De Filippis

 

De Filippis-Delfico

 

(Teramo, 1820)

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Stemma famiglia De Filippis-Delfico, Teramo, 1820

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Delfico

(Napoli, sec. XVIII)

(Teramo, sec. XV)

Stemma famiglia De Filippis, Napoli, sec.XVIII

Stemma famiglia Delfico, Teramo, sec.XV

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Melchiorre Delfico e Pescara

Per una storia del rapporto tra intellettuali

ed esperienze giacobine in Abruzzo

di Fabrizio Masciangioli 

In «Trimestre», a. XX (1987), nn. 1-2

Nel giugno 1799 si conclude tragicamente la breve stagione della Repubblica Partenopea con la resa dei giacobini alle masse inquadrate nell’esercito sanfedista che combatte in nome di re Ferdinando. Mentre l’insorgenza popolare spadroneggia nelle province del Regno di Napoli, la monarchia borbonica avvia rapidamente e in modo traumatico la fase della normalizzazione e della persecuzione dei «rei di Stato», di tutti coloro cioè che, con responsabilità assai diverse avevano accettato e sostenuto il nuovo ordine repubblicano. Con una sequela di condanne capitali il tribunale realista annienta il gruppo dirigente della repubblica e fra i «martiri napoletani» finiscono sul patibolo Gabriele Manthonè, Giorgio Pigliacelli e altri giacobini abruzzesi (1). Di segno diverso è l’operato dell’inquisizione borbonica in Abruzzo dove gruppi elitari, fin dal dicembre 1798, avevano appoggiato l’occupazione militare delle armate francesi dando vita alle istituzioni repubblicane (2). Analizzando nel complesso gli accertamenti compiuti nella regione dal visitatore di giustizia Ignazio Ferante (3) e successivamente quelli dei nuovi prèsidi delle province (4) si avverte una certa moderazione che spesso sfocia nel perdono. Da questo punto di vista una situazione esemplare può considerarsi quella della città-fortezza di Pescara che durante il biennio giacobino era diventata il principale centro politico, amministrativo e militare dell’intera regione. Ciò nonostante sono meno di dieci le persone cui vengono attribuite responsabilità particolarmente gravi e che, di conseguenza, vengono condannate a pene severe. Il visitatore Ferrante nella sua rappresentanza contro i «municipalisti» pescaresi distingue esplicitamente tra coloro che hanno mostrato una chiara adesione alla causa repubblicana attraverso comportamenti specifici e la schiera più numerosa di quelli che, pur ricoprendo cariche pubbliche, non hanno dato prova di una convinta militanza e possono giovarsi di circostanze attenuanti (5). Preoccupata di realizzare la riconciliazione nel regno, la giustizia borbonica cerca di cancellare ogni traccia di una presenza giacobina in Abruzzo tanto che, per volontà del sovrano, verranno distrutti i documenti riguardanti l’occupazione francese e i relativi processi. La scarsità delle fonti e il ruolo preponderante attribuito per lungo tempo al fenomeno dell’insorgenza popolare spiegano il ritardo della storiografia nell’analisi dell’azione dei «giacobini» in Abruzzo o, come è stato scritto, di quei gruppi intellettuali e sociali che passano «dall’esperienza riformatrice alla rivoluzione» (6). Fra le mura della roccaforte pescarese opera la personalità più prestigiosa di questa élite filo francese: Melchiorre Delfico, l’illuminista teramano che si era a lungo battuto per rendere più incisiva l’iniziativa riformatrice della monarchia borbonica (7) e a Teramo aveva subito pesanti attacchi da parte del partito clericale e ultra-conservatore guidato dal vescovo Pirelli (8). L’occupazione francese lo aveva liberato dagli arresti domiciliari proiettandolo ai vertici delle istituzioni repubblicane. Il pesante atto d’accusa stilato dai présidi delle province di Chieti e Teramo sta a testimoniare l’indubbia rilevanza degli incarichi svolti. Sbrigativo, come nel suo costume, il brigadiere Marescotti si limita ad enunciare le cariche ricoperte aggiungendo che «emigrò coi Nemici» (9); ben più scrupoloso e attento alle questioni di fondo il colonnello Rodio scava nelle vicende del filosofo teramano. «Fin dal 1775 fu scoverto per uno dei Settarj esistenti allora in Teramo per cooperare per fondarvi la Democrazia in rovescio della Monarchia. Prima dell’ingresso de’ Francesi fu arrestato in Teramo con tutta la sua famiglia per materia di Stato. Sortì con l’ingresso dei nemici, da’ quali fu creato Presidente della Municipalità, indi Amministratore generale e poi Presidente del Supremo Consiglio di Pescara. In tali cariche palesò apertamente i suoi piani per sostenere la democrazia negli Abruzzi. Fu nominato per uno de’ membri del Governo provvisorio della repubblica napoletana, ma non potè mai condursi nella Capitale, per essere stata impedita dalle masse ogni comunicazione di strade… Fuggì nel regresso dei Francesi e come profugo fu citato ad informandum et Capitula. Non si è ancora ritirato nei Reali Dominj, e  si ritrova nello Stato Romano, fermo nei suoi sentimenti, per come si dice, contro la Monarchia» (10). Seppur con qualche errore e forzatura in cui si può avvertire l’influenza del vescovo Pirelli, la requisitoria borbonica fotografa in modo credibile il ruolo politico svolto dal Delfico durante l’occupazione dell’esercito transalpino. Consolidata l’autorità francese a Teramo con la creazione della Municipalità presieduta da Giamberardino Delfico, negli ultimi giorni del dicembre 1798 il Nostro viene nominato presidente dell’Amministrazione Centrale del Basso Abruzzo dal generale Duhesme, che dirige le operazioni militari nella regione, e a gennaio è posto al vertice del Consiglio Supremo che ha sede a Pescara. Non possediamo riscontri per datare con precisione il suo arrivo nella fortezza adriatica ma, tenendo presente che i provvedimenti legislativi del Consiglio vengono varati a partire dai primi di febbraio, si può dedurre che Delfico fosse a Pescara intorno alla metà di gennaio 1799 (11). Quando vi giunge il processo di democratizzazione sta prendendo corpo e le città-fortezza ne rappresenta il fulcro essenziale. Fra le sue mura maturano le scelte militari dell’occupante francese, vengono varate le nuove leggi e impartite le direttive di carattere amministrativo, si raccolgono le risorse finanziarie ricavate dall’imposizione di contributi nel resto della regione (12). Pescara era caduta senza combattere fra il 23 e il 24 dicembre 1798 (13), nonostante da oltre un decennio si preparasse a ritmo quasi ossessivo alla guerra. Sul finire del secolo la fortezza si presentava strutturalmente identica all’originario progetto cinquecentesco realizzato da Carlo V. Un imponente pentagono fortificato e attraversato dal fiume; una cinta muraria, che superava i duemila metri di perimetro, caratterizzata da cinque bastioni e da quattro cortine vere e proprie mentre una quinta ospitava l’edificio delle caserme (14). «Questo principale Baluardo della Corona e dello Stato», come lo definisce lo stesso Delfico nell’ottobre 1784 in una puntuale ricognizione geografico-economica della costa abruzzese (15), era stato però notevolmente potenziato nelle strutture interne e nelle fortificazioni. Parallelamente si era sviluppata una progressiva spinta alla mobilitazione: nel 1792 veniva convocato un consiglio generale cittadino in esecuzione di un dispaccio reale che, paventando minacce esterne, sollecitava l’organizzazione di milizie popolari in appoggio all’esercito regolare. Quattro anni dopo nella piazza principale di Pescara aveva luogo una straordinaria adunanza con la partecipazione di tutti i capifamiglia. Sempre nel 1796 il ritmo dei lavori per la difesa era diventato talmente frenetico che in città non si trovavano più mattoni, né calce per sistemare le condotte idriche (16). La valorizzazione del ruolo strategico della fortezza si intrecciava con la crescita di un tessuto urbano caratterizzato da una economia abbastanza vivace. Le realizzazioni militari, infatti, erano state accompagnate da una incisiva opera di bonifica che aveva migliorato le condizioni igienico-ambientali da secoli segnate dal clima malarico. La contemporanea presenza del mare e del fiume si era così tramutata in un fattore di sviluppo demografico, come si può rilevare mettendo a confronto i dati del Catasto D’Avalos del 1721 con il successivo rilevamento del 1813. In meno di cento anni Pescara, San Silvestro e Castellamare (i tre antichi nuclei dell’attuale città) passano da 3.000 a 7.000 abitanti mentre i soli immobili per uso domestico salgono da 200 a 1.625 (17). Inoltre, pur mancando di un porto commerciale, Pescara aveva mantenuto una forte tradizione peschereccia e un discreto movimento mercantile, come non manca di osservare il Teramano: «… vi si vedono di tempo in tempo delle piccole barche mercantili o a portarvi le merci straniere necessarie all’interno consumo della Provincia, o a caricare olio e grani del qual generi la Provincia abbonda» (18). L’esercito francese con la conquista della piazzaforte adriatica aveva dunque ottenuto un successo determinante per completare l’occupazione dell’Abruzzo e marciare, contando su retrovie più sicure, verso Napoli dove era previsto il ricongiungimento con le colonne guidate dallo Championnet. Nei primi momenti dell’occupazione era stato un giovane ufficiale, Paul Thiébault, a lanciare un segnale del mutamento politico in atto scegliendo una coccarda bianca, rossa e verde. Secondo quanto scriverà molto tempo dopo nelle sue memorie, il tricolore, già adottato due anni prima dalla Repubblica Cispadana, sventolerà sui torrioni pescaresi per molte settimane (19) nonostante le diverse disposizioni contenute, fin dal 28 dicembre con un proclama del generale Duhesme. Questo provvedimento fissava il nuovo assetto el territorio regionale che veniva diviso in due dipartimenti, Alto e Basso Abruzzo, articolati a loro volta in cantoni. Ogni dipartimento era governato da un’Amministrazione Centrale di tre membri mentre i cantoni e i comuni maggiori erano retti da una Municipalità di cinque membri. Come «punto intermedio fra il generale, e i due Dipartimenti per tutti gli ordini ch’egli dovrà dare» (20), veniva creato un Consiglio Superiore di cinque componenti con sede a Pescara. Il proclama attribuiva vaste competenze al Consiglio che si occupava dell’attività legislativa, amministrativa, finanziaria, e infine dell’organizzazione militare. In tutti i suoi atti però era subordinato all’approvazione del generale francese. Tali direttive restano sulla carta fino ai primi giorni di gennaio quando il comando delle forze transalpine, concentrate a Pescara, viene assunto dal Coutard, nominato Comandante in Capo dell’Alto e Basso Abruzzo. Quest’ultimo dà vita, con qualche modifica, alle nuove istituzioni della città: costituisce il Consiglio, che ribattezza «supremo», riducendolo a tre membri e insedia la Municipalità di nove componenti. L’autorità militare francese conserva il diritto di vistare tutti gli atti dell’organo politico, oltre a riservarsi la discrezionalità per una serie di nomine (21). Il Consiglio Supremo, dunque, si configura come la più alta autorità politico-amministrativa in sede locale e di fatto si trova a svolgere un delicato compito di mediazione tra le esigenze dell’occupante francese e l’iniziativa dei nuovi organismi «democratici». In questo processo di consolidamento repubblicano s’inquadra la chiamata alla presidenza del Consiglio di Melchiorre Delfico, una scelta eloquente da parte dei francesi che avvertono il bisogno di costruire un rapporto con settori intellettuali della società abruzzese coinvolgendo le personalità di maggior prestigio. Il riformatore teramano affiancato da due avvocati di Lanciano, Antonio Madonna (22) e Carlo Filippo de Berardinis (23), mentre segretario viene nominato Giuliano Crognale (24), anch’egli lancianese, singolare personaggio dedito alla pittura e alla poesia.

