. il
Signor Conte D. Giuseppe Zurlo – con la raffigurazione di undici
missili di cui sei con la scritta e cinque senza. Termina con la
riproduzione di tre recensioni: la prima apparsa su l'Antologia di
Firenze, firmata da Giuseppe Micali (aprile 1825), la seconda sulla
Biblioteca Italiana di Milano e la terza sulla Rivista
Enciclopedica Francese (gennaio 1826).
Nelle intenzioni dell'Autore, quindi, la nuova edizione voleva essere
qualcosa di più che una semplice ristampa. L'edizione del Pannella è
modellata su questa del 1826 e contiene, oltre alle note del curatore,
alcune aggiunte iconografiche. Con il libro il Delfico intendeva
mostrare soprattutto l'enorme valore scientifico delle monete per la
conoscenza della storia dell'umanità nell'epoche antiche.
Tra la prima e la seconda edizione si diede molto da fare nel chiedere
aiuti, consigli, lumi, incoraggiamenti e notizie a tutti, agli amici e
agli specialisti come l'aquilano Giacinto Dragonetti, all'atriano
Francesco Sorricchio e ad altri. Leggendo velocemente le prefazioni e le
lettere sembra che il Delfico non attribuisse grande importanza alla sua
fatica. Al Dragonetti la presentò come "un'opera senile", al
Presidente della Reale Accademia Ercolanense uno "studio tranquillo",
adatto alla sua età (quasi che in fatto culturale si potesse fare una
graduatoria ideale fra i lavori senili, giovanili e di mezza età)
mentre, all'amico Giuseppe Zurlo come "un'opera quasi del tutto
concettuale", ma non era così.
Nelle due introduzioni chiese venia a tutti per le eventuali negligenze
e imperfezioni dovute all'età "che chiamasi decrepitezza" ma anche alla
pochezza dei libri a disposizione, spiegando come per questi motivi si
era dovuto mantenere "sobrio in citazioni ed in ragionamenti
congetturali, che sogliono far gran giuoco nel trattar tali argomenti".
Tutte queste espressioni hanno più il senso di una captatio
benevolentiae che non un valore limitativo. In questo "tranello"
cadde anche il redattore de' La Ricreazione scrivendo che il
trattato "Fu uno sfogo dell'età cadente l'andar ravvicinando le antiche
e moderne opinioni intorno a tale argomento. E trovandole involte nelle
favole, piuttosto create dagli autori che dalla natural fantasia,
figliole dell'ignoranza, volle occuparsi a rintracciare qualche indizio
del vero. Questa opera fu bene accolta in Italia e in Francia che, i
giornali ne fecero i più distinti elogi. Ma l'Autore avendo trovato in
quello di Firenze alcune osservazioni che stimò degne di essere
rischiarate, non si dispensò dall'eseguirle e furono pubblicate nella
seconda edizione che ne fece a Napoli, cui aggiunse una Memoria
epistolare sulle ghiande missili degli antichi. Di esperti studi
però si era molto occupato il Delfico nel corso della sua vita, si aveva
formato una sceltissima raccolta delle monete urbiche specialmente
dell'Italia, che nelle vicende della fine del secolo scorso fu costretto
ad abbandonare". (cfr. La Ricreazione, 7 agosto 1834, a. I, n. 23).
Il riferimento alla vecchiaia e alla pochezza delle informazioni è
deviante in quanto in quanto ad una lettura attenta si capisce come
l'Autore vi pensasse appunto fin dal 1795 e cioè da quando al Micali
chiese delle informazioni sul valore di alcune monete che aveva
recuperato. La storia delle monete atriane non fu un lavoro
estemporaneo, fatto per divertimento o per ingannare il tempo libero, ma
un'opera pensata che gli assorbì tempo, denaro e molti sacrifici e il
dominio di una pluralità di discipline e di tecniche per aver ragione di
una quantità di quesiti diretti e indiretti.
Oltre alla storia vera e propria, dovette tener conto anche dei
risultati raggiunti dalla geografia fisica, dalla politica,
dall'economia, dalla linguistica storica, dalla filosofia, passando per
la critica delle fonti, le tecniche monetarie e così via. L'argomento
non era facile, anzi era assai complesso e i problemi che direttamente o
indirettamente sollevava erano infiniti. Bisognava di volta in volta
isolarli, identificarli e trattarli uno alla volta per poi compararli
con altri e poi come in un mosaico riunirli senza perdere mai l'unità
della trattazione.
