Melchiorre Delfico e Pescara
Per una storia del rapporto tra intellettuali
ed esperienze giacobine in Abruzzo |
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di Fabrizio
Masciangioli
In «Trimestre», a. XX (1987), nn. 1-2
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Nel giugno 1799 si conclude tragicamente la breve stagione della
Repubblica Partenopea con la resa dei giacobini alle masse inquadrate
nell’esercito sanfedista che combatte in nome di re Ferdinando. Mentre
l’insorgenza popolare spadroneggia nelle province del Regno di Napoli,
la monarchia borbonica avvia rapidamente e in modo traumatico la fase
della normalizzazione e della persecuzione dei «rei di Stato», di tutti
coloro cioè che, con responsabilità assai diverse avevano accettato e
sostenuto il nuovo ordine repubblicano. Con una sequela di condanne
capitali il tribunale realista annienta il gruppo dirigente della
repubblica e fra i «martiri napoletani» finiscono sul patibolo Gabriele
Manthonè, Giorgio Pigliacelli e altri giacobini abruzzesi (1). Di segno
diverso è l’operato dell’inquisizione borbonica in Abruzzo dove gruppi
elitari, fin dal dicembre 1798, avevano appoggiato l’occupazione
militare delle armate francesi dando vita alle istituzioni repubblicane
(2). Analizzando nel complesso gli accertamenti compiuti nella regione
dal visitatore di giustizia Ignazio Ferante (3) e successivamente quelli
dei nuovi prèsidi delle province (4) si avverte una certa moderazione
che spesso sfocia nel perdono. Da questo punto di vista una situazione
esemplare può considerarsi quella della città-fortezza di Pescara che
durante il biennio giacobino era diventata il principale centro
politico, amministrativo e militare dell’intera regione. Ciò nonostante
sono meno di dieci le persone cui vengono attribuite responsabilità
particolarmente gravi e che, di conseguenza, vengono condannate a pene
severe. Il visitatore Ferrante nella sua rappresentanza contro i
«municipalisti» pescaresi distingue esplicitamente tra coloro che hanno
mostrato una chiara adesione alla causa repubblicana attraverso
comportamenti specifici e la schiera più numerosa di quelli che, pur
ricoprendo cariche pubbliche, non hanno dato prova di una convinta
militanza e possono giovarsi di circostanze attenuanti (5). Preoccupata
di realizzare la riconciliazione nel regno, la giustizia borbonica cerca
di cancellare ogni traccia di una presenza giacobina in Abruzzo tanto
che, per volontà del sovrano, verranno distrutti i documenti riguardanti
l’occupazione francese e i relativi processi. La scarsità delle fonti e
il ruolo preponderante attribuito per lungo tempo al fenomeno
dell’insorgenza popolare spiegano il ritardo della storiografia
nell’analisi dell’azione dei «giacobini» in Abruzzo o, come è stato
scritto, di quei gruppi intellettuali e sociali che passano
«dall’esperienza riformatrice alla rivoluzione» (6). Fra le mura della
roccaforte pescarese opera la personalità più prestigiosa di questa
élite filo francese: Melchiorre Delfico, l’illuminista teramano che
si era a lungo battuto per rendere più incisiva l’iniziativa
riformatrice della monarchia borbonica (7) e a Teramo aveva subito
pesanti attacchi da parte del partito clericale e ultra-conservatore
guidato dal vescovo Pirelli (8). L’occupazione francese lo aveva
liberato dagli arresti domiciliari proiettandolo ai vertici delle
istituzioni repubblicane. Il pesante atto d’accusa stilato dai présidi
delle province di Chieti e Teramo sta a testimoniare l’indubbia
rilevanza degli incarichi svolti. Sbrigativo, come nel suo costume, il
brigadiere Marescotti si limita ad enunciare le cariche ricoperte
aggiungendo che «emigrò coi Nemici» (9); ben più scrupoloso e attento
alle questioni di fondo il colonnello Rodio scava nelle vicende del
filosofo teramano. «Fin dal 1775 fu scoverto per uno dei Settarj
esistenti allora in Teramo per cooperare per fondarvi la Democrazia in
rovescio della Monarchia. Prima dell’ingresso de’ Francesi fu arrestato
in Teramo con tutta la sua famiglia per materia di Stato. Sortì con
l’ingresso dei nemici, da’ quali fu creato Presidente della
Municipalità, indi Amministratore generale e poi Presidente del Supremo
Consiglio di Pescara. In tali cariche palesò apertamente i suoi piani
per sostenere la democrazia negli Abruzzi. Fu nominato per uno de’
membri del Governo provvisorio della repubblica napoletana, ma non potè
mai condursi nella Capitale, per essere stata impedita dalle masse ogni
comunicazione di strade… Fuggì nel regresso dei Francesi e come profugo
fu citato ad informandum et Capitula. Non si è ancora ritirato
nei Reali Dominj, e si ritrova nello Stato Romano, fermo nei suoi
sentimenti, per come si dice, contro la Monarchia» (10). Seppur con
qualche errore e forzatura in cui si può avvertire l’influenza del
vescovo Pirelli, la requisitoria borbonica fotografa in modo credibile
il ruolo politico svolto dal Delfico durante l’occupazione dell’esercito
transalpino. Consolidata l’autorità francese a Teramo con la creazione
della Municipalità presieduta da Giamberardino Delfico, negli ultimi
giorni del dicembre 1798 il Nostro viene nominato presidente
dell’Amministrazione Centrale del Basso Abruzzo dal generale Duhesme,
che dirige le operazioni militari nella regione, e a gennaio è posto al
vertice del Consiglio Supremo che ha sede a Pescara. Non possediamo
riscontri per datare con precisione il suo arrivo nella fortezza
adriatica ma, tenendo presente che i provvedimenti legislativi del
Consiglio vengono varati a partire dai primi di febbraio, si può dedurre
che Delfico fosse a Pescara intorno alla metà di gennaio 1799 (11).
Quando vi giunge il processo di democratizzazione sta prendendo corpo e
le città-fortezza ne rappresenta il fulcro essenziale. Fra le sue mura
maturano le scelte militari dell’occupante francese, vengono varate le
nuove leggi e impartite le direttive di carattere amministrativo, si
raccolgono le risorse finanziarie ricavate dall’imposizione di
contributi nel resto della regione (12). Pescara era caduta senza
combattere fra il 23 e il 24 dicembre 1798 (13), nonostante da oltre un
decennio si preparasse a ritmo quasi ossessivo alla guerra. Sul finire
del secolo la fortezza si presentava strutturalmente identica
all’originario progetto cinquecentesco realizzato da Carlo V. Un
imponente pentagono fortificato e attraversato dal fiume; una cinta
muraria, che superava i duemila metri di perimetro, caratterizzata da
cinque bastioni e da quattro cortine vere e proprie mentre una quinta
ospitava l’edificio delle caserme (14). «Questo principale Baluardo
della Corona e dello Stato», come lo definisce lo stesso Delfico
nell’ottobre 1784 in una puntuale ricognizione geografico-economica
della costa abruzzese (15), era stato però notevolmente potenziato nelle
strutture interne e nelle fortificazioni. Parallelamente si era
sviluppata una progressiva spinta alla mobilitazione: nel 1792 veniva
convocato un consiglio generale cittadino in esecuzione di un dispaccio
reale che, paventando minacce esterne, sollecitava l’organizzazione di
milizie popolari in appoggio all’esercito regolare. Quattro anni dopo
nella piazza principale di Pescara aveva luogo una straordinaria
adunanza con la partecipazione di tutti i capifamiglia. Sempre nel 1796
il ritmo dei lavori per la difesa era diventato talmente frenetico che
in città non si trovavano più mattoni, né calce per sistemare le
condotte idriche (16). La valorizzazione del ruolo strategico della
fortezza si intrecciava con la crescita di un tessuto urbano
caratterizzato da una economia abbastanza vivace. Le realizzazioni
militari, infatti, erano state accompagnate da una incisiva opera di
bonifica che aveva migliorato le condizioni igienico-ambientali da
secoli segnate dal clima malarico. La contemporanea presenza del mare e
del fiume si era così tramutata in un fattore di sviluppo demografico,
come si può rilevare mettendo a confronto i dati del Catasto D’Avalos
del 1721 con il successivo rilevamento del 1813. In meno di cento anni
Pescara, San Silvestro e Castellamare (i tre antichi nuclei dell’attuale
città) passano da 3.000 a 7.000 abitanti mentre i soli immobili per uso
domestico salgono da 200 a 1.625 (17). Inoltre, pur mancando di un porto
commerciale, Pescara aveva mantenuto una forte tradizione peschereccia e
un discreto movimento mercantile, come non manca di osservare il
Teramano: «… vi si vedono di tempo in tempo delle piccole barche
mercantili o a portarvi le merci straniere necessarie all’interno
consumo della Provincia, o a caricare olio e grani del qual generi la
Provincia abbonda» (18). L’esercito francese con la conquista della
piazzaforte adriatica aveva dunque ottenuto un successo determinante per
completare l’occupazione dell’Abruzzo e marciare, contando su retrovie
più sicure, verso Napoli dove era previsto il ricongiungimento con le
colonne guidate dallo Championnet. Nei primi momenti dell’occupazione
era stato un giovane ufficiale, Paul Thiébault, a lanciare un segnale
del mutamento politico in atto scegliendo una coccarda bianca, rossa e
verde. Secondo quanto scriverà molto tempo dopo nelle sue memorie, il
tricolore, già adottato due anni prima dalla Repubblica Cispadana,
sventolerà sui torrioni pescaresi per molte settimane (19) nonostante le
diverse disposizioni contenute, fin dal 28 dicembre con un proclama del
generale Duhesme. Questo provvedimento fissava il nuovo assetto el
territorio regionale che veniva diviso in due dipartimenti, Alto e Basso
Abruzzo, articolati a loro volta in cantoni. Ogni dipartimento era
governato da un’Amministrazione Centrale di tre membri mentre i cantoni
e i comuni maggiori erano retti da una Municipalità di cinque membri.
