Melchiorre Delfico e il decennio
rivoluzionario |
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di Gabriele Carletti
In Il 1799 in Abruzzo. Atti del Convegno (Pescara-Chieti,
21-22 maggio 1999) a cura di Umberto Russo – Raffaele Colapietra – Paolo
Muzi, L’Aquila, Edizioni Libreria Colacchi, 2001, vol. II, pp. 1155-1181
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1. 1. La
rivoluzione francese
La notizia della
rivoluzione francese raggiunge Delfico lontano dal Regno napoletano, mentre si
trova nel Nord Italia, dove si era recato nel novembre del 1788 per accompagnare
a Pavia il nipote Orazio che studiava Scienze naturali sotto la guida di Volta e
Spallanzani e per allontanarsi da quella Napoli governativa verso la quale aveva
provato ultimamente "spesso ribrezzo" (1)
per la sua ambiguità politica.
Durante il soggiorno egli ha modo di seguire con interesse sia il dibattito
politico che si sviluppa in Francia prima della presa della Bastiglia, sia gli
eventi rivoluzionari e l'attività dell'Assemblea Costituente che trovano ampia
risonanza sui numerosi periodici e gazzette allora in circolazione (2).
Vi è anzi motivo di credere che, oltre a seguire, egli guardasse con simpatia a
quanto accadeva oltralpe (3).
La
rapidità e la determinazione con cui si stava conducendo l'attacco contro l'Ancien
Régime spingono Delfico a ritenere che gli avvenimenti di Francia possano
servire - come scriveva Pietro Verri – "di modello agli altri popoli" (4).
Egli è convinto che la rivoluzione francese favorisca il progetto riformatore e
porti "finalmente a maturazione le questioni da tanto tempo sollevate e
discusse" (5).
Tutt'altro che una minaccia dunque, come invece credono sin dal primo momento i
governi, in particolare quello napoletano (6),
"la Rivoluzione della Gallia", afferma Delfico, costituisce "un esempio
favorevole per i Principi savj, che non devono aspettare gli eccessi de'
disordini pubblici, ma ristabilire in tutti i rami dell'Amministrazione la
Giustizia relativa ai diversi oggetti di essa" (7).
L'estensione dell'ondata rivoluzionaria agli Stati italiani poteva essere
evitata soltanto a condizione che i governi non avessero più indugiato ad
adottare un'organica e radicale politica riformistica.
Rianimato da queste speranze, nel dicembre del 1789, dopo aver fatto da poco
ritorno nella sua città natale (8),
Delfico si trasferisce a Napoli
sia perché "dopo aver
goduto e veduto tanto di buono" la vita di provincia, confida all'amico Fortis,
gli sarebbe "insopportabile", sia, soprattutto, "per la patria che quanto più è
tapina, tanto più ha bisogno degli uffizj di qualche anima che senta la
commiserazione" (9)
e fornisca lumi ad un governo che sempre più mostrava di trascurare le questioni
della massima importanza.
Nel capoluogo partenopeo
l'illuminista teramano pubblica nell'estate del 1790 le Riflessioni su la
vendita dei feudi in cui, riprendendo alcune tesi esposte nella Memoria
per la vendita de' beni dello Stato d'Atri del 1788 (10)
e ispirandosi al dibattito costituzionale d'oltralpe, conduce un attacco più
diretto ed esplicito contro il sistema feudale e la giurisdizione baronale in
particolare con una foga, un vigore e degli argomenti che "nulla hanno da
invidiare - ha scritto Villani - alla chiarezza ed all'eloquenza del Filangieri"
(11).
All'attività
dell'Assemblea Costituente Delfico guarda con grande interesse, mostrando
entusiasmo per il lavoro svolto e ottimismo per i provvedimenti da adottare.
Egli stesso ne ammette esplicitamente l'influenza sul suo pensiero, nel 1791, a
proposito del suo libro, Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza
romana e de' suoi cultori, dichiarando che esso è nato oltre che "dalle
impressioni continue e continuamente ripetute della nostra Dispotica Anarchia",
anche "da quelle che ci vengono da più lontana parte ed eccitano nell'animo
salutari desiderj" (12).