Da questo punto di vista l'opera, al di là delle conclusioni, vere o
presunte che siano, è un capolavoro di storiografia ottocentesca e una
dimostrazione concreta delle immense informazioni che si potevano trarre
con il metodo della storia comparata. Nonostante le apparenze, quindi,
non è una storia locale, studiata per attribuirne ad Atri un primato e
ai Romani una patente di arretratezza culturale e politica, ma un modo
importante per verificare l'attendibilità della filosofia vichiana. Il
trattato, che si configura come la prima opera postnapoletana, dava un
senso alla sua collezione, del resto disgraziatamente andata perduta, e
in secondo luogo, era un omaggio alla città di Atri dove, insieme ai
suoi fratelli, aveva appreso, prima di partire per l'Università di
Napoli, i primi rudimenti del sapere (E. Ruggirei, Biografia di
Angelantonia Rozzi, in fasc. n. 6 nov. dic. 1848 de' Il Gran
Sasso d'Italia, pp. 369-374, ci dice appunto che i fratelli Delfico,
Giovan Berardino, Gianfilippo e Melchiorre studiarono nel collegio dei
Gesuiti di Atri).
Con il volume sulle monete, inoltre, il Delfico contribuì a sviluppare
gli studi storici sulla preistoria regionale, indicando gran parte della
topografia delle genti d'Abruzzo, il numero dei centri storici romani e
preromani, il tipo di economia prevalente presso i popoli italici e il
valore delle testimonianze epigrafiche. Diversamente dalle monete,
Melchiorre acquistò libri per tutta la vita almeno per tre buoni motivi:
per portare avanti le sue ricerche, per soddisfare il suo amore per i
codici antichi e rari e per andare incontro ai desideri dei suoi amici
teramani e non. E' a tutti nota la lettera con la quale Giambattista
Mezucelli informava Berardo Quartapelle della condizione degli studi a
Teramo e della carenza di libri: "Noi continuamente godiamo della
compagnia dell'illustre D. Melchiorre, e profittiamo sempre dei suoi
lumi. Si aspetta a momenti il baule grande dei suoi libri, poiché
l'altro è già giunto. Egli, si legge ancora nella lettera, si
compiace darci qualunque libro ci bisogna. Il dovere dunque porta che
noi dobbiamo corrispondere coi nostri sforzi alle sue ottime intenzioni"(Teramo,
14 dicembre 1789, in Giacinto Pannella, Lettere inedite di M.
Delfico, G.B. Mezucelli e A. Tullj pubblicate nelle auspicatissime nozze
della nobile donzella Elisabetta Delfico de' Conti di Longano
coll'egregio avv. Luigi Paris, Teramo, p. 9).
Meno nota è l'altra, inviata al Fortis tramite il Pagani, nella quale fa
riferimento all'amico Vincenzo Comi e alle sue ricerche. "Esso
[il pacco] contiene, scrisse, tre tomi dell'Effemeridi, due di Leske,
tre copie della Chimica di Scopoli, cioè due di vostra commissione, ed
un'altra che regalerete a nome mio a D. Vincenzo Comi, insieme con i sei
tomi di questo Giornale di Fisica, ed un Almanacco per i Medici. Così
vedrete che cos'è questa Biblioteca di Fisica, che potrebbe essere
qualche cosa di meglio, ma intanto col dare delle cose inedite, e
notizie scoverte recentissime ha qualche merito. La spesa della medesima
è di £ 12 di Milano all'anno, ed ogni anno sei volumetti. Volta
[Alessandro] protegge questo giornale, ma non credo gli altri, perché
non sono estinti i germi della discussione" (Pavia, 20 febbraio
1789).
All'amico Pietro Custodi, che gli chiedeva di leggere qualche suo nuovo
lavoro, rispose che avrebbe voluto pubblicare qualcosa, ma non era nelle
condizioni di "comparire innanzi al pubblico". Per scrivere qualcosa,
gli ricordò, bisognava conoscere il pensiero degli altri sullo stesso
argomento e questo per il momento gli era possibile anche perché, gli
confessò, "devo pur dire che [l'acquisto dei libri] incomodano a
volte le mie Serafiche Finanze" (S. Marino, 16 novembre 1805).