Come «punto intermedio fra il generale, e i due Dipartimenti per tutti
gli ordini ch’egli dovrà dare» (20), veniva creato un Consiglio
Superiore di cinque componenti con sede a Pescara. Il proclama
attribuiva vaste competenze al Consiglio che si occupava dell’attività
legislativa, amministrativa, finanziaria, e infine dell’organizzazione
militare. In tutti i suoi atti però era subordinato all’approvazione del
generale francese. Tali direttive restano sulla carta fino ai primi
giorni di gennaio quando il comando delle forze transalpine, concentrate
a Pescara, viene assunto dal Coutard, nominato Comandante in Capo
dell’Alto e Basso Abruzzo. Quest’ultimo dà vita, con qualche modifica,
alle nuove istituzioni della città: costituisce il Consiglio, che
ribattezza «supremo», riducendolo a tre membri e insedia la Municipalità
di nove componenti. L’autorità militare francese conserva il diritto di
vistare tutti gli atti dell’organo politico, oltre a riservarsi la
discrezionalità per una serie di nomine (21). Il Consiglio Supremo,
dunque, si configura come la più alta autorità politico-amministrativa
in sede locale e di fatto si trova a svolgere un delicato compito di
mediazione tra le esigenze dell’occupante francese e l’iniziativa dei
nuovi organismi «democratici». In questo processo di consolidamento
repubblicano s’inquadra la chiamata alla presidenza del Consiglio di
Melchiorre Delfico, una scelta eloquente da parte dei francesi che
avvertono il bisogno di costruire un rapporto con settori intellettuali
della società abruzzese coinvolgendo le personalità di maggior
prestigio. Il riformatore teramano affiancato da due avvocati di
Lanciano, Antonio Madonna (22) e Carlo Filippo de Berardinis (23),
mentre segretario viene nominato Giuliano Crognale (24), anch’egli
lancianese, singolare personaggio dedito alla pittura e alla poesia.
La testimonianza più significativa del soggiorno pescarese di Delfico è
rappresentata da alcuni provvedimenti legislativi che gettano un po’ di
luce sul suo impegno politico. Allo stato delle ricerche si conoscono
soltanto due proclami: il Piano di un’amministrazione provvisoria di
giustizia pei tribunali di dipartimenti e giudici di cantoni del 24
piovoso anno VII (12 febbraio 1799) e un secondo documento riguardante
la repressione del vagabondaggio del 15 ventoso anno VII (5 marzo 1799).
Entrambi questi atti contengono riferimenti ad un precedente proclama
del 15 piovoso anno VII (3 febbraio 1799) che prevedeva l’indulto per
particolari tipi di reato (25). Nel preambolo del Piano di giustizia
si afferma la necessità di un nuovo sistema giuridico quale condizione
per la realizzazione della «felicità dell’uomo sociale» e tale compito
viene affidato a giudici capaci di operare con «prontezza» e
«imparzialità» (26). Dietro le parole tranquillizzanti e di sapore
propagandistico si agitano le problematiche della libertà e
dell’eguaglianza, due temi «fondanti» della "grande rivoluzione" che lo
stesso Delfico aveva affrontato fin dalle sue prime opere. Nel 1775 la
censura aveva impedito l’uscita degli Indizj di Morale (27) nelle
cui pagine, spaziando da Locke a Condillac, da Diderot a Rousseau,
emergeva il concetto di libertà civile concepita come componente
necessaria dello sviluppo sociale (28). Come ha ben sottolineato
Venturi, la libertà civile, così intesa, implicava l’abolizione dei ceti
privilegiati, clero e aristocrazia, e imponeva una redistribuzione della
proprietà secondo il «canone politico… di ravvicinare gli estremi, e non
dar luogo ad altre ricompense che a quelle del merito personale e
dell’industria. Le leggi dunque destinate a mantener l’eguaglianza e la
libertà devono mantener gli uomini nella dipendenza da esse sole,perché
ogni dipendenza da individuo a individuo distrugge la libertà, e mette
la base all’ineguaglianza» (29). Tale istanza egualitaria veniva
ricondotta all’iniziativa di un monarca moderato e riformatore che
avrebbe avuto tutto l’interesse nel frazionare la proprietà della terra
poiché l’aumento dei possidenti si sarebbe risolto in una crescita del
consenso verso l’autorità (30). Negli Indizj erano ben presenti i
protagonisti negativi della battaglia antifeudale intrapresa
dall’illuminista teramano negli ultimi due decenni del secolo: quei
«ceti intermedi» che difendevano strenuamente i loro privilegi secolari
e impedivano ogni progresso economico mantenendo in vita arcaici sistemi
di proprietà terriera (31). L’arbitrio baronale aveva poi trovato un
nuovo alleato nel ceto forense, negli uomini di legge che fondavano il
loro potere sulla «gestione» del caos normativo scaturito dalla
degenerazione del diritto romano. L’atto d’accusa contro questa
paralizzante alleanza veniva formulato nelle Ricerche sul vero
carattere della giurisprudenza romana e de’ suoi cultori (32),
un’opera che assumeva un carattere dirompente perché poneva con forza
l’esigenza di un nuovo sistema legislativo, «una specie di giurisdizione
e di magistrati, una procedura affatto eguale ed uniforme per tutti
gl’individui» (33). Pur riconducibili al filone della critica
illuministica nei confronti della legislazione romana, le argomentazioni
delficine si inserivano chiaramente nella nuova temperie ideale creata
dalla rivoluzione francese in tutta l’Europa. Lo confessava lo stesso
Autore al fratello Giamberardino scrivendo che le Ricerche erano
scaturite da due suggestioni: «dalle impressioni continue e
continuamente ripetute della nostra dispotica anarchia e da quelle che
ci vengono da più lontana parte, ed eccitano nell’animo salutari
desideri» (34). Delfico era ben consapevole delle gravi difficoltà che
le «nuove idee» avrebbero incontrato in «quelli per i quali le parole
novità e disordini sono sinonimi, e nella luce incerta del poco
intendimento tremano anche della speranza di un’esistenza migliore»
(35). Qualche tempo dopo, in una lettera al Fortis, spiegando la
necessità di un incontro col re per illustrargli le Ricerche,
identificherà con precisione i suoi oppositori: «E pur bisogna dunque
che vada a trovarlo nel nuovo soggiorno per non ritardar più un atto di
dovere e di convenienza che ora si rende tanto più necessario, in quanto
la gente paglietta e la togata ne menano gran fracasso» (36). Ma
l’utopia delficina dell’eguaglianza degli individui davanti ad una legge
certa s’infrangerà contro la svolta repressiva della politica borbonica,
cosicché il proclama del ’99 può apparire come la ripresa di un discorso
bruscamente interrotto. Pur condizionato dalle incertezze della fase
storica il Piano di Giustizia varato a Pescara opera una netta rottura
rispetto all’ordinamento borbonico con l’azzeramento di tutte le vecchie
magistrature e con l’adozione della lingua italiana al posto del latino.
La tensione egualitaria emerge dall’affermazione del principio della
gratuità della giustizia amministrata da giudici stipendiati e dalla
garanzia della tutela giuridica nelle cause civili e penali anche per i
cittadini più disagiati grazie all’introduzione di «avvocati e
procuratori dei poveri» che vengono insediati dall’autorità militare
francese. (37). Ad ogni cantone viene attribuito un magistrato (due se
gli abitanti sono più di seimila) che è scelto dal Comandante in Capo e
dal Consiglio Supremo avvalendosi di una rosa di tre nomi proposti dalla
Municipalità o da altri organi. Con lo stesso sistema si selezionano i
cinque giudici per il Tribunale che ha sede nel capoluogo del
dipartimento. I magistrati cantonali in prima istanza hanno competenza
per il penale e per il civile mentre il giudizio d’appello spetta ai
Tribunali dipartimentali ed è obbligatorio per i procedimenti penali.
Una eventuale terza istanza spetta ad uno dei Tribunali «viciniori» la
cui sentenza è inappellabile. Un altro principio rivoluzionario è
rappresentato dall’abolizione della carcerazione per debiti di gioco «se
non quando sarà provata la frode per parte del debitore» (38). E’
importante notare che la riorganizzazione del sistema giurisdizionale,
avviata in Abruzzo da Melchiorre Delfico e dai suoi collaboratori,
rappresenta un momento di assoluto rilievo nella storia della Repubblica
Partenopea. A Napoli la legge "giacobina" sui tribunali entra in vigore
soltanto un mese prima della caduta della Repubblica e i nuovi giudici,
eletti alla fine del maggio 1799, vengono spazzati via pochi giorni dopo
dall’esercito sanfedista e dai tribunali speciali. (39).
Decisamente meno significativo il secondo proclama che cerca di risanare
la piaga del vagabondaggio con l’istituzione di un documento d’identità,
necessario per spostarsi da un dipartimento all’altro. Si stabilisce
inoltre che gli ex-soldati regii debbano dichiarare le loro fonti di
sostentamento, pena l’accusa di vagabondaggio (40).
Oltre all’impegno legislativo Delfico svolge un ruolo direttamente
politico-militare, come nel caso della missione a Teramo insieme al
Coutard. Dell’episodio è testimonianza una lettera delficina del 30
germinale anno I (in realtà anno VII dell’era repubblicana, 19 aprile
1799) inviata al Fortis nella quale si accenna brevemente alla
spedizione manifestando stima nei confronti del comandante francese
(41). Il De Caesaris riferisce di un secondo spostamento ad Ascoli
d’intesa col Carafa per ottenere aiuti nella difesa della piazzaforte
già assediata (42). Questo dato biografico, ricavato da un articolo del
«Monitore Napoletano» del 13 pratile anno VII (1 giugno 1799), è
inattendibile poiché il Teramano lascia Pescara al seguito dei Francesi
a fine aprile, proprio in coincidenza con l’arrivo Al periodo pescarese
fa anche riferimento la Memoria sulla persecuzione subita dalla
famiglia Delfico nel 1799, un documento, segnalato fra le carte
delficine ma inedito, che risale probabilmente ai primi anni
dell’ottocento (44). In una annotazione dello stesso Autore, che
racconta in terza persona, si precisa che lo scritto vuole essere un
rendiconto dei fatti di fine secolo compilato «nello scopo di ottenere
il dissequestro dei propri beni» (45). La Memoria, che si
inquadra in un periodo di restaurazione borbonica e indulge spesso in
espressioni-antifrancesi, è costruita intorno ad una linea auto
difensiva con la quale il Nostro si sforza di minimizzare il ruolo avuto
prima a Teramo e poi a Pescara, spiegando la propria scelta repubblicana
in termini di drammatica necessità (46). Nonostante il taglio
volutamente riduttivo, il manoscritto non può tacere sugli incarichi
ricoperti anche se l’illuminista teramano esordisce sostenendo di essere
stato costretto dal Coutard a raggiungere la piazzaforte pescarese.