La testimonianza più significativa del soggiorno pescarese di Delfico è rappresentata da alcuni provvedimenti legislativi che gettano un po’ di luce sul suo impegno politico. Allo stato delle ricerche si conoscono soltanto due proclami: il Piano di un’amministrazione provvisoria di giustizia pei tribunali di dipartimenti e giudici di cantoni del 24 piovoso anno VII (12 febbraio 1799) e un secondo documento riguardante la repressione del vagabondaggio del 15 ventoso anno VII (5 marzo 1799). Entrambi questi atti contengono riferimenti ad un precedente proclama del 15 piovoso anno VII (3 febbraio 1799) che prevedeva l’indulto per particolari tipi di reato (25). Nel preambolo del Piano di giustizia si afferma la necessità di un nuovo sistema giuridico quale condizione per la realizzazione della «felicità dell’uomo sociale» e tale compito viene affidato a giudici capaci di operare con «prontezza» e «imparzialità» (26). Dietro le parole tranquillizzanti e di sapore propagandistico si agitano le problematiche della libertà e dell’eguaglianza, due temi «fondanti» della "grande rivoluzione" che lo stesso Delfico aveva affrontato fin dalle sue prime opere. Nel 1775 la censura aveva impedito l’uscita degli Indizj di Morale (27) nelle cui pagine, spaziando da Locke a Condillac, da Diderot a Rousseau, emergeva il concetto di libertà civile concepita come componente necessaria dello sviluppo sociale (28). Come ha ben sottolineato Venturi, la libertà civile, così intesa, implicava l’abolizione dei ceti privilegiati, clero e aristocrazia, e imponeva una redistribuzione della proprietà secondo il «canone politico… di ravvicinare gli estremi, e non dar luogo ad altre ricompense che a quelle del merito personale e dell’industria. Le leggi dunque destinate a mantener l’eguaglianza e la libertà devono mantener gli uomini nella dipendenza da esse sole,perché ogni dipendenza da individuo a individuo distrugge la libertà, e mette la base all’ineguaglianza» (29). Tale istanza egualitaria veniva ricondotta all’iniziativa di un monarca moderato e riformatore che avrebbe avuto tutto l’interesse nel frazionare la proprietà della terra poiché l’aumento dei possidenti si sarebbe risolto in una crescita del consenso verso l’autorità (30). Negli Indizj erano ben presenti i protagonisti negativi della battaglia antifeudale intrapresa dall’illuminista teramano negli ultimi due decenni del secolo: quei «ceti intermedi» che difendevano strenuamente i loro privilegi secolari e impedivano ogni progresso economico mantenendo in vita arcaici sistemi di proprietà terriera (31). L’arbitrio baronale aveva poi trovato un nuovo alleato nel ceto forense, negli uomini di legge che fondavano il loro potere sulla «gestione» del caos normativo scaturito dalla degenerazione del diritto romano. L’atto d’accusa contro questa paralizzante alleanza veniva formulato nelle Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de’ suoi cultori (32), un’opera che assumeva un carattere dirompente perché poneva con forza l’esigenza di un nuovo sistema legislativo, «una specie di giurisdizione e di magistrati, una procedura affatto eguale ed uniforme per tutti gl’individui» (33). Pur riconducibili al filone della critica illuministica nei confronti della legislazione romana, le argomentazioni delficine si inserivano chiaramente nella nuova temperie ideale creata dalla rivoluzione francese in tutta l’Europa. Lo confessava lo stesso Autore al fratello Giamberardino scrivendo che le Ricerche erano scaturite da due suggestioni: «dalle impressioni continue e continuamente ripetute della nostra dispotica anarchia e da quelle che ci vengono da più lontana parte, ed eccitano nell’animo salutari desideri» (34). Delfico era ben consapevole delle gravi difficoltà che le «nuove idee» avrebbero incontrato in «quelli per i quali le parole novità e disordini sono sinonimi, e nella luce incerta del poco intendimento tremano anche della speranza di un’esistenza migliore» (35). Qualche tempo dopo, in una lettera al Fortis, spiegando la necessità di un incontro col re per illustrargli le Ricerche, identificherà con precisione i suoi oppositori: «E pur bisogna dunque che vada a trovarlo nel nuovo soggiorno per non ritardar più un atto di dovere e di convenienza che ora si rende tanto più necessario, in quanto la gente paglietta e la togata ne menano gran fracasso» (36). Ma l’utopia delficina dell’eguaglianza degli individui davanti ad una legge certa s’infrangerà contro la svolta repressiva della politica borbonica, cosicché il proclama del ’99 può apparire come la ripresa di un discorso bruscamente interrotto. Pur condizionato dalle incertezze della fase storica il Piano di Giustizia varato a Pescara opera una netta rottura rispetto all’ordinamento borbonico con l’azzeramento di tutte le vecchie magistrature e con l’adozione della lingua italiana al posto del latino. La tensione egualitaria emerge dall’affermazione del principio della gratuità della giustizia amministrata da giudici stipendiati e dalla garanzia della tutela giuridica nelle cause civili e penali anche per i cittadini più disagiati grazie all’introduzione di «avvocati e procuratori dei poveri» che vengono insediati dall’autorità militare francese. (37). Ad ogni cantone viene attribuito un magistrato (due se gli abitanti sono più di seimila) che è scelto dal Comandante in Capo e dal Consiglio Supremo avvalendosi di una rosa di tre nomi proposti dalla Municipalità o da altri organi. Con lo stesso sistema si selezionano i cinque giudici per il Tribunale che ha sede nel capoluogo del dipartimento. I magistrati cantonali in prima istanza hanno competenza per il penale e per il civile mentre il giudizio d’appello spetta ai Tribunali dipartimentali ed è obbligatorio per i procedimenti penali. Una eventuale terza istanza spetta ad uno dei Tribunali «viciniori» la cui sentenza è inappellabile. Un altro principio rivoluzionario è rappresentato dall’abolizione della carcerazione per debiti di gioco «se non quando sarà provata la frode per parte del debitore» (38). E’ importante notare che la riorganizzazione del sistema giurisdizionale, avviata in Abruzzo da Melchiorre Delfico e dai suoi collaboratori, rappresenta un momento di assoluto rilievo nella storia della Repubblica Partenopea. A Napoli la legge "giacobina" sui tribunali entra in vigore soltanto un mese prima della caduta della Repubblica e i nuovi giudici, eletti alla fine del maggio 1799, vengono spazzati via pochi giorni dopo dall’esercito sanfedista e dai tribunali speciali. (39).

Decisamente meno significativo il secondo proclama che cerca di risanare la piaga del vagabondaggio con l’istituzione di un documento d’identità, necessario per spostarsi da un dipartimento all’altro. Si stabilisce inoltre che gli ex-soldati regii debbano dichiarare le loro fonti di sostentamento, pena l’accusa di vagabondaggio (40).