Tuttavia pregava gli amici di non dimenticarlo.
Il bibliotecario romano Gaetano Marini, con il quale fu in grande
dimestichezza, gli fu di grande aiuto mentre stava elaborando le
Memorie storiche della Repubblica di San Marino poi edite a Milano
nel 1804.
Nel dicembre del 1802, ringraziandolo per le informazioni che gli aveva
fornito su alcuni codici, gli chiedeva come fare per avere le edizioni
più corrette di alcuni documenti e libri. "Nell'ultima vostra mi
parlate dell'istrumento del Card. Anglico [Grimoardi] di cui non conosco
che il pezzo pubblicato dal Borgia nelle Memorie di Benevento, e che
sarebbe ben averlo in maggiore integrità. Mi proponete anche le Carte
Albornoziane, per le quali vi pregai di volermene far estrarre le copie,
come tutt'altro che fosse relativo ai miei desideri. Se fosse tutto ciò
pronto, ad un vostro avviso, manderei a prenderlo da persona sicura.
Aggiungo poi un altro bisogno: cioè che avendo delle edizioni del XV
secolo, ve ne sono varie mancanti di qualche pagina, come il Lattanzio
del 1468, il Cesare del 1472, entrambi della Casa de' Massimi, e così
altri, e vorrei poterle riparare, o coll'imitazione o con supplirle da
altri libri, come meglio si potrà, e vi prego dirmi il vostro parere"
(Ascoli, 19 dicembre 1802, cfr. G. Morelli, Aprutium, 1996, pag
.21 e sgg.).
In precedenza aveva avuto da lui due copie del "Breve di Giovanni XXII"
e del "Capitolo del Cardinale Albornoz" a lui quasi ignoti visto che
scrive "il primo non lo conoscevo che monaco, e l'altro [gli] era
noto solo dal Marini di S. Leo" (S. Marino, 15 settembre 1802).
Al centro dei suoi interessi, comunque, c'era sempre la ricerca delle
edizioni antiche e rare. Al Munter in una lettera spiegò che: "I
perigli sul finire del secolo [XVIII] mi fanno distrar dalla mia
raccolta di medaglie urbiche; ma come non si può star senza qualche
oggetto di passione letteraria, da più anni in qua vi surrogai
l'acquisto di libri del XV secolo, di cui ho già una raccolta
ragguardevole per numero e per qualità" (Napoli, 12 maggio 1813).
Nel 1808, commentando il Catalogo pubblicato dei libri del Duca di
Cassano, appena edito, disse al marini: "Il mio può essere più forte
in numero di soldati, ma non di capi" (Napoli, 22 aprile 1808, cfr.
G. Morelli, op.cit.).
Nel 1803, rispondendo al Marini, che gli aveva chiesto delle notizie
biografiche su Alberto Fortis, gli disse: "Intanto, per non rendere
l'amicizia oziosa, profitterò delle vostre cortesi esibizioni, facendovi
sapere, che io ha un poco il gusto delle edizioni del XV secolo. Sicché,
se ne avete in vista alcuna acquisibile, e che non fosse molto contro
l'economia, mi fareste somma grazia a darmene notizia; e così, come
volete, incomodarvi, vo do nuova prova de' sentimenti, che mi rendono
Vostro Serv. ed amico" (cfr. Pompilio Pozzetti, Commentario della
vita e delle opere di P.P. delle Scuole Pie con lettere a lui
indirizzate da celebri uomini e con veri elogi d'insigni scolopi in esse
ricordati, per Alessandro Checcucci dello stesso ordine, Firenze, nella
Tipografia Calasanziana, 1858, pp. 107-110).
Ha ricordato recentemente Giuseppe Morelli, in un puntualissimo studio
su alcune Lettere di Melchiorre Delfico nella Biblioteca Apostolica
Vaticana ("Aprutium", 1996, pp. 21 e ss.), che il Delfico e il Marini
si erano conosciuti a Roma nel 1795 e il carteggio tra i due si
interruppe nel 1808 quando quest'ultimo per dovere d'ufficio seguì a
Parigi gli Archivi della S. Sede, requisiti da Napoleone in seguito alla
diaspora con il Pontefice.