Tenendo a cuore il benessere delle popolazioni «pubblicò un indulto, con
cui infinito numero di individui restarono esenti dalla ferocia
francese» (47):questa la tesi di Delfico che a suo merito rivendica
ancora la riduzione delle contribuzioni di guerra e alcuni interventi in
soccorso di singoli cittadini. A Napoli non avrebbe avuto intenzione di
andare in ogni caso e a fine aprile avrebbe deciso di trasferirsi nello
Stato Pontificio approfittando della ritirata dell’esercito transalpino.
A questo punto si inserisce un episodio, fin qui trascurato, riguardante
la perdita del bagaglio da parte del pensatore teramano. «L’altra
circostanza lacrimevole fu che il conte Di Ruvo, o sia il Duca D’Andria
[E. Carafa] pervenuto in Pescara colla Legione Napolitana al comando di
quella Piazza, voleva, che in ogni costo il Melchiorre fusse partito per
Napoli, onde simultaneamente gli promise che dopo un breve trattenimento
nella Marca sarebbe ritornato in Pescara per portarsi nella Capitale»
(48). Così si legge nella Memoria, che, prosegue spiegando come
il Carafa avrebbe cercato di condizionare il poco convinto Delfico
facendosi consegnare il bagaglio. I bauli, contenenti tra l’altro una
preziosa collezione di monete antiche, sarebbero poi scomparsi durante
l’assedio della città da parte dei "massisti"(49). Al di là della piena
attendibilità dei particolari riferiti nel manoscritto, è significativo
constatare che, pur nel contesto di un discorso difensivo, il Teramano
finisca per ammettere di aver avuto un notevole potere decisionale e
perfino una certa influenza sull’occupante francese.
Durante la crisi rivoluzionaria di fine ‘700 l’opzione politica inclina
repentinamente dal riformismo di matrice genovesiana, che resta
sostenitore di una monarchia moderata, all’estremismo repubblicano, che
lo avvicina a posizioni giacobine. Una parabola non priva di
contraddizioni ma comune a molti riformatori napoletani della seconda
generazione, tanto da spingere Cantimori ad affermare «che da un punto
di vista generale i giacobini sono illuministi che entrano in azione»
(50). Una tesi che, proprio per la sua generalità, ripropone la
querelle intorno all’identità del giacobinismo italiano, specie di
quello meridionale (51). Tale diatriba storiografica, tutt’altro che
risolta, non può essere oggetto del presente lavoro che intende, invece,
analizzare alcuni passaggi dell’itinerario del Delfico politico, per
meglio comprendere l’evoluzione del suo giudizio nei confronti del
processo rivoluzionario in atto in Francia e, di conseguenza, delle sue
scelte. In proposito è possibile individuare un mutamento dalla prima
lettura «ideologica» della Rivoluzione a una seconda strettamente
«politica» e attenta agli sviluppi di breve periodo. Punto di svolta si
può considerare il biennio 1793-94, quando a Napoli la monarchia
borbonica sceglie la via della repressione che, vanificando ogni
iniziativa di riforma, spinge l’intellettuale teramano a legare le sue
speranze di rinnovamento agli esiti della vicenda francese (52).
L’attenzione verso i fermenti pre-rivoluzionari si era manifestata in
uno scritto del 1785, Memoria sul tribunal della Grascia e sulle
leggi economiche nelle province confinanti del Regno in cui, pur nel
contesto di un discorso critico, si parlava diffusamente del ministro
Necker, «illustre scrittore» e «vero eroe» (53). Inoltre parole di
apprezzamento per l’opera del banchiere ginevrino, chiamato a Parigi per
salvare le finanze del regno, ricorrevano negli scambi epistolari
intercorsi in quegli anni fra Delfico e numerosi intellettuali italiani
schierati su posizioni «riformistiche» (54). L’azione del Necker veniva
interpretata strumentalmente e proiettata nella realtà italiana per
dimostrare l’urgenza di radicali innovazioni in campo economico. Di
contro l’illuminista teramano, che nel 1789 era entrato nel Supremo
Consiglio delle Finanze in sostituzione dello scomparso Filangieri,
incontrava forti resistenze nella propria azione antifeudale. All’amico
Fortis scriveva, in tono preoccupato e polemico, denunciando l’esistenza
di interessi baronali avversi a due iniziative rilevanti: la già
menzionata Memoria sul tribunal della Grascia che metteva sotto
accusa il sistema doganale tra Abruzzo e Stato Pontificio e la
Memoria de’ regi Stucchi (1787) che sollecitava l’abolizione o
riduzione di medievali «servitù» sul pascolo invernale (55). Si
comprende dunque che Delfico, di fronte ai tanti ostacoli frapposti ad
una politica di rinnovamento economico ed istituzionale, finisse per
vedere nella «Rivoluzione della Gallia… un esempio favorevole per i
Principi savj» (56), una impetuosa realizzazione del suo riformismo
«tecnico» (57) e, allo stesso tempo, una riprova della necessità di
attuarlo senza indugi anche in Italia. L’irruzione della rivoluzione
francese sulla scena europea «avrebbe potuto e dovuto favorire una più
ampia e ardita politica di riforma, e forse portare finalmente a
maturazione le questioni da tanto tempo sollevate e discusse» (58).
Una coraggiosa politica innovatrice poteva, dunque, sciogliere quei nodi
strutturali che in Francia la falce rivoluzionaria stava recidendo: «Chi
non sa quali e quanti erano i disordini della Francia, e che si trovava
oberata senz’essersi mai pensato ad alcuna salutare riforma?» (59). Va
detto che del sommovimento in atto si privilegiavano soltanto alcuni
aspetti come il ridimensionamento dei «ceti privilegiati» (60) e
soprattutto l’elaborazione della costituzione e delle nuove leggi. Il 6
novembre 1790 Delfico commentava con parole entusiastiche le decisioni
dell’Assemblea costituente: «Le notizie di fuori sono che la guerra va a
diventar generale e l’assemblea dopo aver decretata l’emissione degli
assegnati, la salute della Francia, la base reale della Costituzione, il
maggior riparo contro la controrivoluzione, ha cominciato ora a fare
delle divine disposizioni per le imposte territoriali. Siano benedetti!»
(61). Se è vero, come ha notato Venturi, che nelle Ricerche sul vero
carattere della giurisprudenza romana si stigmatizzava l’assenza di una
«stabile legislazione», di una costituzione come moderno strumento della
politica (62), si comprende allora che la vicenda costituzionale
francese possa rappresentare per il Nostro il supporto alle proprie
convinzioni. Col passare dei mesi però la Francia vive momenti convulsi
e traumatici che mettono a nudo problematiche ben più radicali di quella
costituzionale. Il pensatore teramano ne scrive lamentando, tra l’altro,
la frammentarietà delle notizie che giungono a Teramo: «… alcune
trascuraggini [sic!] cadute nella Costituzione, e l’aver dismessa
l’Assemblea Costituente affrettando delle risoluzioni che richiedevano
esame più maturo… mi fa aver non solo delle trepidazioni, ma mi
rattrista per i disordini giornalieri» (63). Nel turbamento che traspare
davanti al precipitare dello scontro politico, si può cogliere il senso
di una lettura del fenomeno rivoluzionario sostanzialmente moderata e in
questo simile all’analisi di altri illuministi meridionali che avevano
pensato di poter ricondurre la rivoluzione nello schema ideologico del
riformismo.. tale moderatismo e l’ottimistica valutazione delle novità
costituzionali, sono confermati in una missiva del natale 1792 con la
quale Fortis viene messo al corrente da Delfico dell’arrivo a Napoli di
una flotta francese (64). Le gravi conseguenze di questo episodio
sfuggono a Delfico che ben presto si scontrerà con l’arroccamento
reazionario dei sovrani di Napoli e con le persecuzioni dei sospetti
giacobini (65).