Oltre all’impegno legislativo Delfico svolge un ruolo direttamente politico-militare, come nel caso della missione a Teramo insieme al Coutard. Dell’episodio è testimonianza una lettera delficina del 30 germinale anno I (in realtà anno VII dell’era repubblicana, 19 aprile 1799) inviata al Fortis nella quale si accenna brevemente alla spedizione manifestando stima nei confronti del comandante francese (41). Il De Caesaris riferisce di un secondo spostamento ad Ascoli d’intesa col Carafa per ottenere aiuti nella difesa della piazzaforte già assediata (42). Questo dato biografico, ricavato da un articolo del «Monitore Napoletano» del 13 pratile anno VII (1 giugno 1799), è inattendibile poiché il Teramano lascia Pescara al seguito dei Francesi a fine aprile, proprio in coincidenza con l’arrivo Al periodo pescarese fa anche riferimento la Memoria sulla persecuzione subita dalla famiglia Delfico nel 1799, un documento, segnalato fra le carte delficine ma inedito, che risale probabilmente ai primi anni dell’ottocento (44). In una annotazione dello stesso Autore, che racconta in terza persona, si precisa che lo scritto vuole essere un rendiconto dei fatti di fine secolo compilato «nello scopo di ottenere il dissequestro dei propri beni» (45). La Memoria, che si inquadra in un periodo di restaurazione borbonica e indulge spesso in espressioni-antifrancesi, è costruita intorno ad una linea auto difensiva con la quale il Nostro si sforza di minimizzare il ruolo avuto prima a Teramo e poi a Pescara, spiegando la propria scelta repubblicana in termini di drammatica necessità (46). Nonostante il taglio volutamente riduttivo, il manoscritto non può tacere sugli incarichi ricoperti anche se l’illuminista teramano esordisce sostenendo di essere stato costretto dal Coutard a raggiungere la piazzaforte pescarese. Tenendo a cuore il benessere delle popolazioni «pubblicò un indulto, con cui infinito numero di individui restarono esenti dalla ferocia francese» (47):questa la tesi di Delfico che a suo merito rivendica ancora la riduzione delle contribuzioni di guerra e alcuni interventi in soccorso di singoli cittadini. A Napoli non avrebbe avuto intenzione di andare in ogni caso e a fine aprile avrebbe deciso di trasferirsi nello Stato Pontificio approfittando della ritirata dell’esercito transalpino. A questo punto si inserisce un episodio, fin qui trascurato, riguardante la perdita del bagaglio da parte del pensatore teramano. «L’altra circostanza lacrimevole fu che il conte Di Ruvo, o sia il Duca D’Andria [E. Carafa] pervenuto in Pescara colla Legione Napolitana al comando di quella Piazza, voleva, che in ogni costo il Melchiorre fusse partito per Napoli, onde simultaneamente gli promise che dopo un breve trattenimento nella Marca sarebbe ritornato in Pescara per portarsi nella Capitale» (48). Così si legge nella Memoria, che, prosegue spiegando come il Carafa avrebbe cercato di condizionare il poco convinto Delfico facendosi consegnare il bagaglio. I bauli, contenenti tra l’altro una preziosa collezione di monete antiche, sarebbero poi scomparsi durante l’assedio della città da parte dei "massisti"(49). Al di là della piena attendibilità dei particolari riferiti nel manoscritto, è significativo constatare che, pur nel contesto di un discorso difensivo, il Teramano finisca per ammettere di aver avuto un notevole potere decisionale e perfino una certa influenza sull’occupante francese.

Durante la crisi rivoluzionaria di fine ‘700 l’opzione politica inclina repentinamente dal riformismo di matrice genovesiana, che resta sostenitore di una monarchia moderata, all’estremismo repubblicano, che lo avvicina a posizioni giacobine. Una parabola non priva di contraddizioni ma comune a molti riformatori napoletani della seconda generazione, tanto da spingere Cantimori ad affermare «che da un punto di vista generale i giacobini sono illuministi che entrano in azione» (50). Una tesi che, proprio per la sua generalità, ripropone la querelle intorno all’identità del giacobinismo italiano, specie di quello meridionale (51). Tale diatriba storiografica, tutt’altro che risolta, non può essere oggetto del presente lavoro che intende, invece, analizzare alcuni passaggi dell’itinerario del Delfico politico, per meglio comprendere l’evoluzione del suo giudizio nei confronti del processo rivoluzionario in atto in Francia e, di conseguenza, delle sue scelte. In proposito è possibile individuare un mutamento dalla prima lettura «ideologica» della Rivoluzione a una seconda strettamente «politica» e attenta agli sviluppi di breve periodo. Punto di svolta si può considerare il biennio 1793-94, quando a Napoli la monarchia borbonica sceglie la via della repressione che, vanificando ogni iniziativa di riforma, spinge l’intellettuale teramano a legare le sue speranze di rinnovamento agli esiti della vicenda francese (52). L’attenzione verso i fermenti pre-rivoluzionari si era manifestata in uno scritto del 1785, Memoria sul tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle province confinanti del Regno in cui, pur nel contesto di un discorso critico, si parlava diffusamente del ministro Necker, «illustre scrittore» e «vero eroe» (53). Inoltre parole di apprezzamento per l’opera del banchiere ginevrino, chiamato a Parigi per salvare le finanze del regno, ricorrevano negli scambi epistolari intercorsi in quegli anni fra Delfico e numerosi intellettuali italiani schierati su posizioni «riformistiche» (54). L’azione del Necker veniva interpretata strumentalmente e proiettata nella realtà italiana per dimostrare l’urgenza di radicali innovazioni in campo economico. Di contro l’illuminista teramano, che nel 1789 era entrato nel Supremo Consiglio delle Finanze in sostituzione dello scomparso Filangieri, incontrava forti resistenze nella propria azione antifeudale. All’amico Fortis scriveva, in tono preoccupato e polemico, denunciando l’esistenza di interessi baronali avversi a due iniziative rilevanti: la già menzionata Memoria sul tribunal della Grascia che metteva sotto accusa il sistema doganale tra Abruzzo e Stato Pontificio e la Memoria de’ regi Stucchi (1787) che sollecitava l’abolizione o riduzione di medievali «servitù» sul pascolo invernale (55). Si comprende dunque che Delfico, di fronte ai tanti ostacoli frapposti ad una politica di rinnovamento economico ed istituzionale, finisse per vedere nella «Rivoluzione della Gallia… un esempio favorevole per i Principi savj» (56), una impetuosa realizzazione del suo riformismo «tecnico» (57) e, allo stesso tempo, una riprova della necessità di attuarlo senza indugi anche in Italia. L’irruzione della rivoluzione francese sulla scena europea «avrebbe potuto e dovuto favorire una più ampia e ardita politica di riforma, e forse portare finalmente a maturazione le questioni da tanto tempo sollevate e discusse» (58).

Una coraggiosa politica innovatrice poteva, dunque, sciogliere quei nodi strutturali che in Francia la falce rivoluzionaria stava recidendo: «Chi non sa quali e quanti erano i disordini della Francia, e che si trovava oberata senz’essersi mai pensato ad alcuna salutare riforma?» (59). Va detto che del sommovimento in atto si privilegiavano soltanto alcuni aspetti come il ridimensionamento dei «ceti privilegiati» (60) e soprattutto l’elaborazione della costituzione e delle nuove leggi. Il 6 novembre 1790 Delfico commentava con parole entusiastiche le decisioni dell’Assemblea costituente: «Le notizie di fuori sono che la guerra va a diventar generale e l’assemblea dopo aver decretata l’emissione degli assegnati, la salute della Francia, la base reale della Costituzione, il maggior riparo contro la controrivoluzione, ha cominciato ora a fare delle divine disposizioni per le imposte territoriali. Siano benedetti!» (61). Se è vero, come ha notato Venturi, che nelle Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana si stigmatizzava l’assenza di una «stabile legislazione», di una costituzione come moderno strumento della politica (62), si comprende allora che la vicenda costituzionale francese possa rappresentare per il Nostro il supporto alle proprie convinzioni. Col passare dei mesi però la Francia vive momenti convulsi e traumatici che mettono a nudo problematiche ben più radicali di quella costituzionale. Il pensatore teramano ne scrive lamentando, tra l’altro, la frammentarietà delle notizie che giungono a Teramo: «… alcune trascuraggini [sic!] cadute nella Costituzione, e l’aver dismessa l’Assemblea Costituente affrettando delle risoluzioni che richiedevano esame più maturo… mi fa aver non solo delle trepidazioni, ma mi rattrista per i disordini giornalieri» (63). Nel turbamento che traspare davanti al precipitare dello scontro politico, si può cogliere il senso di una lettura del fenomeno rivoluzionario sostanzialmente moderata e in questo simile all’analisi di altri illuministi meridionali che avevano pensato di poter ricondurre la rivoluzione nello schema ideologico del riformismo.. tale moderatismo e l’ottimistica valutazione delle novità costituzionali, sono confermati in una missiva del natale 1792 con la quale Fortis viene messo al corrente da Delfico dell’arrivo a Napoli di una flotta francese (64). Le gravi conseguenze di questo episodio sfuggono a Delfico che ben presto si scontrerà con l’arroccamento reazionario dei sovrani di Napoli e con le persecuzioni dei sospetti giacobini (65).