Le Ricerche (13)
rappresentano "la più forte manifestazione del pensiero illuministico italiano
nei confronti del diritto romano" (14),
cui viene negato ogni valore. Ad emergere è l'idea di un sistema legislativo
nuovo, "uguale ed uniforme per tutti gl'individui" (15),
che a differenza di quello vigente, troppo legato alla tradizione romana,
risulti più inerente "all'indole delle nazioni e dei governi presenti" (16).
Evidente, nel discorso generale e in quest'ultimo passaggio in particolare, la
convinzione della impossibilità di correggere "parzialmente" i difetti della
legislazione, senza cioè "una cura integrale" (17),
in polemica con quanti credevano invece che bastasse "somministrare particolari
riparazioni" o fosse sufficiente richiamare all'onestà e alla virtù coloro che
proprio dal disordine e dal caos giuridico traevano i maggiori vantaggi e si
mostravano per questo diffidenti o contrari verso ogni novità. La necessità di
un codice tutto nuovo nasce anche dal carattere di inadeguatezza che qualsiasi
codificazione inevitabilmente assume nel tempo, a conferma della coesistenza in Delfico, come in altri illuministi napoletani, di una componente relativistica,
di stampo montesquiano, e di un'esigenza razionalistica (18).
Sull'esempio di
quanto accadeva oltralpe, lo scrittore abruzzese rivendica, accanto ad una
legislazione stabile e regolare, una legittima costituzione "che ne sia il
presupposto e ne costituisca il necessario fondamento" (19).
In altre parti dell'opera, l'esperienza dell'Assemblea Costituente influisce in
modo ancor più diretto. Basti pensare al principio della divisione dei poteri
che, respinto fino al 1790 viene ora accolto come principale e più sicuro
rimedio contro il dispotismo (20).
Manifesta è soprattutto l'esigenza di autonomia del potere legislativo di cui
rivendica la legittima appartenenza al popolo: è "una verità fondamentale -
scrive Delfico - che le leggi debbano essere l'emanazione della pubblica o della
generale volontà", vale a dire "la vera espressione legittima del potere
legislativo" (21).
Ne consegue che, ogni qualvolta non siano emanate da questa autorità, esse non
possono considerarsi tali perché non costituiscono "un atto del popolo" né tanto
meno possono essere obbligatorie per i cittadini quelle leggi che nella loro
formulazione abbiano avuto "più parte le opinioni private che la volontà
generale" (22).
La lotta contro la
vecchia società gerarchica e aristocratica e la difesa dei diritti non portano
all'affermazione di una democrazia diretta di stampo roussoiano, ma di uno stato
di tipo costituzionale e rappresentativo. Con Sieyès e contro Rousseau, Delfico
ha modo di sottolineare che la "volontà pubblica" non è che "il risultato delle
volontà particolari" (23).
Il suo sistema politico si fonda sull'uguaglianza delle leggi, sulla
divisione dei poteri, sul conferimento dell'autorità legislativa al popolo,
sulla rappresentanza politica senza restrizioni di rango o di censo e sul
decentramento dell'amministrazione della giustizia attraverso lo stabilimento di
magistrature locali e provinciali.
Egli non si allontanò mai
da una soluzione di tipo monarchico-costituzionale. Alla politica illuminata del
sovrano e ad una sua "certa sagacità ed attenzione" restano per lui legate le
condizioni di cambiamento della società meridionale. Di fronte al problema,
assai discusso in Francia, della forma costituzionale da preferire, se erigersi
in Repubblica o mantenere il Re "coll'assegnargli un Consiglio permanente", lo
scrittore abruzzese si pronuncia a favore della seconda soluzione dichiarando di
essere "stato sempre monarchico" e di ritenere la "vera Monarchia quella che
ammette più diverse libertà" (24).