Nel 1793-94 il Teramano, pur non essendo coinvolto nei processi contro i
cospiratori napoletani, parla per la prima volta esplicitamente
dell’accusa di giacobinismo mossa nei suoi confronti. In una lettera del
7 novembre 1793 scrive da Teramo ad Alberto Fortis che «de’ malevoli di
Napoli fra quali il vescovo [Pirelli] in unione colla magistratura
[sic!] mi avevano formata la più estesa riputazione di
Giacobinismo»(66). La denuncia, evidentemente pretestuosa, sembra cadere
nel nulla ma il seme del sospetto finisce per dare qualche frutto nel
dicembre successivo quando Melchiorre Delfico, a seguito di una seconda
accusa anonima, non ottiene la presidenza della Società Patriottica di
Teramo in sostituzione del fratello. Formalmente contro di lui non
vengono presi provvedimenti ma la mancata nomina dimostra che le
autorità non sono state dl tutto convinte dalla sua autodifesa
improntata ad una linea di lealismo monarchico unito però alla coerente
rivendicazione dell’azione riformatrice (67). Il tono di questa
autodifesa è ormai inconciliabile con l’atteggiamento di chiusura
assunto dalla corte borbonica e dal ministro Acton. Risulta infruttuoso
nella primavera del 1794 un nuovo soggiorno a Napoli per perorare alcune
istanze legate ai privilegi feudali ed a richieste di carattere
personale. Nel confessare l’amarezza di queste giornate, afferma di
essere ormai convinto che non è più tempo «di promuovere certi oggetti,
e che si fa anzi male» (68). Poco più avanti si trova un riferimento
alle condanne contro i «rei di stato»: «Dei nove giudicati finora, uno
solo al patibolo, due a prigione perpetua, e gli altri a pena
temporanea. Forse le sentenze successive saranno più miti. L’Annibale
Giordano fu uno dei condannati a carcere perpetuo, ma non mi è
dispiaciuto punto, perché esso calunniò il povero Odazj… e fu causa
della di lui morte» (69). Agli occhi di Delfico il suicidio dell’atriano
Troiano Odazi si trasforma nel paradigma tragico della situazione
politica napoletana: un riformatore inquisito sulla base di confessioni
non provate, proclamatosi sempre innocente e, infine, spinto dalla
disperazione a togliersi la vita. Tra i due intellettuali esisteva un
legame affettivo e una profonda affinità culturale: Odazi, che nel 1781
era succeduto al Genovesi sulla cattedra universitaria, sostenendo la
causa dei moderni istituti economici, aveva accusato «quelli i quali
sono interessati a conservare le traccie di questa antica
amministrazione, a mantenere gli abusivi regolamenti che han perpetuato
la barbarie e l’ignoranza in questo genere nel nostro Regno…» (70). Ma
ora che la logica dei vecchi ceti dominanti sta prevalendo e il
movimento riformatore è sconfitto e perseguitato, al Nostro non resta
che lasciare precipitosamente la capitale del Regno ripromettendosi di
non andare più «verso Mezzogiorno, se non quando un cangiamento di
circostanze avrà resa la luce a questa plaga» (71). In questo distacco,
che è anche condanna politica della scelta repressiva di re Ferdinando,
risiede la svolta dell’atteggiamento delficino che non muterà fino
all’invasione francese. L’altro elemento nuovo consiste nell’ansiosa
ricerca di possibili soluzioni pacifiche del conflitto europeo; una pace
indissolubilmente legata alle fortune della Francia. «Chi volesse
profetizzare sul destino d’Italia – scrive a metà ottobre 1794 in una
delle ultime lettere da Napoli – potrebbe vedere anche in principio
d’Inverno repubblichizzato il Piemonte; ma il mio spirito sta confuso e
difficilmente s’immagina ciò che non desidera Tutti i miei pensieri sono
intorno alle speranze di pace, e sono scontento di me per non poterne
escogitare i mezzi sicuri» (72). E qualche giorno dopo, rientrato a
Teramo, aggiunge: «Io ho parlato per la pace fino all’imprudenza, ma i
tentativi fatti e dileguati nella morte di Robespierre non pare che
possano aprirci il cuore a nuove speranze» (75); quasi a voler
significare che la politica robespierrista aveva rappresentato un punto
di riferimento senza il quale la parabola rivoluzionaria diventa ancora
più indecifrabile. Tornato nell’ambiente teramano, Delfico articola
meglio l’analisi della fase politica condannando l’operato del ministro
Acton per la subalternità all’Inghilterra, confermando la sua
aspirazione «pacifista» e insieme i dubbi sul futuro: «Le idee della
convenzione non sembrano decise, e forse a questo contribuisce la
diversità dei partiti, ed anche delle opinioni nelle cose non essenziali
alla loro costituzione» (74). Avvicendamenti nel governo napoletano e
incrudimento della repressione, unitamente alla questione della pace,
restano negli scambi epistolari del 1795 gli argomenti centrali fino al
viaggio in Toscana; uno stato di cui apprezza la «neutralità» e dove gli
è possibile informarsi direttamente sui giornali transalpini. Può
stupire che al ritorno Delfico accetti l’incarico di organizzare gli
arruolamenti militari nella provincia e che addirittura a Sulmona renda
omaggio a re Ferdinando (75). C’è però da credere che le sue aspirazioni
fossero ben diverse se negli stessi giorni chiede di essere incluso
nella delegazione che, vista la travolgente avanzata delle armate
francesi in Lombardia, con tutta probabilità avrebbe dovuto negoziare la
pace (76). Un’intesa, raggiunta nel momento in cui la Grande Nazione è
vincente, viene considerata la condizione più favorevole per un
rinnovato impegno politico, consentendogli di rimanere fedele
all’originario convincimento che la Francia possa accettare il ruolo di
interlocutore non aggressivo in un processo di cambiamento. In questa
direzione vanno le parole di ammirazione per Sieyès, «il più gran
filosofo politico che abbia l’Europa» (77), l’ipotesi di ridurre
l’offensiva napoleonica in una gabbia diplomatica e la fideistica attesa
del nuovo codice destinato a diventare universale: «…sospiro il momento
di veder pubblicato il Codice della nuova Legislazione. Sarà
perfezionabile, ma sarà col tempo il Codice Universale… Sarà pur
possibile una Repubblica Democratica di 26 milioni, che pur non si
credeva» (78). Fra utopistiche speranze riposte nella politica italiana
del Direttorio e realistiche notazioni sulle operazioni militari
napoleoniche, si giunge al febbraio 1798 quando la nascita della
Repubblica Romana spinge l’Abruzzo nella spirale dell’invasione. Intanto
Delfico non si occupa più di arruolamenti, incarico che non ha svolto
con particolare entusiasmo, e viene nominato portolano della
città con responsabilità amministrative e di sanità pubblica rilevanti,
tenuto presente che Teramo è uno dei quartieri generali dell’esercito
borbonico. Questa posizione di vertice finisce per causare contrasti con
altre autorità locali quali il prèside della provincia, Gaspare de
Micheroux, e il comandante delle truppe Vincenzo Revertera, duca di
Salandra. Dei conflitti approfittano gli avversari del’illuminista
teramano costruendo l’ennesima trama accusatoria. L’occasione è fornita
dall’arresto, al confine con le Marche già occupate dai francesi, di una
domestica licenziata dalla famiglia Delfico. La donna viene trovata in
possesso di lettere compromettenti che le sarebbero state affidate da
due amici del pensatore, Eugenio Michitelli e Alessio Tulli, entrambi
sospetti di simpatie giacobine. Di qui l’accusa all’intera famiglia
teramana di guidare un complotto filo-francese e la prigionia nel
proprio palazzo che si protrarrà per circa tre mesi (79). La liberazione
giunge con l’arrivo della colonna francese a Teramo l’11 dicembre 1798 e
con la costituzione di una prima Municipalità presieduta da Melchiorre
Delfico. Ispirata ad uno spiccato lealismo monarchico è, al contrario,
la condotta del fratello Giamberardino che inizialmente rifiuta la
libertà donata dalle armi franco-cisalpine (80). Mostrando una coccarda
borbonica, sarà proprio lui a riportare la calma in città qualche giorno
dopo (19 dicembre), quando il popolo insorto e le masse scese dalla
montagna metteranno in fuga le modeste truppe transalpine. In questa
occasione il filosofo abruzzese è costretto a nascondersi per sfuggire
alla vendetta dei rivoltosi che si abbandonano al saccheggio delle
abitazioni di personalità in odore di giacobinismo. Opera pacificatrice,
ma di segno opposto, viene svolta dalla famiglia teramana il 23 dicembre
allorché i francesi riconquistano la città e si fanno convincere a non
attuare una dura rappresaglia (81). Da questo momento, come abbiamo già
visto, si sviluppa l’esperienza delficina nelle istituzioni
repubblicane; una militanza coerente fino alla conseguenza estrema
dell’esilio a San Marino.
La vicenda esistenziale e l’itinerario politico pongono Delfico in una
posizione originale sia nei confronti di quei riformatori «tecnici» che
operano a Napoli nella seconda metà del settecento, sia di quei
«patrioti abruzzesi» che vivono la crisi rivoluzionaria dall’interno del
governo repubblicano. Come palmieri e Galanti, il Teramano individua le
stridenti contraddizioni economiche del meridione e le storture
istituzionali che paralizzano ogni iniziativa innovatrice nel Regno
borbonico. Ma diversamente da loro, guarda con interesse e senza
sospetto alla rivoluzione dell’89 considerandola, anche nelle sue
improvvise radicalizzazione, l’unico punto di riferimento per rimettere
in moto una dinamica riformatrice. La sua esperienza si differenzia,
poi, da quella di Manthoné e di Pigliacelli che, come ministri
repubblicani, sono coinvolti in prima persona nel dibattito e nelle
contraddizioni che agitano il gruppo dirigente giacobino a Napoli.