Nel 1793-94 il Teramano, pur non essendo coinvolto nei processi contro i cospiratori napoletani, parla per la prima volta esplicitamente dell’accusa di giacobinismo mossa nei suoi confronti. In una lettera del 7 novembre 1793 scrive da Teramo ad Alberto Fortis che «de’ malevoli di Napoli fra quali il vescovo [Pirelli] in unione colla magistratura [sic!] mi avevano formata la più estesa riputazione di Giacobinismo»(66). La denuncia, evidentemente pretestuosa, sembra cadere nel nulla ma il seme del sospetto finisce per dare qualche frutto nel dicembre successivo quando Melchiorre Delfico, a seguito di una seconda accusa anonima, non ottiene la presidenza della Società Patriottica di Teramo in sostituzione del fratello. Formalmente contro di lui non vengono presi provvedimenti ma la mancata nomina dimostra che le autorità non sono state dl tutto convinte dalla sua autodifesa improntata ad una linea di lealismo monarchico unito però alla coerente rivendicazione dell’azione riformatrice (67). Il tono di questa autodifesa è ormai inconciliabile con l’atteggiamento di chiusura assunto dalla corte borbonica e dal ministro Acton. Risulta infruttuoso nella primavera del 1794 un nuovo soggiorno a Napoli per perorare alcune istanze legate ai privilegi feudali ed a richieste di carattere personale. Nel confessare l’amarezza di queste giornate, afferma di essere ormai convinto che non è più tempo «di promuovere certi oggetti, e che si fa anzi male» (68). Poco più avanti si trova un riferimento alle condanne contro i «rei di stato»: «Dei nove giudicati finora, uno solo al patibolo, due a prigione perpetua, e gli altri a  pena temporanea. Forse le sentenze successive saranno più miti. L’Annibale Giordano fu uno dei condannati a carcere perpetuo, ma non mi è dispiaciuto punto, perché esso calunniò il povero Odazj… e fu causa della di lui morte» (69). Agli occhi di Delfico il suicidio dell’atriano Troiano Odazi si trasforma nel paradigma tragico della situazione politica napoletana: un riformatore inquisito sulla base di confessioni non provate, proclamatosi sempre innocente e, infine, spinto dalla disperazione a togliersi la vita. Tra i due intellettuali esisteva un legame affettivo e una profonda affinità culturale: Odazi, che nel 1781 era succeduto al Genovesi sulla cattedra universitaria, sostenendo la causa dei moderni istituti economici, aveva accusato «quelli i quali sono interessati a conservare le traccie di questa antica amministrazione, a mantenere gli abusivi regolamenti che han perpetuato la barbarie e l’ignoranza in questo genere nel nostro Regno…» (70). Ma ora che la logica dei vecchi ceti dominanti sta prevalendo e il movimento riformatore è sconfitto e perseguitato, al Nostro non resta che lasciare precipitosamente la capitale del Regno ripromettendosi di non andare più «verso Mezzogiorno, se non quando un cangiamento di circostanze avrà resa la luce a questa plaga» (71). In questo distacco, che è anche condanna politica della scelta repressiva di re Ferdinando, risiede la svolta dell’atteggiamento delficino che non muterà fino all’invasione francese. L’altro elemento nuovo consiste nell’ansiosa ricerca di possibili soluzioni pacifiche del conflitto europeo; una pace indissolubilmente legata alle fortune della Francia. «Chi volesse profetizzare sul destino d’Italia – scrive a metà ottobre 1794 in una delle ultime lettere da Napoli – potrebbe vedere anche in principio d’Inverno repubblichizzato il Piemonte; ma il mio spirito sta confuso e difficilmente s’immagina ciò che non desidera Tutti i miei pensieri sono intorno alle speranze di pace, e sono scontento di me per non poterne escogitare i mezzi sicuri» (72). E qualche giorno dopo, rientrato a Teramo, aggiunge: «Io ho parlato per la pace fino all’imprudenza, ma i tentativi fatti e dileguati nella morte di Robespierre non pare che possano aprirci il cuore a nuove speranze» (75); quasi a voler significare che la politica robespierrista aveva rappresentato un punto di riferimento senza il quale la parabola rivoluzionaria diventa ancora più indecifrabile. Tornato nell’ambiente teramano, Delfico articola meglio l’analisi della fase politica condannando l’operato del ministro Acton per la subalternità all’Inghilterra, confermando la sua aspirazione «pacifista» e insieme i dubbi sul futuro: «Le idee della convenzione non sembrano decise, e forse a questo contribuisce la diversità dei partiti, ed anche delle opinioni nelle cose non essenziali alla loro costituzione» (74). Avvicendamenti nel governo napoletano e incrudimento della repressione, unitamente alla questione della pace, restano negli scambi epistolari del 1795 gli argomenti centrali fino al viaggio in Toscana; uno stato di cui apprezza la «neutralità» e dove gli è possibile informarsi direttamente sui giornali transalpini. Può stupire che al ritorno Delfico accetti l’incarico di organizzare gli arruolamenti militari nella provincia e che addirittura a Sulmona renda omaggio a re Ferdinando (75). C’è però da credere che le sue aspirazioni fossero ben diverse se negli stessi giorni chiede di essere incluso nella delegazione che, vista la travolgente avanzata delle armate francesi in Lombardia, con tutta probabilità avrebbe dovuto negoziare la pace (76). Un’intesa, raggiunta nel momento in cui la Grande Nazione è vincente, viene considerata la condizione più favorevole per un rinnovato impegno politico, consentendogli di rimanere fedele all’originario convincimento che la Francia possa accettare il ruolo di interlocutore non aggressivo in un processo di cambiamento. In questa direzione vanno le parole di ammirazione per Sieyès, «il più gran filosofo politico che abbia l’Europa» (77), l’ipotesi di ridurre l’offensiva napoleonica in una gabbia diplomatica e la fideistica attesa del nuovo codice destinato a diventare universale: «…sospiro il momento di veder pubblicato il Codice della nuova Legislazione. Sarà perfezionabile, ma sarà col tempo il Codice Universale… Sarà pur possibile una Repubblica Democratica di 26 milioni, che pur non si credeva» (78). Fra utopistiche speranze riposte nella politica italiana del Direttorio e realistiche notazioni sulle operazioni militari napoleoniche, si giunge al febbraio 1798 quando la nascita della Repubblica Romana spinge l’Abruzzo nella spirale dell’invasione. Intanto Delfico non si occupa più di arruolamenti, incarico che non ha svolto con particolare entusiasmo, e viene nominato portolano della città con responsabilità amministrative e di sanità pubblica rilevanti, tenuto presente che Teramo è uno dei quartieri generali dell’esercito borbonico. Questa posizione di vertice finisce per causare contrasti con altre autorità locali quali il prèside della provincia, Gaspare de Micheroux, e il comandante delle truppe Vincenzo Revertera, duca di Salandra. Dei conflitti approfittano gli avversari del’illuminista teramano costruendo l’ennesima trama accusatoria. L’occasione è fornita dall’arresto, al confine con le Marche già occupate dai francesi, di una domestica licenziata dalla famiglia Delfico. La donna viene trovata in possesso di lettere compromettenti che le sarebbero state affidate da due amici del pensatore, Eugenio Michitelli e Alessio Tulli, entrambi sospetti di simpatie giacobine. Di qui l’accusa all’intera famiglia teramana di guidare un complotto filo-francese e la prigionia nel proprio palazzo che si protrarrà per circa tre mesi (79). La liberazione giunge con l’arrivo della colonna francese a Teramo l’11 dicembre 1798 e con la costituzione di una prima Municipalità presieduta da Melchiorre Delfico. Ispirata ad uno spiccato lealismo monarchico è, al contrario, la condotta del fratello Giamberardino che inizialmente rifiuta la libertà donata dalle armi franco-cisalpine (80). Mostrando una coccarda borbonica, sarà proprio lui a riportare la calma in città qualche giorno dopo (19 dicembre), quando il popolo insorto e le masse scese dalla montagna metteranno in fuga le modeste truppe transalpine. In questa occasione il filosofo abruzzese è costretto a nascondersi per sfuggire alla vendetta dei rivoltosi che si abbandonano al saccheggio delle abitazioni di personalità in odore di giacobinismo. Opera pacificatrice, ma di segno opposto, viene svolta dalla famiglia teramana il 23 dicembre allorché i francesi riconquistano la città e si fanno convincere a non attuare una dura rappresaglia (81). Da questo momento, come abbiamo già visto, si sviluppa l’esperienza delficina nelle istituzioni repubblicane; una militanza coerente fino alla conseguenza estrema dell’esilio a San Marino.