2. La crisi
del riformismo
Nonostante tuttavia la sua predilezione per la
monarchia, a partire dalla seconda metà del 1791 si ravvisa in Delfico un
conflitto tra l'ottimismo generato dalle vicende francesi, che lo spinge a
credere ancora nell'intesa tra dinastia borbonica e intellettuali, e il
crescente scetticismo nei confronti della volontà governativa di attuare un
programma di rinnovamento.
Un primo segnale
di tale involuzione egli riscontra nel Concordato che i Reali di Napoli, al loro
rientro da Vienna, hanno stipulato con la Santa Sede, nell'aprile del 1791, su
iniziativa dello stesso Acton.
Emblematica è
anche la crisi del ruolo del Consiglio delle Finanze, un tempo cassa di
risonanza di molteplici proposte riformistiche. Nonostante il rimpasto
ministeriale del 1791, con il quale spera, invano, di ottenere un posto di
consigliere soprannumerario (25),
alimenti in lui un cauto ottimismo sull'attività futura del Consiglio, non
nasconde però una certa perplessità sulla sua effettiva capacità (volontà) di
rimuovere le "cagioni fondamentali" (26)
che ostacolano la realizzazione di un avvenire migliore.
A rafforzarlo in
quest'idea sarà anche l'amico Domenico Di Gennaro, duca di Cantalupo, che nei
mesi successivi gli confiderà tutta la sua delusione di fronte alla eccessiva
esitazione del Consiglio e del suo nuovo direttore, il marchese Giuseppe
Palmieri, di adottare i provvedimenti necessari a tale scopo e di liberarsi
definitamente di quei «quattro forensi»
(27)
che tenacemente continuavano ad opporsi ad ogni tentativo di riforma.
Deluso, Delfico decide di
abbandonare la capitale dove si sorprende sempre più spesso "scontentissimo" e
in cui si accorge di quanto la "lentezza sciroccale" abbia contagiato perfino
gli uomini migliori, diffondendo ovunque "un moto di desolazione" (28).
Il rientro a Teramo, nel dicembre del 1791, segna la fine di un periodo di
grande impegno politico e letterario, al termine del quale vede svanire la
possibilità che la rivoluzione francese imprima un nuovo impulso alla politica
del governo napoletano.
Nella lontana e
tranquilla provincia Delfico lamenta subito la "tardanza" e la "scarsezza" delle
notizie francesi (29),
alle quali non riesce a supplire né con la lettura dell'«Analisi ragionata de'
libri nuovi», il periodico napoletano che sebbene proiettato verso una "decisa
opzione riformatrice saldamente ancorata alla monarchia assoluta" (30),
aveva assunto sin dall'inizio un atteggiamento antifrancese, né con quella del
veneziano «Nuovo Giornale enciclopedico d'Italia» che Fortis, il quale vi
collabora, gli fa pervenire.
Alla fine del
1791, per il Teramano la Francia continua a rappresentare un polo d'attrazione,
nonostante egli non nasconda una certa "trepidazione" di fronte ad "alcune
trascuraggini" rilevate nella Costituzione, allo scioglimento dell'Assemblea
Costituente, alla celerità di alcune risoluzioni, alla incompiuta riforma
dell'Amministrazione e dell'organizzazione interna (31).
Oltre che per la
situazione interna, sempre più cresce la sua apprensione per la politica estera
della nazione francese, specie all'indomani della dichiarazione di guerra
all'Austria, nell'aprile del '92. Da Napoli il duca di Cantalupo, sulla base di
indiscrezioni di corte, gli conferma che l'Europa è "alla vigilia di grandi
avvenimenti e tutti funesti all'Umanità" (32).