Delfico invece resta lontano dalla capitale, isolato in una dimensione
periferica nella quale l’unica certezza è rappresentata dalla minaccia
della rivolta popolare (82). Questa emarginazione provinciale,
insieme ad una comune matrice culturale, lo assimila a personaggi quali
Berardo Quartapelle e Alessio Tulli, intellettuali teramani che per
lungo tempo avevano condiviso il riformismo delficino. Si può parlare di
un gruppo di riformatori-rivoluzionari (83), uniti fra il 1770 e il ’90
nell’opera di rigenerazione culturale della loro città, combattuti
dall’influente vescovo Pirelli per le scelte chiaramente «municipali» e
anti-curiali, impegnati nel ’99 a fianco dei francesi nelle nuove
istituzioni. Se il caso teramano appare esemplare di una
intellighenzia tardo-illuminista con forte caratterizzazione
politica, proficuamente l’analisi potrebbe essere estesa ad altre
«avanguardie» operanti nelle realtà urbane abruzzesi durante il convulso
tramonto del settecento (84). Di tale minoranza
riformistico-rivoluzionaria Melchiorre Delfico è la figura più
rappresentativa anche per il delicato ruolo istituzionale affidatogli:
per quattro mesi presiede il massimo organo repubblicano a Pescara,
impossibilitato a raggiungere Napoli dove pure è atteso per prendere
parte al governo partenopeo. Sul finire del gennaio 1799, appena entrato
nella capitale del Regno, il generale Championnet lo aveva nominato
membro della Rappresentanza Nazionale (85) e qualche giorno dopo sul
«Monitore» si poteva leggere: «E’ giunto jeri da Milano il
rappresentante Mario Pagano, noto come filosofo, e martire; si attende a
momenti da colà l’altro degno rappresentante Giuseppe Abbamonte; e dalle
nostre ex-provincie gli altri due non men degni Ignazio Ciaja, e
Melchiorre Delfico, al quale ultimo è riservato il luogo nel comitato
delle finanze, e per la nota sua perizia nella scienza economica ne
attende il Pubblico con impazienza l’arrivo» (86). L’impaziente attesa
viene delusa e inutilmente il commissario del governo francese Abrial lo
inserirà nella commissione esecutiva composta di cinque membri. Lo
stesso «Monitore» suggerisce la motivazione del mancato arrivo: «Varj
vetturini poi, ed altri che vengono da quelle parti [dall’Abruzzo],
annunciano per il contrario varj ricatti, carcerazioni ed omicidj de’
più degni Patrioti avvenuti in molte di quelle comuni. Si dicono
derubate le casse Pubbliche, arrestato in Chieti il Cittadino già Barone
Nolli (87), né si ha notizia del degno Rappresentante Melchiorre
Delfico» (88). Ma l’incalzare dell’insorgenza popolare, evocata sulle
pagine del giornale giacobino, diviene motivo di un pesante atto
d’accusa da parte del Teramano nei confronti del governo partenopeo. In
una lettera del 27 marzo 1799 (7 germinale anno VII), pubblicata ancora
sul «Monitore», Delfico denuncia l’abbandono della provincia nella
trappola controrivoluzionaria: «Voi ci avete non solo abbandonati, ma
quel ch’è peggio, obbliati. Da’ due Dipartimenti primogeniti vi mancano
le nuove e nulla avete fatto per sapere se esistevano. Le più ferali
tragedie si sono moltiplicate su tutta la superficie di queste contrade,
e invece di farci accrescere la forza vincitrice ed imponente, essa ci è
stata tolta. Le strade per la Centrale sono state occupate da’ briganti,
il corso della posta interrotto, e non si è spedito almeno un
distaccamento di Cavalleria, per mantener libera la circolazione colla
Centrale» (89). A questo punto il Nostro si sofferma sulle proprie
condizioni di isolamento: «Non prima della passata settimana io seppi
ufficialmente il mio destino fra voi, e voi non avete pensato a me. A
forza di supposizioni gratuite avete creduto che io potessi venire; ma
dovevate sapere che io non potevo muovermi, senza mettere a
pericolo la mia vita, che spero sia ancora cara agli amici, come
sicuramente è minacciata da’ malvaggi [sic!]» (90). In verità la stessa
pubblicazione delle recriminazioni delficine dimostra che i giacobini
napoletani sono ben coscienti della gravità della situazione creatasi in
Abruzzo, Puglia e Calabria. Fin dal febbraio ’99 l’insorgenza popolare
rappresentava una questione intorno alla quale il gruppo dirigente
partenopeo si interrogava e si divideva (91), fortemente condizionato
nelle scelte operative dalle esigenze dell’occupante francese. Il
«Monitore Napoletano» aveva ripetutamente riferito dell’intenzione del
governo di organizzare una campagna militare per consolidare l’autorità
repubblicana. Il progetto originario, condiviso dal generale Championnet,
prevedeva una spedizione verso la Calabria assumendo però una posizione
d’attesa affinché il generale Duhesme potesse completare la
pacificazione della Puglia. Di qui una parte delle forze transalpine
avrebbe dovuto risalire in Abruzzo seguendo la via litoranea. Ma il
piano aveva subito numerosi rinvii e ridimensionamenti fino a quando lo
scenario politico a Napoli era mutato per la sostituzione, decisa dal
Direttorio, di Championnet col suo luogotenente Macdonald, più
accondiscendente alle direttive parigine. Il trapasso dei poteri,
seguito da un largo avvicendamento di ufficiali al comando delle truppe,
aveva ridato fiato alla ribellione popolare che aveva riconquistato
molte città.
Assediato nel suo osservatorio e in possesso di informazioni
frammentarie, Delfico giudica inspiegabile l’inattività del governo
napoletano e al Fortis conferma il suo isolamento nella lettera, già
analizzata, che precede di pochi giorni l’abbandono della città-fortezza
al seguito dell’esercito francese (92). Le parole del pensatore teramano
rappresentano la più esplicita e lucida confessione dello stato di
estrema precarietà in cui operano i rivoluzionari nelle province del
Regno (93) e, per le precise accuse rivolte ai giacobini di Napoli,
sembra adombrare quella contraddizione città-campagna che la
speculazione gramsciana considererà essenziale spartiacque tra il
processo rivoluzionario in Francia e la formazione dello stato unitario
in Italia (94). Se nel ’93 a Parigi il Comitato di Salute Pubblica aveva
reagito all’aggressione esterna e all’insurrezione vandeana accogliendo
le rivendicazioni popolari; nel ’99 a Napoli i rivoluzionari italiani,
così come accadrà per i loro eredi risorgimentali, entrano in contrasto
proprio sulla legge eversiva della feudalità che, dissolvendo l’antica
proprietà terriera, poteva rappresentare il momento di saldatura con le
istanze contadine. Analizzata in rapporto ai precedenti passaggi del
pensiero delficino, la requisitoria contro il governo partenopeo appare
come la riproposizione, in un mutato contesto storico-politico, del
conflitto capitale-provincia già evidenziato, nelle prime opere e
coerentemente vissuto dalla parte della periferia fin agli anni
della cosiddetta «rinascenza teramana» (95). Nel 1793 l’arretratezza dei
sistemi agricoli nella sua provincia era stata all’origine di uno dei
più efficaci scritti economici dedicato alla coltivazione del riso (96).
In queste pagine s’intrecciano «una profonda, umana reazione di fronte
alla misera vita dei contadini con la lucida coscienza politica di quale
fosse la radice essenziale di tanti mali… l’inefficienza dello stato,
del tutto inadatto, organicamente impotente anzi a lottare contro le
piaghe secolari del paese» (97). All’interno dell’apparato burocratico e
corrotto già si individuano responsabilità specifiche dei «bassi
uffiziali della giustizia» e, più in generale, dei ceti parassitari che
prosperavano a Napoli, capitale-megalopoli privilegiata e improduttiva.
Tale polemica diventa centrale nelle Ricerche sul vero carattere
della giurisprudenza romana, dove il rifiuto dell’antico sistema
normativo si lega alla contestazione di Roma quale simbolo negativo
della capitale (98). «Una capitale è sempre un male, e tanto maggiore,
quando essa è sproporzionatamente più grande» (99), osserva il Teramano
riferendosi alla realtà napoletana, una delle città più grandi d’Europa
che con oltre quattrocentomila abitanti rappresentava l’8% dell’intera
popolazione del Regno potendo contare però su ridotte attività
commerciali e industriali. Posta con nettezza nel periodo dell’impegno
riformistico, l’esigenza di un riequilibrio economico della società a
favore della provincia verrà ribadita negli scritti ottocenteschi,
divenendo uno dei fili conduttori del pensiero delficino (100).
Negli ultimi anni della sua vita Delfico accarezza l’idea della
creazione di un importante polo commerciale sulla costa adriatica per
rilanciare le attività produttive in questa zona ancora emarginata del
Regno. In proposito scriverà la Fiera franca in Pescara (1823) e
il Breve cenno sul progetto di un porto da costruirsi alla foce del
fiume Pescara (1825), due opuscoli interessanti per il taglio
economico liberista e per la fiducia in provvidenziali interventi
innovatori dall’alto (101). Nella Fiera franca riemerge
l’avversione ad un sistema economico stretto da lacci vincolistici e si
propone in alternativa una visione competitiva del commercio attraverso
la realizzazione di un grande mercato costiero in cui possano affluire
prodotti provenienti anche dall’esterno del regno senza imposizione del
dazio d’importazione. Per tale via si potrebbero bloccare, superando le
vecchie barriere fiscali, i flussi commerciali che dall’Abruzzo si
dirigono per convenienza verso i mercati dello Stato Pontificio (102).
«Così queste province, che ora scarseggiano in fabbriche, manifatture ed
arti, saranno pur contente nel veder migliorare ed accresciute quelle
che vi sono, per soddisfare senz’aiuto straniero ai nazionali bisogni. E
l’accrescimento delle opere d’industria, portando quello della
popolazione, i prodotti dell’agricoltura andranno pure all’aumento cui
le forze dell’industria e della natura debbono condurli» (103); efficaci
notazioni utilizzate per dimostrare come «una semplice operazione
economica» possa innescare un generale processo di sviluppo in una vasta
area del paese. Trattando delle caratteristiche della Fiera franca
si accenna all’opportunità di creare uno scalo marittimo a Pescara
(104), problematica poi sviluppata nel Breve cenno. E’,
quest’ultimo, un contributo più tecnico rispetto al precedente e ricco
di indicazioni di ingegneria portuale ma sempre ancorato al
convincimento che l’uomo, grazie alle risorse del suo intelletto, possa
creare le condizioni per un crescente benessere sociale. Nell’ottica di
valorizzazione della provincia vanno ricordate le argomentazioni con cui
si sostiene la scelta del sito pescarese (105): centrale rispetto alle
principali arterie viarie del Regno, protetto da una fortezza militare,
segnato da una lunga storia che fin dall’epoca romana testimonia la
presenza di un porto commerciale col nome di Ostia Aterni (106). Se la
contrapposizione delficina tra capitale e provincia non assume il
carattere eversivo del conflitto giacobino fra città e campagna, va pur
detto che la battaglia di Melchiorre Delfico a favore della provincia
abruzzese rappresenta un elemento forte e preponderante del suo pensiero
politico. Tenendo fede ad un lontano impegno di militanza (107), il
filosofo teramano si fa interprete di bisogni presenti e futuri della
società civile, imponendosi come esponente di spicco di un nuovo ceto
politico ansioso di governare i tumultuosi mutamenti che vanno
realizzandosi fa settecento e ottocento. |
_______________ |
(1)
Gabriele Manthoné (Pescara 1764-Napoli 1799), ufficiale
dell’esercito napoletano dopo la rovinosa ritirata del ’98 e
la fuga del re, si legò alla causa repubblicana. Dopo aver
organizzato la Guardia Nazionale a Napoli, fu nominato
Ministro della Guerra, carica che conservò fino alla
capitolazione. Giorgio Pigliacelli (Tossicia 1751-Napoli
1799) fu Ministro di Grazia, Giustizia e Polizia nel governo
repubblicano. Oltre a loro furono giustiziati Colombo
Andreassi (Villa S.Angelo 1770-Napoli 1799) che fu a capo
della Guardia Civica e Michelangelo Ciccone (Morrodoro
1751-Napoli 1800) sacerdote giacobino, autore di un
interessante giornale in dialetto napoletano «La Repubblica
spiegata co’ lo santo Evangelio».