La vicenda esistenziale e l’itinerario politico pongono Delfico in una posizione originale sia nei confronti di quei riformatori «tecnici» che operano a Napoli nella seconda metà del settecento, sia di quei «patrioti abruzzesi» che vivono la crisi rivoluzionaria dall’interno del governo repubblicano. Come palmieri e Galanti, il Teramano individua le stridenti contraddizioni economiche del meridione e le storture istituzionali che paralizzano ogni iniziativa innovatrice nel Regno borbonico. Ma diversamente da loro, guarda con interesse e senza sospetto alla rivoluzione dell’89 considerandola, anche nelle sue improvvise radicalizzazione, l’unico punto di riferimento per rimettere in moto una dinamica riformatrice. La sua esperienza si differenzia, poi, da quella di Manthoné e di Pigliacelli che, come ministri repubblicani, sono coinvolti in prima persona nel dibattito e nelle contraddizioni che agitano il gruppo dirigente giacobino a Napoli. Delfico invece resta lontano dalla capitale, isolato in una dimensione periferica nella quale l’unica certezza è rappresentata dalla minaccia della rivolta popolare (82). Questa emarginazione provinciale, insieme ad una comune matrice culturale, lo assimila a personaggi quali Berardo Quartapelle e Alessio Tulli, intellettuali teramani che per lungo tempo avevano condiviso il riformismo delficino. Si può parlare di un gruppo di riformatori-rivoluzionari (83), uniti fra il 1770 e il ’90 nell’opera di rigenerazione culturale della loro città, combattuti dall’influente vescovo Pirelli per le scelte chiaramente «municipali» e anti-curiali, impegnati nel ’99 a fianco dei francesi nelle nuove istituzioni. Se il caso teramano appare esemplare di una intellighenzia tardo-illuminista con forte caratterizzazione politica, proficuamente l’analisi potrebbe essere estesa ad altre «avanguardie» operanti nelle realtà urbane abruzzesi durante il convulso tramonto del settecento (84). Di tale minoranza riformistico-rivoluzionaria Melchiorre Delfico è la figura più rappresentativa anche per il delicato ruolo istituzionale affidatogli: per quattro mesi presiede il massimo organo repubblicano a Pescara, impossibilitato a raggiungere Napoli dove pure è atteso per prendere parte al governo partenopeo. Sul finire del gennaio 1799, appena entrato nella capitale del Regno, il generale Championnet lo aveva nominato membro della Rappresentanza Nazionale (85) e qualche giorno dopo sul «Monitore» si poteva leggere: «E’ giunto jeri da Milano il rappresentante Mario Pagano, noto come filosofo, e martire; si attende a momenti da colà l’altro degno rappresentante Giuseppe Abbamonte; e dalle nostre ex-provincie gli altri due non men degni Ignazio Ciaja, e Melchiorre Delfico, al quale ultimo è riservato il luogo nel comitato delle finanze, e per la nota sua perizia nella scienza economica ne attende il Pubblico con impazienza l’arrivo» (86). L’impaziente attesa viene delusa e inutilmente il commissario del governo francese Abrial lo inserirà nella commissione esecutiva composta di cinque membri. Lo stesso «Monitore» suggerisce la motivazione del mancato arrivo: «Varj vetturini poi, ed altri che vengono da quelle parti [dall’Abruzzo], annunciano per il contrario varj ricatti, carcerazioni ed omicidj de’ più degni Patrioti avvenuti in molte di quelle comuni. Si dicono derubate le casse Pubbliche, arrestato in Chieti il Cittadino già Barone Nolli (87), né si ha notizia del degno Rappresentante Melchiorre Delfico» (88). Ma l’incalzare dell’insorgenza popolare, evocata sulle pagine del giornale giacobino, diviene motivo di un pesante atto d’accusa da parte del Teramano nei confronti del governo partenopeo. In una lettera del 27 marzo 1799 (7 germinale anno VII), pubblicata ancora sul «Monitore», Delfico denuncia l’abbandono della provincia nella trappola controrivoluzionaria: «Voi ci avete non solo abbandonati, ma quel ch’è peggio, obbliati. Da’ due Dipartimenti primogeniti vi mancano le nuove e nulla avete fatto per sapere se esistevano. Le più ferali tragedie si sono moltiplicate su tutta la superficie di queste contrade, e invece di farci accrescere la forza vincitrice ed imponente, essa ci è stata tolta. Le strade per la Centrale sono state occupate da’ briganti, il corso della posta interrotto, e non si è spedito almeno un distaccamento di Cavalleria, per mantener libera la circolazione colla Centrale» (89). A questo punto il Nostro si sofferma sulle proprie condizioni di isolamento: «Non prima della passata settimana io seppi ufficialmente il mio destino fra voi, e voi non avete pensato a me. A forza di supposizioni gratuite avete creduto che io potessi venire; ma dovevate sapere che io non potevo muovermi, senza mettere a pericolo la mia vita, che spero sia ancora cara agli amici, come sicuramente è minacciata da’ malvaggi [sic!]» (90). In verità la stessa pubblicazione delle recriminazioni delficine dimostra che i giacobini napoletani sono ben coscienti della gravità della situazione creatasi in Abruzzo, Puglia e Calabria. Fin dal febbraio ’99 l’insorgenza popolare rappresentava una questione intorno alla quale il gruppo dirigente partenopeo si interrogava e si divideva (91), fortemente condizionato nelle scelte operative dalle esigenze dell’occupante francese. Il «Monitore Napoletano» aveva ripetutamente riferito dell’intenzione del governo di organizzare una campagna militare per consolidare l’autorità repubblicana. Il progetto originario, condiviso dal generale Championnet, prevedeva una spedizione verso la Calabria assumendo però una posizione d’attesa affinché il generale Duhesme potesse completare la pacificazione della Puglia. Di qui una parte delle forze transalpine avrebbe dovuto risalire in Abruzzo seguendo la via litoranea. Ma il piano aveva subito numerosi rinvii e ridimensionamenti fino a quando lo scenario politico a Napoli era mutato per la sostituzione, decisa dal Direttorio, di Championnet col suo luogotenente Macdonald, più accondiscendente alle direttive parigine. Il trapasso dei poteri, seguito da un largo avvicendamento di ufficiali al comando delle truppe, aveva ridato fiato alla ribellione popolare che aveva riconquistato molte città.

Assediato nel suo osservatorio e in possesso di informazioni frammentarie, Delfico giudica inspiegabile l’inattività del governo napoletano e al Fortis conferma il suo isolamento nella lettera, già analizzata, che precede di pochi giorni l’abbandono della città-fortezza al seguito dell’esercito francese (92). Le parole del pensatore teramano rappresentano la più esplicita e lucida confessione dello stato di estrema precarietà in cui operano i rivoluzionari nelle province del Regno (93) e, per le precise accuse rivolte ai giacobini di Napoli, sembra adombrare quella contraddizione città-campagna che la speculazione gramsciana considererà essenziale spartiacque tra il processo rivoluzionario in Francia e la formazione dello stato unitario in Italia (94). Se nel ’93 a Parigi il Comitato di Salute Pubblica aveva reagito all’aggressione esterna e all’insurrezione vandeana accogliendo le rivendicazioni popolari; nel ’99 a Napoli i rivoluzionari italiani, così come accadrà per i loro eredi risorgimentali, entrano in contrasto proprio sulla legge eversiva della feudalità che, dissolvendo l’antica proprietà terriera, poteva rappresentare il momento di saldatura con le istanze contadine. Analizzata in rapporto ai precedenti passaggi del pensiero delficino, la requisitoria contro il governo partenopeo appare come la riproposizione, in un mutato contesto storico-politico, del conflitto capitale-provincia già evidenziato, nelle prime opere e coerentemente vissuto dalla parte della periferia fin agli anni della cosiddetta «rinascenza teramana» (95). Nel 1793 l’arretratezza dei sistemi agricoli nella sua provincia era stata all’origine di uno dei più efficaci scritti economici dedicato alla coltivazione del riso (96). In queste pagine s’intrecciano «una profonda, umana reazione di fronte alla misera vita dei contadini con la lucida coscienza politica di quale fosse la radice essenziale di tanti mali… l’inefficienza dello stato, del tutto inadatto, organicamente impotente anzi a lottare contro le piaghe secolari del paese» (97). All’interno dell’apparato burocratico e corrotto già si individuano responsabilità specifiche dei «bassi uffiziali della giustizia» e, più in generale, dei ceti parassitari che prosperavano a Napoli, capitale-megalopoli privilegiata e improduttiva. Tale polemica diventa centrale nelle Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana, dove il rifiuto dell’antico sistema normativo si lega alla contestazione di Roma quale simbolo negativo della capitale (98). «Una capitale è sempre un male, e tanto maggiore, quando essa è sproporzionatamente più grande» (99), osserva il Teramano riferendosi alla realtà napoletana, una delle città più grandi d’Europa che con oltre quattrocentomila abitanti rappresentava l’8% dell’intera popolazione del Regno potendo contare però su ridotte attività commerciali e industriali. Posta con nettezza nel periodo dell’impegno riformistico, l’esigenza di un riequilibrio economico della società a favore della provincia verrà ribadita negli scritti ottocenteschi, divenendo uno dei fili conduttori del pensiero delficino (100).

Negli ultimi anni della sua vita Delfico accarezza l’idea della creazione di un importante polo commerciale sulla costa adriatica per rilanciare le attività produttive in questa zona ancora emarginata del Regno. In proposito scriverà la Fiera franca in Pescara (1823) e il Breve cenno sul progetto di un porto da costruirsi alla foce del fiume Pescara (1825), due opuscoli interessanti per il taglio economico liberista e per la fiducia in provvidenziali interventi innovatori dall’alto (101). Nella Fiera franca riemerge l’avversione ad un sistema economico stretto da lacci vincolistici e si propone in alternativa una visione competitiva del commercio attraverso la realizzazione di un grande mercato costiero in cui possano affluire prodotti provenienti anche dall’esterno del regno senza imposizione del dazio d’importazione. Per tale via si potrebbero bloccare, superando le vecchie barriere fiscali, i flussi commerciali che dall’Abruzzo si dirigono per convenienza verso i mercati dello Stato Pontificio (102). «Così queste province, che ora scarseggiano in fabbriche, manifatture ed arti, saranno pur contente nel veder migliorare ed accresciute quelle che vi sono, per soddisfare senz’aiuto straniero ai nazionali bisogni. E l’accrescimento delle opere d’industria, portando quello della popolazione, i prodotti dell’agricoltura andranno pure all’aumento cui le forze dell’industria e della natura debbono condurli» (103); efficaci notazioni utilizzate per dimostrare come «una semplice operazione economica» possa innescare un generale processo di sviluppo in una vasta area del paese. Trattando delle caratteristiche della Fiera franca si accenna all’opportunità di creare uno scalo marittimo a Pescara (104), problematica poi sviluppata nel Breve cenno. E’, quest’ultimo, un contributo più tecnico rispetto al precedente e ricco di indicazioni di ingegneria portuale ma sempre ancorato al convincimento che l’uomo, grazie alle risorse del suo intelletto, possa creare le condizioni per un crescente benessere sociale. Nell’ottica di valorizzazione della provincia vanno ricordate le argomentazioni con cui si sostiene la scelta del sito pescarese (105): centrale rispetto alle principali arterie viarie del Regno, protetto da una fortezza militare, segnato da una lunga storia che fin dall’epoca romana testimonia la presenza di un porto commerciale col nome di Ostia Aterni (106). Se la contrapposizione delficina tra capitale e provincia non assume il carattere eversivo del conflitto giacobino fra città e campagna, va pur detto che la battaglia di Melchiorre Delfico a favore della provincia abruzzese rappresenta un elemento forte e preponderante del suo pensiero politico. Tenendo fede ad un lontano impegno di militanza (107), il filosofo teramano si fa interprete di bisogni presenti e futuri della società civile, imponendosi come esponente di spicco di un nuovo ceto politico ansioso di governare i tumultuosi mutamenti che vanno realizzandosi fa settecento e ottocento.