Più scettico e senz'altro
più disilluso appare all'inizio del nuovo anno, dopo l'esecuzione di Luigi XVI e
la dichiarazione di guerra della Francia all'Inghilterra e all'Olanda che
avrebbe di lì a poco trascinato nella mischia anche il Regno di Napoli: Nei mesi
successivi, la sua maggiore preoccupazione sarà data più che dagli sviluppi
giacobini della rivoluzione francese, dalla politica repressiva del governo
napoletano, a causa della quale sarà costretto a dare formale prova del suo
lealismo monarchico in seguito ad alcune delazioni. Si legge nella lettera al
Fortis del 7 novembre 1793: "Ti scrissi che de' malevoli di Napoli fra quali il
Vescovo (33)
in unione colla magistratura mi avevano formata la più estesa riputazione di
giacobinismo. Si venne alla denuncia formale contro vari cittadini (…), ma la
prudenza e l'innocenza della mia condotta non diede campo ad essere neppure
occasionalmente nominato nell'inquisizione" (34).
È un periodo, questo, di
grande sconcerto e delusione per quanti, come Delfico, avvertono i limiti della
politica ferdinandea. Alla fine del 1793 la consapevolezza che la grande
stagione riformistica sia definitivamente conclusa è radicata nell'animo del
Teramano. Essa segna l'inizio di una lunga interruzione della sua attività di
scrittore, a conferma di come egli ritenesse allora non solo vano ma addirittura
pericoloso farsi sostenitore di una politica di rinnovamento del Regno
napoletano.
Completamente
abbandonato è ogni riferimento alla Grande Nation. L'avversione per gli
eccessi rivoluzionari lo porta ad anticipare un modulo storiografico che avrà
fortuna negli anni successivi: la contrapposizione tra una prima fase della
rivoluzione, l'89, con le sue idee di libertà e di uguaglianza ed una fase
successiva, il '93, caratterizzata da "tanti orrori".
La sfiducia del Teramano
diverrà pressoché totale durante il soggiorno nella capitale partenopea tra la
primavera e l'autunno 1794. A Napoli s'imbatte in una città in preda alla più
forte "agitazione" (35).
È l'epoca della scoperta della congiura giacobina (36)
che porta all'arresto e alla condanna di numerosi patrioti ed esponenti
giacobini che, contrariamente a quanto si è a lungo creduto in seguito
all'interpretazione di Cuoco (37),
tanto "pochi" e così tanto "inesperti" oggi sappiamo non erano (38).
Coinvolto è pure l'amico e concittadino Odazi (39)
che Delfico considera innocente e spera invano venga presto scagionato. Cresce
l'insofferenza per la capitale, che si traduce anche in un abbandono degli
interessi intellettuali (40),
ed egli capisce che non è più tempo di "restare con chi ha assunto un dispotismo
assoluto" (41).
Ciò nonostante, Delfico è
ancora dalla parte del "buon Re", contro il "sedicente" Consiglio delle Finanze
e quanti approfittano del disordine generale per "regolare le cose a loro
piacere" (42).
Dal Sovrano si reca per perorare (ancora una volta) gli interessi della sua
provincia e per ottenere un beneficio personale (43),
fatto, quest'ultimo, che evidenzia una certa contraddizione con alcune posizioni
precedentemente assunte nella polemica antifeudale (44),
anche se forse tale richiesta è un tentativo per fugare ogni dubbio sulla sua
fede monarchica, di nuovo messa in discussione da un'ennesima denuncia anonima
(45).
L'inizio del
processo contro i rei di Stato segna, infine, il definitivo distacco da un mondo
divenuto per lui "più che mai odioso", dove "tutto è orrore" e in cui non si può
che "o lasciarsi opprimere o in altro modo più fatale soccombere" (46).
Persuaso "che non è più tempo di promuovere certi oggetti, e che si fa anzi
male" (47),
anticipa la partenza dalla capitale e decide di non farvi più ritorno fino a
quando non fosse avvenuto un "cangiamento di circostanze" che avesse ristabilito
"l'ordine, la calma, la sicurezza e tutto ciò che può rendere aggradevole un
soggiorno" (48),
sconsigliando chiunque a recarvisi (49).
L'accentuarsi
del carattere reazionario della politica napoletana non determina in Delfico,
come in altri illuministi, il passaggio "da regalista in giacobino" (50)
o repubblicano, anche perché egli, a differenza di molti di loro, non vede più
nella Francia del '93-'94 concretarsi i suoi ideali riformistici.