Ma, tornato a Napoli sotto i Francesi alla guida del dicastero delle
Finanze, gli chiese "bramerei le Familiari di Cicerone, se sono
quelle della prima stampa veneta: dico della prima di quella città,
poiché sapete che ve ne furono due nell'anno stesso 1469 e dello stesso
stampatore […] Più De Natura Deorum etc. del 1741, Venezia 1477,
Virgilio, Roma, 1473" (Napoli, 27
novembre 1806, cfr. G. Morelli op .cit., p. 9).
L'anno successivo, invece, si lamentò con l'amico Francesco Reina che a
causa dei numerosi impegni non poteva seguire con assiduità la sua
collezione, ma solo in maniera episodica "così per divertimento ad
acquistar qualche edizione del vecchio XV, ma qui non trovo neppure a
soddisfare questo mio gusto, poiché tutto è stato spazzato e passato in
mano forte o all'Estero" (Napoli, 19 febbraio 1807). Il Reina,
rispondendogli, lo informò che anche a Milano "le cose rare vanno
sparendo", mentre cresceva a "dismisura" il numero dei libri a stampa,
comunque gli promise qualcosa: "Se però – scrisse – tornerete
fra le braccia degli amici vostri Lombardi, troverete ancora qualche
tesoretto nascosto" (Milano, 6 giugno 1807).
Un grosso ostacolo era costituito dal cambio monetario non solo per gli
operatori finanziari, per i commercianti, per gli importatori ed
esportatori, ma anche per i semplici acquirenti magari di libri e per "questo
motivo, notò il Delfico, si perde quasi metà delle somme". Lo
stesso Fortis da Venezia, nel marzo del 1796, in un'analoga situazione
politica e militare, così gli fece eco: "La compra fatta con parte
del credito in assegnati acquistati rappresenta 200 lire torinesi di
credito sul Gran Libro al 5 per 100. Per ora io sarò alla condizione di
altri venditori: ma a pace fatta i pagamenti si dovranno fare in
numerario o in assegnati al corso. Sarà oggetto di personale esame se
convenga meglio tenere una rendita di 10.000 lire o di cambiare il
capitale in terreni" (cfr. Stevka Smitran, Dalla corrispondenza
di Alberto Fortis a Melchiorre Delfico, in "Atti del Convegno di
studi storici- L'Abruzzo e la repubblica di Ragusa tra il XIII e il
XVII secolo", Ortona, 1988, p. 130).
Per aggirare l'ostacolo, nel 1810, il Delfico suggerì al Munter lo
scambio dei libri con altri collezionisti, "io mi lusingo che fra
breve si potranno dare delle combinazioni favorevoli ad attenuare…"
poiché per il momento non c'erano altre alternative. "Le combinazioni
che accenno, gli disse, le vedo negli invii de' ministri
in codesti regni Settentrionali: per mezzo di essi il cambio si potrà
ottenere quasi alla pari per i reciproci bisogni" (cfr. A. Di Nardo,
Storia e scienza, op. cit., p. 150). Il cambio di oggetti
fra amici è stato e resta sempre un modo per avere qualcosa che
diversamente non si ottiene, ma nel Settecento rientrava in una più
complessa pratica esoterica e lo si faceva solo tra gli affiliati.
"La consuetudine di scambiarsi favori, informazioni e perfino
"pupilli", osserva Francesca Fedi, apparteneva del resto tanto a
un codice massonico quanto a quello, non scritto, della società dei
collezionisti, la quale aveva poi in comune con la libera muratoria
altre due caratteristiche fondamentali: l'internazionalità e il
gradualismo" (cfr. F. Fedi, op. cit., p. 63).