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(1) Gabriele Manthoné (Pescara 1764-Napoli 1799), ufficiale dell’esercito napoletano dopo la rovinosa ritirata del ’98 e la fuga del re, si legò alla causa repubblicana. Dopo aver organizzato la Guardia Nazionale a Napoli, fu nominato Ministro della Guerra, carica che conservò fino alla capitolazione. Giorgio Pigliacelli (Tossicia 1751-Napoli 1799) fu Ministro di Grazia, Giustizia e Polizia nel governo repubblicano. Oltre a loro furono giustiziati Colombo Andreassi (Villa S.Angelo 1770-Napoli 1799) che fu a capo della Guardia Civica e Michelangelo Ciccone (Morrodoro 1751-Napoli 1800) sacerdote giacobino, autore di un interessante giornale in dialetto napoletano «La Repubblica spiegata co’ lo santo Evangelio».

(2) Sul «Monitore Napoletano», a. I, n. 2, 17 piovoso anno VII (5 febbraio 1799), leggiamo: «Si è ricevuto già da cinquecento comuni l’avviso della loro democratizzazione, e riunione alla centrale». Cfr. Eleonora DE FONSECA PIMENTEL, Il Monitore repubblicano del 1799. Articoli politici seguiti da scritti vari in versi e in prosa della stessa autrice, a cura di Benedetto CROCE, Bari 1943, p. 19; una nuova edizione critica è stata curata da Mario Battaglini che ha, tra l’altro, accertato l’esistenza di due diverse edizioni del giornale; cfr. Il Monitore Napoletano 1799, a cura di M. BATTAGLINI, Napoli 1974, p. 42 (a quest’ultimo testo faremo riferimento nelle successive citazioni). A parte il dato certamente eccessivo dei comuni democratizzati, c’è da osservare che in quel momento la maggior parte di essi si trovava in Abruzzo. Per una ricostruzione del biennio giacobino nella regione resta fondamentale l’opera di Luigi COPPA-ZUCCARI, L’invasione francese negli Abruzzi (1798-1810), vv. I e II, L’Aquila 1928; vv. III e IV, Roma 1939, monumentale raccolta di fonti che prende le mosse da due memorie allora inedite: quella del lancianese Uomobono delle Bocache e quella del teramano Angelo de Jacobis.

(3) La Relazione a Sua Maestà del visitatore di giustizia Ignazio Ferrante, e suo assessore De Giorgio, riguardo alla decision della causa de’ pretesi rei di Stato di Chieti e risulta di Sua Maestà dietro detta relazione è una delle fonti più utilizzate dagli studiosi ed è stata integralmente ripubblicata da L. COPPA-ZUCCARI, L’invasione francese, cit., v. II, pp. 644-73.

(4) I Notamenti dei rei di Stato del brigadiere Francesco Marescotti, prèside di Chieti, e del colonnello Giovan Battista Rodio, Prèside di Teramo, vengono segnalati per la prima volta da Egildo Gentile e Giovanni de Cesaris nel 1931; cfr. E. GENTILE, Qualche fonte inedita per la storia degli Abruzzi del periodo della prima invasione francese; G. DECAESARIS, Alcuni rei di Stato della provincia di Teramo del 1799, in "Atti e Memorie del Convegno storico abruzzese-molisano", Casalbordino 1933, pp. 237-47 e pp. 723-51. Ancora di G. De Cesaris, Notamento generale de’ rei di Stato della provincia di Chieti del 1801, in "Rassegna storica del Risorgimento", a. XV, 1937, fasc. I, pp. 93-5. Distrutti nel corso del secondo conflitto mondiale insieme ad altri documenti dell’Archivio di Stato di Palermo, sono giunti fino a noi grazie ad una copia in possesso di L. COPPA-ZUCCARI, Notamento dei rei di Stato di Chieti e Teramo, Teramo 1962, cui faremo riferimento nelle successive citazioni. Nuovi elementi sui giacobini di Chieti sono recentemente venuti dal saggio di Giuseppe F. DE TIBERIIS, Processo ai giacobini di Chieti (1799-1800), in "Rassegna Storica del Risorgimento", a. LXXIV, 1987, n. 1, pp. 3-49.

(5) Cfr. L. COPPA-ZUCCARI, L’invasione francese, cit., v. II, pp. 104-6.

(6) Cfr. Claudia PETRACCONE, Rivoluzione e proprietà: i repubblicani abruzzesi e molisani nel 1799, in "Archivio Storico per le Province Napoletane", a. XXI, 1982, terza serie, v. XXI, p. 203.

(7) Sull’azione riformatrice del Teramano alla fine del settecento si veda Franco VENTURI, Illuministi italiani, t. V; "Riformatori Napoletani", Milano-Napoli 1962, pp. 1159-267 e Il movimento riformatore degli illuministi meridionali, in "Rivista Storica Italiana", a. LXXIV, 1962, fasc. 1, pp. 5-26; Vincenzo CLEMENTE, Rinascenza teramana e riformismo napoletano (1777-1798), Roma 1981; Pasquale VILLANI, Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione, Bari 1973.

(8) Luigi Maria Pirelli fu vescovo di Teramo dal 1777 al 1804 e si contrappose tenacemente all’intellighentia illuministica legata alla famiglia Delfico.

(9) Cfr. L. COPPA-ZUCCARI, Notamenti, cit., p. 79.

(10) Ivi, pp. 297-8.

 (11) Va detto che il periodo pescarese per lungo tempo è stato quasi ignorato dai biografi delficini che ne hanno generalmente fornito una ricostruzione lacunosa. Una prima sottolineatura è venuta da Raffaele PERSIANI, Alcuni ricordi politici nella massima parte abruzzesi al cadere del XVIII e principio del XIX secolo con documenti e note, in "Rivista Abruzzese", a. XVIII, 1903, fasc. 6, pp. 310-1 e di recente da V. Clemente, Rinascenza teramana, cit., pp. 18-22 e ss. Per una ricognizione critica degli studi delficini cfr. Gabriele CARLETTI, Recuperi oblii e prospettive. Per una storia critica della storiografia delficina, in questo stesso fascicolo pp. 5-40.

(12) Il Masci riferisce di ribelli che nel teramano intercettano alcuni corrieri e si impadroniscono dei tributi di guerra destinati a Pescara. Cfr. Filippo MASCI, Gabriele Manthoné, discorso pronunciato in Pescara, Casalbordino 1900, p. 85. Recentemente Mario Battaglini ha sostenuto la tesi dell’esistenza di un’autonoma Repubblica Abruzzese con capitale a Pescara; cfr. M. BATTAGLINI, Abruzzo 1798-1799. Una Repubblica giacobina, conferenza tenuta il 22.11.1986 a Pescara, in corso di pubblicazione.

(13) Cfr. L. COPPA-ZUCCARI, L’invasione francese, cit., v. II, pp. 755-63. Oltre alla preziosa opera del Coppa-Zuccari, si può far ricorso all’appendice dedicata ai Due assedii di Pescara di F. Masci in Gabriele Manthoné, cit., pp. 75-118 e il volume di Luigi LOPEZ, Pescara dalla Vestina Aterno al 1815, pp. 187-254. Sulla sottovalutazione storiografica della realtà abruzzese cfr. Fabrizio MASCIANGIOLI, La storiografia sul 1799 in Abruzzo e il "caso" della resistenza di Pescara, relazione svolta al convegno "Intellettuali e società in Abruzzo fra le due guerre", L’Aquila 17-19 ottobre 1985, in corso di pubblicazione.

(14) Cfr. L. LOPEZ, Pescara, cit., p. 116 e ss.

(15) Cfr. Laura TOSSINI, Una lettera inedita di Melchiorre Delfico a Michele Torcia, in "Nord e Sud", a. XXIV, 1977, terza serie, nn. 31-2, p. 196.

(16) Cfr. L. LOPEZ, Pescara, cit., pp. 190-1.

(17) Una copia manoscritta del Catasto del 1721 è custodita nella Biblioteca Provinciale di Pescara "G. D’Annunzio". Si tratta del terzo accertamento catastale deciso dai D’Avalos, marchesi di Pescara e del Vasto, per verificare l’accresciuta consistenza urbana della città e, di conseguenza, fissare le relative rendite. Per un approfondimento della dinamica demografica e della situazione fondiaria vedi Ottone FODERA’, Cenni storici sul rilevamento fondiario nella città e territorio di Pescara, estratto da "Rivista del Catasto e dei Servizi Tecnici Erariali", Roma 1951, pp. 14-6.

(18) Cfr. L. TOSSINI, Una lettera, cit., p. 196. Una conferma dell’importanza strategica di Pescara viene dall’inedita memoria di Giuseppe Mucciarelli che scrive durante l’occupazione francese; cfr. L. COPPA-ZUCCARI, L’invasione francese, cit., v. II, p. 512.

(19) Cfr. L. COPPA-ZUCCARI, L’invasione francese, cit., v. I, pp. 784-5, in cui si rinvia ad un ampio stralcio delle memorie scritte dallo stesso ufficiale francese; Paul THIEBAULT, Memoires du général Baron Thiebault publiés sous les auspicies de sa fille Mademoiselle Claire Thiebault d’apreès le manuscrit original par Fernand Calmettes, Paris 1894. Sull’episodio vedi anche Niccolò RODOLICO, Il Popolo agli inizi del Risorgimento nell’Italia meridionale (1798-1801), Firenze 1926, p. 68.

(20) Cfr. L. COPPA-ZUCCARI, L’invasione francese, cit., v. I, p. 57.

(21) Ivi, v. I, pp. 65-6 e 798-9. Rispetto al precedente proclama restano immutati i poteri del Consiglio mentre si precisano le procedure decisionali.