(2) Sul «Monitore Napoletano», a. I, n. 2, 17
piovoso anno VII (5 febbraio 1799), leggiamo: «Si è ricevuto
già da cinquecento comuni l’avviso della loro
democratizzazione, e riunione alla centrale». Cfr. Eleonora
DE FONSECA PIMENTEL, Il Monitore repubblicano del 1799.
Articoli politici seguiti da scritti vari in versi e in
prosa della stessa autrice, a cura di Benedetto CROCE,
Bari 1943, p. 19; una nuova edizione critica è stata curata
da Mario Battaglini che ha, tra l’altro, accertato
l’esistenza di due diverse edizioni del giornale; cfr. Il
Monitore Napoletano 1799, a
cura di M. BATTAGLINI, Napoli 1974, p. 42 (a quest’ultimo
testo faremo riferimento nelle successive citazioni). A
parte il dato certamente eccessivo dei comuni
democratizzati, c’è da osservare che in quel momento la
maggior parte di essi si trovava in Abruzzo. Per una
ricostruzione del biennio giacobino nella regione resta
fondamentale l’opera di Luigi COPPA-ZUCCARI,
L’invasione francese negli Abruzzi (1798-1810), vv. I e
II, L’Aquila 1928; vv. III e IV, Roma 1939, monumentale
raccolta di fonti che prende le mosse da due memorie allora
inedite: quella del lancianese Uomobono delle Bocache e
quella del teramano Angelo de Jacobis.
(3) La Relazione a Sua Maestà del
visitatore di giustizia Ignazio Ferrante, e suo assessore De
Giorgio, riguardo alla decision della causa de’ pretesi rei
di Stato di Chieti e risulta di Sua Maestà dietro detta
relazione è una delle fonti più utilizzate dagli
studiosi ed è stata integralmente ripubblicata da L.
COPPA-ZUCCARI, L’invasione francese, cit., v. II, pp.
644-73.
(4) I Notamenti dei rei di Stato del
brigadiere Francesco Marescotti, prèside di Chieti, e del
colonnello Giovan Battista Rodio, Prèside di Teramo, vengono
segnalati per la prima volta da Egildo Gentile e Giovanni de
Cesaris nel 1931; cfr. E. GENTILE, Qualche fonte inedita
per la storia degli Abruzzi del periodo della prima
invasione francese; G. DECAESARIS, Alcuni rei di
Stato della provincia di Teramo del 1799,
in "Atti e Memorie del Convegno storico abruzzese-molisano",
Casalbordino 1933, pp. 237-47 e pp. 723-51. Ancora di G. De
Cesaris, Notamento generale de’ rei di Stato della
provincia di Chieti del 1801,
in "Rassegna storica del Risorgimento", a. XV, 1937, fasc.
I, pp. 93-5. Distrutti nel corso del secondo conflitto
mondiale insieme ad altri documenti dell’Archivio di Stato
di Palermo, sono giunti fino a noi grazie ad una copia in
possesso di L. COPPA-ZUCCARI, Notamento dei rei di
Stato di Chieti e Teramo, Teramo 1962, cui faremo
riferimento nelle successive citazioni. Nuovi elementi sui
giacobini di Chieti sono recentemente venuti dal saggio di
Giuseppe F. DE TIBERIIS, Processo ai giacobini di Chieti
(1799-1800), in "Rassegna Storica del Risorgimento", a.
LXXIV, 1987, n. 1, pp. 3-49.
(5) Cfr. L. COPPA-ZUCCARI, L’invasione
francese, cit., v. II, pp. 104-6.
(6) Cfr. Claudia PETRACCONE,
Rivoluzione e proprietà: i repubblicani
abruzzesi e molisani nel 1799,
in "Archivio Storico per le Province Napoletane", a. XXI,
1982, terza serie, v. XXI, p. 203.
(7) Sull’azione riformatrice del Teramano
alla fine del settecento si veda Franco VENTURI,
Illuministi italiani, t. V; "Riformatori Napoletani",
Milano-Napoli 1962, pp. 1159-267 e Il movimento
riformatore degli illuministi meridionali, in "Rivista
Storica Italiana", a. LXXIV, 1962, fasc. 1, pp. 5-26;
Vincenzo CLEMENTE, Rinascenza teramana e riformismo
napoletano (1777-1798), Roma 1981; Pasquale VILLANI,
Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Bari 1973.
(8) Luigi Maria Pirelli fu vescovo di Teramo
dal 1777 al 1804 e si contrappose tenacemente all’intellighentia
illuministica legata alla famiglia Delfico.
(9) Cfr. L. COPPA-ZUCCARI, Notamenti,
cit., p. 79.
(10) Ivi, pp. 297-8.
(11) Va detto che il periodo pescarese per
lungo tempo è stato quasi ignorato dai biografi delficini
che ne hanno generalmente fornito una ricostruzione
lacunosa. Una prima sottolineatura è venuta da Raffaele
PERSIANI, Alcuni ricordi politici nella massima parte
abruzzesi al cadere del XVIII e principio del XIX secolo con
documenti e note, in "Rivista Abruzzese", a. XVIII,
1903, fasc. 6, pp. 310-1 e di recente da V. Clemente,
Rinascenza teramana, cit., pp. 18-22 e ss. Per una
ricognizione critica degli studi delficini cfr. Gabriele
CARLETTI, Recuperi oblii e prospettive. Per una storia
critica della storiografia delficina, in questo stesso
fascicolo pp. 5-40.
(12) Il Masci riferisce di ribelli che nel
teramano intercettano alcuni corrieri e si impadroniscono
dei tributi di guerra destinati a Pescara. Cfr. Filippo
MASCI, Gabriele Manthoné, discorso pronunciato in Pescara,
Casalbordino 1900, p. 85. Recentemente Mario Battaglini ha
sostenuto la tesi dell’esistenza di un’autonoma Repubblica
Abruzzese con capitale a Pescara; cfr. M. BATTAGLINI,
Abruzzo 1798-1799. Una Repubblica giacobina, conferenza
tenuta il 22.11.1986 a Pescara, in corso di pubblicazione.
(13) Cfr. L. COPPA-ZUCCARI, L’invasione
francese, cit., v. II, pp. 755-63. Oltre alla preziosa
opera del Coppa-Zuccari, si può far ricorso all’appendice
dedicata ai Due assedii di Pescara di F. Masci in
Gabriele Manthoné, cit., pp. 75-118 e il volume di Luigi
LOPEZ, Pescara dalla Vestina Aterno al 1815, pp.
187-254. Sulla sottovalutazione storiografica della realtà
abruzzese cfr. Fabrizio MASCIANGIOLI, La storiografia sul
1799 in Abruzzo e il "caso" della resistenza di Pescara,
relazione svolta al convegno "Intellettuali e società in
Abruzzo fra le due guerre", L’Aquila 17-19 ottobre 1985, in
corso di pubblicazione.
(14) Cfr. L. LOPEZ, Pescara, cit., p.
116 e ss.
(15) Cfr. Laura TOSSINI, Una lettera
inedita di Melchiorre Delfico a Michele Torcia, in "Nord
e Sud", a. XXIV, 1977, terza serie, nn. 31-2, p. 196.
(16) Cfr. L. LOPEZ, Pescara, cit., pp.
190-1.
(17) Una copia manoscritta del Catasto
del 1721 è custodita nella Biblioteca Provinciale di Pescara
"G. D’Annunzio". Si tratta del terzo accertamento catastale
deciso dai D’Avalos, marchesi di Pescara e del Vasto, per
verificare l’accresciuta consistenza urbana della città e,
di conseguenza, fissare le relative rendite. Per un
approfondimento della dinamica demografica e della
situazione fondiaria vedi Ottone FODERA’, Cenni storici
sul rilevamento fondiario nella città e territorio di
Pescara, estratto da "Rivista del Catasto e dei Servizi
Tecnici Erariali", Roma 1951, pp. 14-6.
(18) Cfr. L. TOSSINI, Una lettera,
cit., p. 196. Una conferma dell’importanza strategica di
Pescara viene dall’inedita memoria di Giuseppe Mucciarelli
che scrive durante l’occupazione francese; cfr. L.
COPPA-ZUCCARI, L’invasione francese, cit., v. II, p.
512.
(19) Cfr. L. COPPA-ZUCCARI, L’invasione
francese, cit., v. I, pp. 784-5, in cui si rinvia ad un
ampio stralcio delle memorie scritte dallo stesso ufficiale
francese; Paul THIEBAULT, Memoires du général Baron
Thiebault publiés sous les auspicies de sa fille
Mademoiselle Claire Thiebault d’apreès le manuscrit original
par Fernand Calmettes, Paris 1894. Sull’episodio vedi
anche Niccolò RODOLICO, Il Popolo agli inizi del
Risorgimento nell’Italia meridionale (1798-1801),
Firenze 1926, p. 68.
(20) Cfr. L. COPPA-ZUCCARI, L’invasione
francese, cit., v. I, p. 57.
(21) Ivi, v. I, pp. 65-6 e 798-9.
Rispetto al precedente proclama restano immutati i poteri
del Consiglio mentre si precisano le procedure decisionali.