La cultura Massonica, infatti, innalzava il collezionismo e la sua
pratica alla ricerca della perfezione, nell'esperienza della "raccolta"
vissuta, nel dualismo di vita e ricerca, come scrive Goethe nella sua
terza lettera sull'educazione (cfr. Goethe, Il collezionista e i suoi,
in Scritti sull'arte, trad. di N. De Ruggiero, Napoli, Ricciardi,
1914, pp. 23-89). Un altro sistema era quello di pagare i libri facendo
ricorso alla buona volontà degli amici. Un caso del genere, che,
purtroppo, non tutto andò a buon fine è stato segnalato da Marcello
Sgattoni a proposito dei libri acquistati dal Canova per il Cicognara e
che il Delfico avrebbe dovuto pagare attingendo i soldi dalle prebende
acquisite [dal Cicognara] con l'aggregazione all'Ordine delle Due
Sicilie (cfr. M. Sgattoni, Cinque lettere di Melchiorre Delfico a
Leopoldo Cicognara, in "Notizie dalla Delfico, 1995, n. 1, p. 23").
Gli ostacoli non gli impedirono comunque di continuare la ricerca poiché
nel 1813 al danese Munter comunicò con soddisfazione di aver una "raccolta
raguardevole per numero e qualità" di incunaboli. La lettera del
1813 è importante per diversi motivi: intanto perché indica la data
esatta della sua uscita dal Governo "giacchè era uno de' quattro
presidenti del Consiglio di Stato" e in secondo luogo, perché ci parla
dei suoi rapporti con la Società Reale e dei suoi progetti culturali
(Napoli, 11 maggio 1813). "In febbraio – scrisse – lessi
Memoria alla Società Reale "Su la sensibilità imitativa, considerata
come il principio fisico della socialità della specie e del
civilizzamento de' popoli". Fu gradita molto dai nostri Fisiologisti,
annotò con soddisfazione, e si stamperà nel prossimo mese nel primo e
secondo volume". La ricerca venne pubblicata nel 1819 dopo quella
sulla perfettibilità organica (cfr. M. Delfico, Ricerche su la
sensibilità imitativa considerata come principio fisico della
sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle
nazioni. Letta nella R. Accademia delle Scienze a dì 17 febbraio 1813.
Sta in Atti della Reale Accademia delle Scienze. Sezione della
Società Reale Borbonica. Memoria, 1819, vol.I, pp. 343-376). In
relazione ai suoi interessi immediati lo informò che stava lavorando "sulla
Scienza Etimologica de' Romani" che era poca cosa ma che gli dava
possibilità e "luogo a non inutili operazioni su lo stato
intellettuale di quel popolo".
Tra le sue carte non mancano infatti appunti, annotazioni e qualche
riflessione approfondita con l'inizio di un piccolo vocabolario, in
lingua italiana (cfr. D. Striglioni Ne' Tori. L'inventario del Fondo
Delfico – Archivio di Stato di Teramo – Teramo, 1994). In
precedenza aveva ringraziato il Fortis per la scaletta dei libri da
studiare per un corso accelerato di economia politica (A. Lettieri,
op. cit., Teramo, 19 agosto 1788). Purtroppo, l'intero corpo degli
incunaboli, composto di quasi mille titoli, non si trova nella sua città
natale, ma a Napoli come suo contributo alla nascente Biblioteca
Borbonica Napoletana (A. Marino, Il contributo del Delfico alla
formazione della Reale Biblioteca Borbonica di Napoli, in Atti del
Convegno di Studi Gli archivi come fonte di Ricerca Storica,
Chieti, ed. Tinari, 1995, p. 49 e sgg.). Un gesto apprezzatissimo dai
suoi amici ed estimatori tanto che da Parigi (8 agosto 1811), ad
esempio, G. Melzi gli scrisse: "Il vostro dono veramente patriottico
fatto a codesta Regia Biblioteca è degno di voi, e mi conferma sempre
più nell'opinione di stima e di ammirazione che ho sempre avuto per voi.
Io mi rallegro con voi di un sì bell'uso che avete fatto della vostra
collezione" (cfr. M. Delfico, Opere complete, Teramo, 1904,
vol. 4, p. 230). In precedenza da Milano gli aveva detto: "Vi
confesso la verità, non avrei avuto io l'egual virtù di privarmi dei
miei quattrocentisti che avete fatto voi, ma giacchè faceste questo
sforzo, vi lodo che il sacrificio sia stato completo, mentre invece di
contrattare la vostra preziosa raccolta, l'avete donata. Voglio essere
sincero – aggiunse – io ho posto invidia alla R. Biblioteca di
Napoli principalmente, perché possederà il bello esemplare del Petrarca
1471 di Roma. Molte altre edizioni io stimo della vostra collezione
– concluse – ma questo cimelio sopra tutte" (M. Delfico, op.
cit, p. 226).