(22) Antonio Madonna (Lanciano 1763-1848), avvocato di buona fama, si avvicinò presto agli ambienti massonici. Nel 1799 seguì i francesi nella ritirata verso Milano e fu bibliotecario dell’Accademia di Brera. Tornò agli impieghi pubblici nel periodo napoleonico e nel 1820 s’impegnò nel movimento costituzionale. Cfr. R. PERSIANI, Alcuni ricordi, cit., fasc. 7, pp. 350-1.

(23) Carlo Filippo de Berardinis (Lanciano 1754 – Chieti 1831), amico di Antonio Madonna, anch’egli studiò diritto e fu presto iniziato alle idee massoniche. Nel periodo napoleonico fu giudice criminale a Chieti e presidente di tribunale a Teramo e a L’Aquila. Dopo i moti del ’20 si ritirò a vita privata. Cfr. R. PERSIANI, Alcuni ricordi, cit., fasc. 7, pp. 351-2.

(24) Giuliano Crognale (Castelfrentano 1770-1862), artista più che politico, ebbe l’incarico di segretario del Consiglio Supremo dal Coutard, che si entusiasmò delle sue miniature. Nel giugno ’99 fu catturato dal capomassa Fioravante Giordano al quale, per salvarsi, dedicò un poemetto dal tono decisamente anti-francese. Incluso dal visitatore Ferrante fra i principali "rei di Stato", fuggì a Fermo dove rimase fino all’amnistia. Cfr. R. PERSIANI, Alcuni ricordi, cit., fasc. 7, pp. 352-5.

(25) Ivi, a. XVII, fasc. 7-8, 1902, pp. 435-42. Il testo delle leggi è stato poi esaminato da L. COPPA-ZUCCARI, L’invasione francese, cit., v. I, p. 66 n. e pp. 799-800; v. II, pp. 884-7. della legge sull’indulto parla Delfico in una sua Memoria, che esamineremo più avanti; e il Comandante in Capo, Coutard, in un documento diretto ai repubblicani di Vasto; cfr. M. BATTAGLINI, Atti, leggi, proclami ed altre carte della Repubblica napoletana 1798-1799, Napoli 1983, v. II, p. 1359.

(26) Ivi, v. II, p. 884.

(27) Il testo è riprodotto in Melchiorre DELFICO, Opere complete, a cura di Giacinto PANNELLA e Luigi SAVORINI, Teramo 1901-1904, v. I, pp. 3-85. Il nesso tra eguaglianza e libertà si era cominciato a delineare già un anno prima nel Saggio filosofico sul matrimonio, che fu messo all’Indice. Ora in Opere, cit., v. III, pp. 85-143.

(28) Cfr. F. VENTURI, Illuministi, cit., pp. 1163-5.

(29) Cfr. Opere, cit., v. I, p. 49.

(30) La concezione moderata dell’eguaglianza, finalizzata più al ridimensionamento che all’annullamento delle disparità sociali, viene riaffermata in scritti successivi anche in polemica con le convulsioni rivoluzionarie della Francia. Nelle Riflessioni su la vendita dei feudi (1790) si parla di "frenetica uguaglianza che getta le società negli orrori dell’anarchia"; cfr. Opere, cit., v. III, p. 409.

(31) Sull’egualitarismo delficino come premessa dell’azione antifeudale insiste C. PETRACCONE, Rivoluzione e proprietà, cit., pp. 205-6.

(32) Edito a Napoli nel 1791 e più volte ristampato, lo scritto si trova in Opere, cit., v. I, pp. 93-227.

(33) Ivi, p. 225.

(34) La lettera è riportata da F. VENTURI, Illuministi, cit., p. 1176. Su questo aspetto cfr. anche Mario AGRIMI, La vicenda rivoluzionaria e le riflessioni sulla storia: Melchiorre Delfico, in "Itinerari", a. XXIII, 1984, n. 3, nuova serie, p. 83 e Anna Maria RAO, Napoli e la Rivoluzione (1789-1794), in "Prospettive Settanta", a. VII, 1985, nn. 3-4, p. 459.

(35) Cfr. Opere, cit., v. I, p. 103.

(36) La lettera ad Alberto Fortis, inviata da Napoli il 5 luglio 1791, è pubblicata da Maria Gabriella RICCOBONO, Contributo per l’epistolario di Melchiorre Delfico, in "La Rassegna della Letteratura Italiana", a. LXXXVII, 1983, n. 3, p. 412.

(37) Cfr. L. COPPA-ZUCCARI, L’invasione, cit., v. II, p. 884.

(38) Ivi, p. 886.

(39) Per un’analisi dell’assetto giurisdizionale repubblicano cfr. M. BATTAGLINI, L’amministrazione della Giustizia nella Repubblica Napoletana, in "Rassegna storica del Risorgimento", a. LXXII, 1985, fasc. 3, pp. 147-70 e in maniera ancor più approfondita nella citata conferenza di Pescara. Vedi anche a. M. RAO, L’ordinamento e l’attività giudiziaria della Repubblica Napoletana del 1799, in "Archivio Storico per le Province Napoletane", a. XII, terza serie, 1974, pp. 73-145, in particolare le pp. 87-8 in cui si fa riferimento al Piano di giustizia preparato dal Delfico.

(40) Cfr. R. PERSIANI, Alcuni ricordi, cit., p. 442.

(41) Nella missiva, spedita da Teramo, Delfico precisa di aver scritto all’amico altre due lettere "colla nuova formula Repubblicana" e sintetizza le proprie vicissitudini dall’ingresso a Teramo dei francesi all’insediamento a Pescara. Cfr. Saggio dell’Epistolario, cfr. Opere, cit., v. IV, pp. 112-3.

(42) Cfr. Giovanni DE CAESARIS, Melchiorre Delfico (nel primo centenario della sua morte), in "Atti del XXIII Congresso di Storia del Risorgimento Italiano", Roma 1940, p. 93.

(43) Cfr. Monitore, cit., pp. 619-20 e n.

(44) La Memoria autografa, senza precisa intestazione, fa parte del Fondo Delfico, busta inediti, n. 417, in via di definitiva sistemazione da parte della Biblioteca Provinciale di Teramo "Melchiorre Delfico". Il manoscritto è composto di due blocchi fi fogli cuciti fra loro per un totale di ventitré fogli scritti su una sola colonna.

(45) Cfr. Memoria, cit., p. 1. La parte preponderante del documento è dedicata alla minuta ricostruzione delle vicende teramane nel 1798-99.

(46) "Tale operazione di ricucitura", commenta il Clemente, sarà poi ripetuta da Delfico in altri scritti e finirà per condizionare i primi biografi del pensatore. Cfr. V. CLEMENTE, Rinascenza teramana, cit., p. 18.

(47) Cfr. Memoria, cit., p. 63.

(48) Ivi, p. 67.

(49) Tale versione delficina si differenzia da quella del suo maggiore biografo cfr. Gregorio DE FILIPPIS DELFICO, Conte di Longano, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico. Libri due, Teramo 1836, pp. 51-2, in cui si parla dell’aggressione e del furto del bagaglio da parte del popolo in rivolta mentre Delfico si sta imbarcando alla volta delle Marche. De Filippis Delfico ha continuato l’opera col titolo Notizie intorno alle opinioni filosofiche ed alle opere di Melchiorre Delfico in "Giornale Abruzzese di Scienze, Lettere ed Arti", a. VI, 1841, v. XVIII, n. 44, pp. 147-73; a. VII, 1843, v. XXI, n. 63, pp. 129-53 e v. 66, pp. 163-71.

(50) Cfr. Delio CANTIMORI, Illuministi e giacobini, in La cultura illuministica in Italia, a cura di M. FUBINI, Torino 1957, p. 271.

 (51) Per una efficace ricognizione di questo dibattito cfr. Ivan TOGNARINI, Giacobinismo, rivoluzione, Risorgimento. Una messa a punto storiografica, Firenze 1977 e Giuseppe GALASSO, I giacobini meridionali, in "Rivista storica italiana", a. XCVI, 1984, fasc. 1, pp. 69-104.

(52) Cfr. M. G. RICCOBONO, Contributo, cit., p. 400. Sull’evoluzione politica in senso radicale di Delfico si sofferma anche Armando DI NARDO, Storia e scienza in Melchiorre Delfico, Chieti 1978, pp. 83-5.

(53) Cfr. Opere, cit., v. III, pp. 267-323.

(54) Ivi, v. IV, p. 145; in una lettera del 1789 inviata dallo Spannocchi al Teramano si può leggere: "Che cosa dite dei Francesi? Danno de’ bei colpi al Despotismo e l’assemblea può finire tranquillamente il suo lavoro, tutta l’Europa ne sentirà in breve l’influenza. Anche i vostri due regni parteciperanno di questo benigno influsso e voi sarete il Neker [sic!] della nazione". Vedi anche A. M. RAO, Napoli, cit., pp. 410-3.

(55) La lettera, inviata da Ascoli il 14 settembre 1788, si trova in Epistolario di Melchiorre Delfico a San Marino, a cura di Angelo LETTIERI, Teramo 1985, p. 18. Parlando di un probabile incontro a Teramo col visitatore Codronchi, Delfico osserva: "Temo forse che sia stato spedito in Abruzzo ad oggetto principalmente di rovesciare il bene che ho procurato di farci, e che mi è costato tanta pena e fatiga che è l’abolizione della Grascia e la riduzione dei Stucchi…".

(56) Cfr. V. CLEMENTE, Rinascenza teramana, cit., p. 312.

(57) L’espressione fa riferimento alle argomentazioni di F. VENTURI, nell’Introduzione all’opera Illuministi, cit., pp. XV-XVI.

(58) Ivi, p. 1176 che in questa posizione accomuna Delfico a Galanti. Vedi anche a. M. RAO, Napoli, cit., pp. 412 e ss.