(22) Antonio Madonna (Lanciano 1763-1848),
avvocato di buona fama, si avvicinò presto agli ambienti
massonici. Nel 1799 seguì i francesi nella ritirata verso
Milano e fu bibliotecario dell’Accademia di Brera. Tornò
agli impieghi pubblici nel periodo napoleonico e nel 1820
s’impegnò nel movimento costituzionale. Cfr. R. PERSIANI,
Alcuni ricordi, cit., fasc. 7, pp. 350-1.
(23) Carlo Filippo de Berardinis (Lanciano
1754 – Chieti 1831), amico di Antonio Madonna, anch’egli
studiò diritto e fu presto iniziato alle idee massoniche.
Nel periodo napoleonico fu giudice criminale a Chieti e
presidente di tribunale a Teramo e a L’Aquila. Dopo i moti
del ’20 si ritirò a vita privata. Cfr. R. PERSIANI,
Alcuni ricordi, cit., fasc. 7, pp. 351-2.
(24) Giuliano Crognale (Castelfrentano
1770-1862), artista più che politico, ebbe l’incarico di
segretario del Consiglio Supremo dal Coutard, che si
entusiasmò delle sue miniature. Nel giugno ’99 fu catturato
dal capomassa Fioravante Giordano al quale, per salvarsi,
dedicò un poemetto dal tono decisamente anti-francese.
Incluso dal visitatore Ferrante fra i principali "rei di
Stato", fuggì a Fermo dove rimase fino all’amnistia. Cfr. R.
PERSIANI, Alcuni ricordi, cit., fasc. 7, pp. 352-5.
(25) Ivi, a. XVII, fasc. 7-8, 1902,
pp. 435-42. Il testo delle leggi è stato poi esaminato da L.
COPPA-ZUCCARI, L’invasione francese, cit., v. I, p.
66 n. e pp. 799-800; v. II, pp. 884-7. della legge
sull’indulto parla Delfico in una sua Memoria, che
esamineremo più avanti; e il Comandante in Capo, Coutard, in
un documento diretto ai repubblicani di Vasto; cfr. M.
BATTAGLINI, Atti, leggi, proclami ed altre carte della
Repubblica napoletana 1798-1799, Napoli 1983, v. II, p.
1359.
(26) Ivi, v. II, p. 884.
(27) Il testo è riprodotto in Melchiorre
DELFICO, Opere complete, a cura di Giacinto PANNELLA
e Luigi SAVORINI, Teramo 1901-1904, v. I, pp. 3-85. Il nesso
tra eguaglianza e libertà si era cominciato a delineare già
un anno prima nel Saggio filosofico sul matrimonio,
che fu messo all’Indice. Ora in Opere, cit., v. III,
pp. 85-143.
(28) Cfr. F. VENTURI, Illuministi,
cit., pp. 1163-5.
(29) Cfr. Opere, cit., v. I, p. 49.
(30) La concezione moderata dell’eguaglianza,
finalizzata più al ridimensionamento che all’annullamento
delle disparità sociali, viene riaffermata in scritti
successivi anche in polemica con le convulsioni
rivoluzionarie della Francia. Nelle Riflessioni su la
vendita dei feudi (1790) si parla di "frenetica
uguaglianza che getta le società negli orrori
dell’anarchia"; cfr. Opere, cit., v. III, p. 409.
(31) Sull’egualitarismo delficino come
premessa dell’azione antifeudale insiste C. PETRACCONE,
Rivoluzione e proprietà, cit., pp. 205-6.
(32) Edito a Napoli nel 1791 e più volte
ristampato, lo scritto si trova in Opere, cit., v. I,
pp. 93-227.
(33) Ivi, p. 225.
(34) La lettera è riportata da F. VENTURI,
Illuministi, cit., p. 1176. Su questo aspetto cfr. anche
Mario AGRIMI, La vicenda rivoluzionaria e le riflessioni
sulla storia: Melchiorre Delfico, in "Itinerari", a.
XXIII, 1984, n. 3, nuova serie, p. 83 e Anna Maria RAO,
Napoli e la Rivoluzione (1789-1794), in "Prospettive
Settanta", a. VII, 1985, nn. 3-4, p. 459.
(35) Cfr. Opere, cit., v. I, p. 103.
(36) La lettera ad Alberto Fortis, inviata da
Napoli il 5 luglio 1791, è pubblicata da Maria Gabriella
RICCOBONO, Contributo per l’epistolario di Melchiorre
Delfico, in "La Rassegna della Letteratura Italiana", a.
LXXXVII, 1983, n. 3, p. 412.
(37) Cfr. L. COPPA-ZUCCARI, L’invasione,
cit., v. II, p. 884.
(38) Ivi, p. 886.
(39) Per un’analisi dell’assetto
giurisdizionale repubblicano cfr. M. BATTAGLINI,
L’amministrazione della Giustizia nella Repubblica
Napoletana, in "Rassegna storica del Risorgimento", a.
LXXII, 1985, fasc. 3, pp. 147-70 e in maniera ancor più
approfondita nella citata conferenza di Pescara. Vedi anche
a. M. RAO, L’ordinamento e
l’attività giudiziaria della Repubblica Napoletana del 1799,
in "Archivio Storico per le Province Napoletane", a. XII,
terza serie, 1974, pp. 73-145, in particolare le pp. 87-8 in
cui si fa riferimento al Piano di giustizia preparato dal
Delfico.
(40) Cfr. R. PERSIANI, Alcuni ricordi,
cit., p. 442.
(41) Nella missiva, spedita da Teramo,
Delfico precisa di aver scritto all’amico altre due lettere
"colla nuova formula Repubblicana" e sintetizza le proprie
vicissitudini dall’ingresso a Teramo dei francesi
all’insediamento a Pescara. Cfr. Saggio dell’Epistolario,
cfr. Opere, cit., v. IV, pp. 112-3.
(42) Cfr. Giovanni DE CAESARIS, Melchiorre
Delfico (nel primo centenario della sua morte), in "Atti
del XXIII Congresso di Storia del Risorgimento Italiano",
Roma 1940, p. 93.
(43) Cfr. Monitore, cit., pp. 619-20 e
n.
(44) La Memoria autografa, senza
precisa intestazione, fa parte del Fondo Delfico, busta
inediti, n. 417, in via di definitiva sistemazione da parte
della Biblioteca Provinciale di Teramo "Melchiorre Delfico".
Il manoscritto è composto di due blocchi fi fogli cuciti fra
loro per un totale di ventitré fogli scritti su una sola
colonna.
(45) Cfr. Memoria, cit., p. 1. La
parte preponderante del documento è dedicata alla minuta
ricostruzione delle vicende teramane nel 1798-99.
(46) "Tale operazione di ricucitura",
commenta il Clemente, sarà poi ripetuta da Delfico in altri
scritti e finirà per condizionare i primi biografi del
pensatore. Cfr. V. CLEMENTE, Rinascenza teramana,
cit., p. 18.
(47) Cfr. Memoria, cit., p. 63.
(48) Ivi, p. 67.
(49) Tale versione delficina si differenzia
da quella del suo maggiore biografo cfr. Gregorio DE
FILIPPIS DELFICO, Conte di Longano, Della vita e delle
opere di Melchiorre Delfico. Libri due, Teramo 1836, pp.
51-2, in cui si parla dell’aggressione e del furto del
bagaglio da parte del popolo in rivolta mentre Delfico si
sta imbarcando alla volta delle Marche. De Filippis Delfico
ha continuato l’opera col titolo Notizie intorno alle
opinioni filosofiche ed alle opere di Melchiorre Delfico
in "Giornale Abruzzese di Scienze, Lettere ed Arti", a. VI,
1841, v. XVIII, n. 44, pp. 147-73; a. VII, 1843, v. XXI, n.
63, pp. 129-53 e v. 66, pp. 163-71.
(50) Cfr. Delio CANTIMORI, Illuministi e
giacobini, in La cultura illuministica in Italia,
a cura di M. FUBINI, Torino 1957, p. 271.
(51) Per una efficace ricognizione di questo
dibattito cfr. Ivan TOGNARINI, Giacobinismo, rivoluzione,
Risorgimento. Una messa a punto storiografica, Firenze
1977 e Giuseppe GALASSO, I giacobini meridionali, in
"Rivista storica italiana", a. XCVI, 1984, fasc. 1, pp.
69-104.
(52) Cfr. M. G. RICCOBONO, Contributo,
cit., p. 400. Sull’evoluzione politica in senso radicale di
Delfico si sofferma anche Armando DI NARDO, Storia e
scienza in Melchiorre Delfico, Chieti 1978, pp. 83-5.
(53) Cfr. Opere, cit., v. III, pp.
267-323.
(54) Ivi, v. IV, p. 145; in una
lettera del 1789 inviata dallo Spannocchi al Teramano si può
leggere: "Che cosa dite dei Francesi? Danno de’ bei colpi al
Despotismo e l’assemblea può finire tranquillamente il suo
lavoro, tutta l’Europa ne sentirà in breve l’influenza.
Anche i vostri due regni parteciperanno di questo benigno
influsso e voi sarete il Neker [sic!] della nazione". Vedi
anche A. M. RAO, Napoli, cit., pp. 410-3.
(55) La lettera, inviata da Ascoli il 14
settembre 1788, si trova in Epistolario di Melchiorre
Delfico a San Marino, a cura di Angelo LETTIERI, Teramo
1985, p. 18. Parlando di un probabile incontro a Teramo col
visitatore Codronchi, Delfico osserva: "Temo forse che sia
stato spedito in Abruzzo ad oggetto principalmente di
rovesciare il bene che ho procurato di farci, e che mi è
costato tanta pena e fatiga che è l’abolizione della Grascia
e la riduzione dei Stucchi…".
(56) Cfr. V. CLEMENTE, Rinascenza teramana,
cit., p. 312.
(57) L’espressione fa riferimento alle
argomentazioni di F. VENTURI, nell’Introduzione
all’opera Illuministi, cit., pp. XV-XVI.
(58) Ivi, p. 1176 che in questa
posizione accomuna Delfico a Galanti. Vedi anche a. M. RAO,
Napoli, cit., pp. 412 e ss.