A Teramo, invece, lasciò la sua libreria, smembrata in più occasioni per
vendite o donazioni, ed ora fortunatamente ricomposta. Un primo
smembramento implicitamente si ebbe, come abbiamo riferito, con la
fornitura dei libri scientifici fatta in favore degli amici che ne erano
privi e, purtroppo, con quelli disgraziatamente perduti nel 1799 a
Teramo e a Montesilvano in occasione dei fatti legati alle vicende della
Repubblica Napoletana.
Un secondo si verificò nel 1824 allorché il Delfico stesso, tornato
definitivamente a casa sua, dopo l'esperienza parlamentare napoletana
(1821), donò i volumi prettamente ecclesiastici e religiosi ai
Cappuccini che avevano aperto nel loro convento teramano una fiorente
cattedra regionale di Teologia in alternativa a quella funzionante
presso il Convento dei Frati Minori della Madonna delle Grazie (cfr.
Filippo da Tussio, I frati cappuccini della monastica provincia degli
Abruzzi. Memorie cronologiche-biografiche, S. Agnello di Sorrento,
1880).
Un terzo si ebbe due anni dopo, nel 1826, in favore del Real Collegio,
istituito nel 1813 da Gioacchino Murat per venire incontro ad un'antica
aspirazione teramana. Non era la Piccola Università, richiesta dal
Delfico, concessa dai Borboni e osteggiata dal Vescovo Pirelli (Vincenzo
Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano (1777-1798).
L'attività di Melchiorre Delfico presso il Consiglio delle Finanze,
Roma, 1981, pp. 288 e sgg.), ma certamente qualcosa di importante in
quanto per alcuni periodi il Real Collegio rilasciò, almeno sino al
1857, titoli di studio simili alle lauree.
L'ultimo smembramento si ebbe alla sua morte, quando i volumi superstiti
e rimasti in casa confluirono nella costituenda Biblioteca provinciale (cfr.
Adelmo Marino, Illuminismo e preromanticismo nella biblioteca di M.
Delfico, in Scritti inediti di Melchiorre Delfico, Chieti,
Solfanelli ed., 1986, pp. 143 e sgg.). La donazione dei libri al Real
Collegio, al di là degli aspetti burocratici e testamentari che
impegnarono non poco il Delfico e gli amministratori locali, è senza
dubbio inferiore per numero e valore economico a quella napoletana degli
incunaboli, ma è sicuramente superiore per concezione e organicità,
anche se ciò non appare dall'elenco, redatto in ordine alfabetico dal
notaio Gaetano Grue.
I libri sono in linea con la cultura scientifica del periodo, gli autori
sono quasi tutti del Settecento e dei primi anni dell'Ottocento con
esclusione quasi totale delle opere del secolo precedente. Compaiono i
libri posteriori a quelli presenti negli scaffali delle biblioteche
abruzzesi, ad esempio, del marchese de' Sterlich o di Federico Valignani
(cfr. Giuseppe F. de Tiberis, Federico Valignani in L'Abruzzo nel
Settecento, Chieti, 2000, pp. 473-498; Annamaria De Cecco,
Federico Valignani. Fonti archivistiche, in L'Abruzzo nel
Settecento, Chieti, 2000, pp. 490 e sgg.), mentre non mancano quelli
degli autori regionali come Sallustio, Ovidio, Antinori ecc. Sono
presenti anche quattro libri del Delfico, forse quelli che lui stesso
riteneva più significativi. Essi sono: i Pensieri sulla Storia
(1814), le Memorie Storiche della Repubblica di San Marino
(1804), la dissertazione Sul vero carattere della giurisprudenza
romana e dei suoi cultori (1815) e l'Elogio di Francescantonio
Grimaldi (1784).