(59) Cfr. V. CLEMENTE, Rinascenza teramana, cit., p. 312.

(60) Ibidem.

(61) Cfr. M. G. RICCOBONO, Contributo, cit., p. 409.

(62) F. VENTURI, Illuministi cit., p. 1178.

(63) Cfr. M. G. RICCOBONO, Contributo, cit., p. 398 e V. CLEMENTE, Rinascenza teramana, cit., p. 391.

(64) Cfr. M. G. RICCOBONO, Contributo, cit., pp. 397-8. Sull’episodio e sulle implicazioni politiche si veda Nicola NICOLINI, La spedizione punitiva del Latouche-Tréville (16 dicembre 1792) ed altri saggi sulla vita politica napoletana alla fine del secolo XVII, Firenze 1939.

(65) Il pesante clima repressivo viene descritto con efficacia dal Colletta: "Esposti più d’ogni altro all’ira del Governo e alle trame delle spie erano i dotti e i sapienti… I libri di Filangieri furono sbanditi, e in Sicilia bruciati, il Pagano, il Cirillo, il Delfico, il Conforti erano mal visti e spiati; cessarono ad un tratto le riforme di Stato…". Cfr. Pietro COLLETTA, Storia del Reame di Napoli dal 1735 al 1825, Capolago 1834, t. I, lib. III, pp. 254-5.

(66) Parte di questa famosa lettera è stat pubblicata per la prima volta nelle Opere, cit., v. IV, pp. 108-10. Poi è stata oggetto di un’ampia analisi da parte di V. CLEMENTE, , Rinascenza teramana, cit., p. 451 e M. G. RICCOBONO, Contributo, cit., pp. 413-6.

(67) Cfr. V. CLEMENTE, , Rinascenza teramana, cit., pp. 452-5.

(68) Ivi, p. 463. Lo sfogo epistolare è diretto all’amico Fortis ed è datato Napoli, 23 settembre 1794.

(69) Ivi, pp. 463-4. Un frammento, con data 25 settembre, si può leggere in Opere, cit., v. IV, p. 110.

(70) Cfr. M. AGRIMI, La vicenda rivoluzionaria, cit., p. 85.

(71) Lettera inviata al Fortis da Napoli il 14 ottobre 1794 in V. CLEMENTE, , Rinascenza teramana, cit., pp. 464.

(72) Ibidem.

(73) Ivi, p. 465. Clemente data questa lettera al Fortis 26 ottobre 1794 mentre la Riccobono, Contributo, cit., p. 416, la ritiene spedita il 28 ottobre. Un breve stralcio si trova in Opere, cit., v. IV, pp. 110-1, datato 24 ottobre

(74) Lettera al Fortis del 4 novembre 1794 in M. G. RICCOBONO, Contributo, cit., pp. 417-8; già parzialmente pubblicata in Opere, cit., v. IV, pp. 111-2.

(75) Cfr. G. DE FILIPPIS DELFICO, Della vita, cit., p. 47.

(76) Cfr. V. CLEMENTE, , Rinascenza teramana, cit., pp. 470-1.

(77) Ibidem. Lettera a Fortis, che si trova a Parigi, del 20 dic. 1796.

(78) Lettera a Fortis del 7 gennaio 1797 in M. G. RICCOBONO, Contributo, cit., p. 419.

(79) Sull’episodio vedi, tra gli altri, Carlo CAMPANA, Un periodo di storia di Teramo e Della scienza e delle lettere in Teramo, Teramo, 1911, p. 14 e n.

(80) Su questo diverso atteggiamento insiste V. CLEMENTE, , Rinascenza teramana, cit., pp. 478-81.

(81) Per le tumultuose vicende teramane di fine secolo si veda l’ampia ricognizione storiografica, corredata da documenti, di L. COPPA-ZUCCARI, L’invasione francese, cit., v. I, pp. 719-35; 740-2.

(82) In proposito Cuoco osserverà "… il governo nelle provincie era muto, né più si udiva la sua voce". Cfr. Vincenzo CUOCO, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, Milano 1820, p. 163. Per un quadro d’insieme del fenomeno dell’insorgenza nella regione si veda Raffaele COLAPIETRA, Le insorgenze di massa nell’Abruzzo in età moderna, in "Storia e politica", a. XX, 1981, fasc. 1, pp. 1-46 e Umberto DANTE, Insorgenza ed anarchia. Il Regno di Napoli e l’invasione francese, Salerno 1980.

(83) In proposito si veda l’efficace analisi della Petraccone tendente ad individuare l’identità di classe di questi personaggi. Cfr. C. PETRACCONE, Rivoluzione  proprietà, cit., pp. 199-214 e ss.

(84) Alla presidenza dell’amministrazione centrale a Chieti si insediò in un primo tempo Antonio Nolli, di cui ci occuperemo più avanti, e poi Pietro de Sterlich, aristocratico "illuminista" amico del Beccaria. Condannato ad otto anni di esilio, tornò sulla scena politica nel periodo napoleonico. Cfr. L. COPPA-ZUCCARI, L’invasione francese, cit., v. I, p. 949. Altra figura di spicco nell’ambiente teatino è quella del vescovo Francesco Saverio Bassi (1745-1821), uno dei pochi "preti giacobini" in Abruzzo. Nel ’99 fece leggere durante le funzioni religiose brani del filosofo francese Mably, che era stato proibito da re Ferdinando, e nei primi anni dell’ottocento mostrò comprensione verso le cospirazioni carbonare. Cfr. Beniamino COSTANTINI, Moti d’Abruzzo dal 1798 al 1860 e il Clero, in "Rassegna di Storia e d’Arte d’Abruzzo e Molise", a. III, 1927, fasc. 1, nn. 1-2, pp. 22-9. A Pescara tra i "rei di Stato" è citato anche il giovanissimo Giuseppe de Thomasis (1767-1830) che fu "autore di un piano di politica sparso di Massime Repubblicane", cfr. L. COPPA-ZUCCARI, Notamenti, cit., p. 66. Discepolo del Galiani, il De Thomasis s’impegnò nell’azione antifeudale nel periodo napoleonico.

(85) Monitore, cit., p. 22.

(86) Ivi, pp. 34-5 n.

(87) Antonio Nolli (1755-1830) nominato dal generale Duhesme prima capo della Municipalità di Chieti e poi Presidente dell’amministrazione centrale, non fu mai arrestato ma sostituito nella carica. Come Delfico, fu chiamato a Napoli senza poter recarvisi. Cfr. L. COPPA-ZUCCARI, L’invasione francese, cit., v. I, pp. 1101-2.

(88) Monitore, pp. 98-9 e n.

(89) Ivi, p. 695 (in cui si evidenzia che la lettera è riportata soltanto nell’edizione del giornale pubblicata dal Croce).

(90) Ivi, p. 696.

(91) In proposito cfr. M. BATTAGLINI nella sua introduzione al Monitore cit., pp. XXXI-XXXIII.

(92) Cfr. Saggio dell’Epistolario, Opere, cit., v. IV, pp. 112-3.

(93) Cfr. C. PETRACCONE, Rivoluzione  proprietà, cit., p. 204.

(94) Nel suo primo Quaderno Antonio Gramsci osserva: "Il Partito d’Azione segue la tradizione ‘retorica’ della letteratura italiana. Confonde l’unità culturale con l’unità politica e territoriale. Confronto tra giacobini e Partito d’Azione: i giacobini lottarono strenuamente per assicurare il legame tra città e campagna; furono sconfitti perché dovettero soffocare le velleità di classe degli operai". Cfr. A. GRAMSCI, Quaderni del Carcere, a cura di Valentino GERRATANA, Torino 1975, p. 43.

(95) Assai efficacemente Venturi definisce il Teramano "uno dei più veramente cosmopoliti e dei più autenticamente provinciali tra i riformatori meridionali nel secondo Settecento". Cfr. F. VENTURI, Illuministi, cit., p. 1161. 

(96) La Memoria sulla coltivazione del riso nella provincia di Teramo, Napoli 1783, si trova in Opere, cit., v. III, pp. 183-217.

(97) Cfr. F. VENTURI, Illuministi, cit., p. 1168-9.

(98) Cfr. M. AGRIMI, La vicenda rivoluzionaria, cit., p. 91.

(99) Cfr. Opere, cit., v. I, p. 216.

(100) Garosci per questo costante impegno a favore delle aree arretrate del regno napoletano ha parlato di un precoce meridionalismo. Cfr. Aldo GAROSCI, San Marino. Mito e storiografia tra libertini e il Carducci, Milano 1967, p. 171.

(101) Per il testo si vedano le Opere, cit., v. III, pp. 293-305 e v. IV, pp. 633-44. Nelle ultime pagine della Fiera franca Delfico si richiama esplicitamente al periodo riformista della monarchia di Ferdinando IV e al proprio impegno innovatore.

(102) Cfr. Fiera franca in Pescara, in Opere, cit., v. III, pp. 294-5.

(103) Ivi, p. 298. Sui benefici indiretti determinati dalla fiera franca l’Autore torna a pp. 302-3.

(104) Ivi, p. 296.

(105) A contendere alla piazzaforte adriatica la candidatura di sede portuale c’erano altre località come Vasto, Ortona e Giulianova. In proposito si veda il serrato dibattito successivamente sviluppatosi sulle pagine del giornale "Gran Sasso d’Italia", nel biennio 1840-1842.

(106) Cfr. Breve cenno, in Opere, cit., pp. 642-4.

(107) La scelta d’impegno emerge in uno scritto del 1784, Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, ora in Opere, cit., v. III, pp. 225-60. In proposito vedi A. DI NARDO, Storia e scienza in M. Delfico, cit., pp. 49-53.