(59) Cfr. V. CLEMENTE, Rinascenza teramana,
cit., p. 312.
(60) Ibidem.
(61) Cfr. M. G. RICCOBONO, Contributo,
cit., p. 409.
(62) F. VENTURI, Illuministi cit.,
p. 1178.
(63) Cfr. M. G. RICCOBONO, Contributo,
cit., p. 398 e V. CLEMENTE, Rinascenza teramana, cit.,
p. 391.
(64) Cfr. M. G. RICCOBONO, Contributo,
cit., pp. 397-8. Sull’episodio e sulle implicazioni politiche
si veda Nicola NICOLINI, La spedizione punitiva del
Latouche-Tréville (16 dicembre 1792) ed altri saggi sulla
vita politica napoletana alla fine del secolo XVII,
Firenze 1939.
(65) Il pesante clima repressivo viene
descritto con efficacia dal Colletta: "Esposti più d’ogni
altro all’ira del Governo e alle trame delle spie erano i
dotti e i sapienti… I libri di Filangieri furono sbanditi, e
in Sicilia bruciati, il Pagano, il Cirillo, il Delfico, il
Conforti erano mal visti e spiati; cessarono ad un tratto le
riforme di Stato…". Cfr. Pietro COLLETTA, Storia del
Reame di Napoli dal 1735 al 1825, Capolago 1834, t. I,
lib. III, pp. 254-5.
(66) Parte di questa famosa lettera è stat
pubblicata per la prima volta nelle Opere, cit., v. IV,
pp. 108-10. Poi è stata oggetto di un’ampia analisi da parte
di V. CLEMENTE, , Rinascenza teramana, cit., p. 451 e
M. G. RICCOBONO, Contributo, cit., pp. 413-6.
(67) Cfr. V. CLEMENTE, , Rinascenza
teramana, cit., pp. 452-5.
(68) Ivi, p. 463. Lo sfogo epistolare
è diretto all’amico Fortis ed è datato Napoli, 23 settembre
1794.
(69) Ivi, pp. 463-4. Un frammento, con
data 25 settembre, si può leggere in Opere, cit., v.
IV, p. 110.
(70) Cfr. M. AGRIMI, La vicenda
rivoluzionaria, cit., p. 85.
(71) Lettera inviata al Fortis da Napoli il
14 ottobre 1794 in V. CLEMENTE, , Rinascenza teramana,
cit., pp. 464.
(72) Ibidem.
(73) Ivi, p. 465. Clemente data questa
lettera al Fortis 26 ottobre 1794 mentre la Riccobono,
Contributo, cit., p. 416, la ritiene spedita il 28
ottobre. Un breve stralcio si trova in Opere, cit.,
v. IV, pp. 110-1, datato 24 ottobre
(74) Lettera al Fortis del 4 novembre 1794 in
M. G. RICCOBONO, Contributo, cit., pp. 417-8; già
parzialmente pubblicata in Opere, cit., v. IV, pp.
111-2.
(75) Cfr. G. DE FILIPPIS DELFICO, Della
vita, cit., p. 47.
(76) Cfr. V. CLEMENTE, , Rinascenza
teramana, cit., pp. 470-1.
(77) Ibidem. Lettera a Fortis, che si
trova a Parigi, del 20 dic. 1796.
(78) Lettera a Fortis del 7 gennaio 1797 in
M. G. RICCOBONO, Contributo, cit., p. 419.
(79) Sull’episodio vedi, tra gli altri, Carlo
CAMPANA, Un periodo di storia di Teramo e Della
scienza e delle lettere in Teramo, Teramo, 1911, p. 14 e
n.
(80) Su questo diverso atteggiamento insiste
V. CLEMENTE, , Rinascenza teramana, cit., pp. 478-81.
(81) Per le tumultuose vicende teramane di
fine secolo si veda l’ampia ricognizione storiografica,
corredata da documenti, di L. COPPA-ZUCCARI, L’invasione
francese, cit., v. I, pp. 719-35; 740-2.
(82) In proposito Cuoco osserverà "… il
governo nelle provincie era muto, né più si udiva la sua
voce". Cfr. Vincenzo CUOCO, Saggio storico sulla
rivoluzione napoletana del 1799, Milano 1820, p. 163.
Per un quadro d’insieme del fenomeno dell’insorgenza nella
regione si veda Raffaele COLAPIETRA, Le insorgenze di
massa nell’Abruzzo in età moderna, in "Storia e
politica", a. XX, 1981, fasc. 1, pp. 1-46 e Umberto DANTE,
Insorgenza ed anarchia. Il Regno di Napoli e l’invasione
francese, Salerno 1980.
(83) In proposito si veda l’efficace analisi
della Petraccone tendente ad individuare l’identità di
classe di questi personaggi. Cfr. C. PETRACCONE,
Rivoluzione proprietà, cit., pp. 199-214 e ss.
(84) Alla presidenza dell’amministrazione
centrale a Chieti si insediò in un primo tempo Antonio Nolli,
di cui ci occuperemo più avanti, e poi Pietro de Sterlich,
aristocratico "illuminista" amico del Beccaria. Condannato
ad otto anni di esilio, tornò sulla scena politica nel
periodo napoleonico. Cfr. L. COPPA-ZUCCARI, L’invasione
francese, cit., v. I, p. 949. Altra figura di spicco
nell’ambiente teatino è quella del vescovo Francesco Saverio
Bassi (1745-1821), uno dei pochi "preti giacobini" in
Abruzzo. Nel ’99 fece leggere durante le funzioni religiose
brani del filosofo francese Mably, che era stato proibito da
re Ferdinando, e nei primi anni dell’ottocento mostrò
comprensione verso le cospirazioni carbonare. Cfr. Beniamino
COSTANTINI, Moti d’Abruzzo dal 1798 al 1860 e il Clero,
in "Rassegna di Storia e d’Arte d’Abruzzo e Molise", a. III,
1927, fasc. 1, nn. 1-2, pp. 22-9. A Pescara tra i "rei di
Stato" è citato anche il giovanissimo Giuseppe de Thomasis
(1767-1830) che fu "autore di un piano di politica sparso di
Massime Repubblicane", cfr. L. COPPA-ZUCCARI, Notamenti,
cit., p. 66. Discepolo del Galiani, il De Thomasis s’impegnò
nell’azione antifeudale nel periodo napoleonico.
(85) Monitore, cit., p. 22.
(86) Ivi, pp. 34-5 n.
(87) Antonio Nolli (1755-1830) nominato dal
generale Duhesme prima capo della Municipalità di Chieti e
poi Presidente dell’amministrazione centrale, non fu mai
arrestato ma sostituito nella carica. Come Delfico, fu
chiamato a Napoli senza poter recarvisi. Cfr. L.
COPPA-ZUCCARI, L’invasione francese, cit., v. I, pp.
1101-2.
(88) Monitore, pp. 98-9 e n.
(89) Ivi, p. 695 (in cui si evidenzia
che la lettera è riportata soltanto nell’edizione del
giornale pubblicata dal Croce).
(90) Ivi, p. 696.
(91) In proposito cfr. M. BATTAGLINI nella
sua introduzione al Monitore cit., pp. XXXI-XXXIII.
(92) Cfr. Saggio dell’Epistolario,
Opere, cit., v. IV, pp. 112-3.
(93) Cfr. C. PETRACCONE, Rivoluzione
proprietà, cit., p. 204.
(94) Nel suo primo Quaderno Antonio Gramsci
osserva: "Il Partito d’Azione segue la tradizione ‘retorica’
della letteratura italiana. Confonde l’unità culturale con
l’unità politica e territoriale. Confronto tra giacobini e
Partito d’Azione: i giacobini lottarono strenuamente per
assicurare il legame tra città e campagna; furono sconfitti
perché dovettero soffocare le velleità di classe degli
operai". Cfr. A. GRAMSCI, Quaderni del Carcere, a
cura di Valentino GERRATANA, Torino 1975, p. 43.
(95) Assai efficacemente Venturi definisce il
Teramano "uno dei più veramente cosmopoliti e dei più
autenticamente provinciali tra i riformatori meridionali nel
secondo Settecento". Cfr. F. VENTURI, Illuministi,
cit., p. 1161.
(96) La Memoria sulla coltivazione del
riso nella provincia di Teramo, Napoli 1783, si trova in
Opere, cit., v. III, pp. 183-217.
(97) Cfr. F. VENTURI, Illuministi,
cit., p. 1168-9.
(98) Cfr. M. AGRIMI, La vicenda
rivoluzionaria, cit., p. 91.
(99) Cfr. Opere, cit., v. I, p. 216.
(100) Garosci per questo costante impegno a
favore delle aree arretrate del regno napoletano ha parlato
di un precoce meridionalismo. Cfr. Aldo GAROSCI, San
Marino. Mito e storiografia tra libertini e il Carducci,
Milano 1967, p. 171.
(101) Per il testo si vedano le Opere,
cit., v. III, pp. 293-305 e v. IV, pp. 633-44. Nelle ultime
pagine della Fiera franca Delfico si richiama
esplicitamente al periodo riformista della monarchia di
Ferdinando IV e al proprio impegno innovatore.
(102) Cfr. Fiera franca in Pescara, in
Opere, cit., v. III, pp. 294-5.
(103) Ivi, p. 298. Sui benefici
indiretti determinati dalla fiera franca l’Autore
torna a pp. 302-3.
(104) Ivi, p. 296.
(105) A contendere alla piazzaforte adriatica
la candidatura di sede portuale c’erano altre località come
Vasto, Ortona e Giulianova. In proposito si veda il serrato
dibattito successivamente sviluppatosi sulle pagine del
giornale "Gran Sasso d’Italia", nel biennio 1840-1842.
(106) Cfr. Breve cenno, in Opere,
cit., pp. 642-4.
(107) La scelta d’impegno emerge in uno
scritto del 1784, Elogio del marchese D. Francescantonio
Grimaldi, ora in Opere, cit., v. III, pp. 225-60.
In proposito vedi A. DI NARDO, Storia e scienza in M.
Delfico, cit., pp. 49-53.
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