Tutti si situano all'interno di una intensa dinamica pedagogica
articolata e nell'ambito di una cultura europea. Ci sono, infatti, libri
in italiano, in latino, in madre lingua o in traduzioni pregevoli, senza
alcuna restrizione ideologica e religiosa e comunque provenienti dalle
più accreditate case editrici europee. Scorrendo l'elenco si ha la
sensazione che il Delfico seguì un suo progetto universitario in
riferimento ai cambiamenti sopravvenuti in Europa e in vista delle nuove
sfide. Non va sottaciuto che egli era informato dei problemi scolastici,
avendo partecipato a più riprese ai lavori del Consiglio di Stato
(1809-1810) per la stesura dei progetti di riforma dell'istruzione
pubblica napoletana (cfr. G. Lisciani, Melchiorre Delfico. Scritti
pedagogici. Con alcuni inediti. Prefazione di Mauro Laeng,1969).
Le Osservazioni a un progetto di riforma, che prevedeva una
diversa articolazione sia delle materie sia dei programmi in ordine ai
titoli e alle professioni, l'abbiamo trovato tra le sue carte (cfr.
Biblioteca Provinciale "M. Delfico" Teramo, Fondo Delfico,
Miscellanea n. 2, nn. 851-852). L'articolato prevedeva dei nuovi
percorsi formativi teorici e pratici che gli studenti avrebbero dovuto
seguire negli anni insieme a una serie di impegni e di controlli che lo
Stato doveva garantire. Per il momento Melchiorre Delfico si limitò a
fornire al Real Collegio quei sostegni bibliografici utili alle sole
cattedre attivate e previste nell'art. 2 del Regio Decreto n. 1767 del
16.5.1813 che erano: Grammatica inferiore e media (denominata anche
"Latinità inferiore e media"), Retorica ed Eloquenza, Filosofia e
Matematica elementare, Grammatica superiore, denominata anche "Latinità
sublime". Nel 1820 l'organico al completo era così composto: Timoteo
Wagnon (Grammatica e Lingua italiana), Fulgenzio Lattanzi (Retorica e
Poesia), Agostino Giosia (Latinità inferiore e media), Gennaro Seguino
(Latinità superiore o sublime), Luigi Paris (Matematica sublime e
Fisica) e Berardo Taraschi (Filosofia e Matematica elementare) (cfr.
Giovanni Di Giannatale, Il personale docente del Real Collegio di
Teramo nei suoi primi anni di vita (1814-1819), in "Notizie dalla
Delfico", Teramo, 1993, n. 1, p. 4 e sgg.).
La libreria, comunque, non rientrava nel quadro di un superficiale
filantropismo culturale bensì nell'ambito di una consolidata visione
massonica e, quindi, sulla stessa linea culturale sia del ricordato
Cicognara sia di Cesare Beccaria, i libri proposti erano importanti non
per il loro pregio formale (ricchezza e preziosità della veste
tipografica) ma per il valore del loro contenuto. Il Delfico, infatti,
non era un avido bibliomane, che con la sete di investimento sottraeva
il libro alla libera circolazione e quindi alla sua intrinseca finalità,
che è quella di essere letto, ma un bibliofilo scrupoloso al servizio
degli studiosi (cfr. L. Cicognara, Vita di San Lazzaro monaco e
pittore, preceduta da alcune osservazioni sulla bibliomania,
Brescia, 1807; C. Beccaria, Il Bibliomane, in Scritti
filosofici e letterari, a cura di L. Firpo, G. Francioni e G.
Gaspari, Milano, 1984, vol. II). Personalmente, non gradiva la scomparsa
dei libri innanzitutto perché ciò avrebbe interrotto il naturale
"gradualismo" della scienza e in secondo luogo perché avrebbe ritardato
di molto lo sviluppo della "perfettibilità" della specie umana e quindi
– come scriveva Schiller nelle Lettere sull'educazione estetica
dell'Uomo, un autore che lui conosceva benissimo – impediva la
conquista di una "propria umanità integrale" (cfr. F. Schiller,
Saggi estetici, a cura di C. Baseggio, Torino, UTET, 1968, pp.
203-323).
In conclusione, Melchiorre Delfico operò con la donazione certamente in
funzione e negli interessi di un ceto amministrativo illuminato, ma non
dimenticò le sue aspirazioni laiche, le sue battaglie riformiste e la
sua passione civica. Il collezionismo di libri o di monete non fu la
manifestazione di un gioco vacuo di società o un modo intelligente di
investimento finanziario, bensì l'espressione di una cultura storica in
continua evoluzione e sempre nella prospettiva di una profonda
trasformazione della società. |