L'atteggiamento di assoluto isolamento che finisce per assumere di fronte alle
forze politiche e sociali esistenti testimonia la rassegnata attesa di tempi e
condizioni più favorevoli per una ripresa del processo riformatore solo
momentaneamente interrotto.
Alla fine di
ottobre del 1795 Delfico lascia di nuovo l'Abruzzo per compiere un secondo
viaggio fuori del Regno, dapprima a Roma, restandovi per circa un mese, quindi
in Toscana dove rimane fino alla primavera successiva (51).
A spingerlo verso il Granducato è una certa simpatia politica per quello Stato,
suscitata dalla mitezza del suo governo e dalla libertà che ancora vi regnava.
Nel capoluogo
toscano, dove finalmente può tornare a condurre la sua vita preferita, fatta di
frequentazioni di ambienti e uomini di cultura e ricca di sollecitazioni e curiosità (52),
egli sembra ritrovare la tranquillità necessaria per disporsi di nuovo
favorevolmente nei confronti della vita e degli uomini. Ed è col "massimo
dispiacere" che si allontana da Firenze, dolente di non potersi trattenere
ulteriormente (53),
ma felice di poter rincontrare a Pisa Giovanni Fantoni (54),
non prima di aver riabbracciato a Livorno l'amico Micali in partenza per la
Francia.
Ritornato a
Teramo agli inizi di maggio del 1796, lo raggiungono le notizie dell'avanzata
napoleonica in Piemonte e in Lombardia (55).
Ma non ne resta affatto sorpreso, forse perché a conoscenza della difficoltà che
Francesi e Piemontesi avevano incontrato nel concludere un accordo prima
dell'invasione.
Nessun dubbio
nutre sulle mire espansionistiche di Napoleone, di cui disapprova non solo le
condizioni gravose imposte alle città occupate, ma anche le innumerevoli
requisizioni, ruberie e saccheggi dei suoi soldati (56).
Ed è pertanto con sollievo che alla fine di luglio del 1796 vede allontanarsi il
pericolo di un'incursione in Abruzzo, dato che i Francesi avevano del tutto
evacuato la Romagna per far fronte all'offensiva austriaca condotta attraverso
il Trentino (57).
Ma poco importa il motivo, ciò che conta - scrive a Fortis - è che comunque "i
Repubblicani non si rivolgeranno per ora da questa parte" (58).
Nella seconda
metà del 1796 si riaccende nel Teramano l'interesse per la Grande Nation,
in quanto vede delinearsi nella vita politica del Direttorio la possibilità per
la Francia di riprendere e consolidare quel processo di trasformazione avviato
negli anni precedenti la parentesi giacobina. Ma ritiene necessario che si
elabori una "nuova vera" Costituzione onde evitare che si verifichi il ripetersi
di disordini (59),
alludendo probabilmente a quelli generati dalla congiura degli eguali di Babeuf
e da altri estremi tentativi insurrezionali. L'idea di una recrudescenza degli
eccessi rivoluzionari lo atterrisce e, come Fortis, spera che "le male arti de'
giacobini" (60) non abbiano il sopravvento. All'abate padovano confida di essere
particolarmente interessato ai "nuovi metodi" e ai "progressi politici" della
Francia e di sospirare il momento della pubblicazione del nuovo Codice di
legislazione, manifestandogli, tra l'altro, all'inizio del 1797 il desiderio
(mai realizzato) di compiere un viaggio transalpino (61).
Ma se da un lato
cresce l'entusiasmo per i progressi interni della Francia, dall'altro Delfico ne
condanna la politica espansionistica, tanto da biasimare quanti in Italia
continuano a riporre nell'occupazione francese le proprie illusioni
rivoluzionarie: "Io compatisco quei luoghi - afferma – ne' quali si è danzato
intorno all'albero della libertà, e dovranno ritornare allo stato antico" (62).
3. La
Repubblica napoletana
Immutato è il giudizio
sulla corte napoletana. Nonostante infatti nel corso del '97 egli accenni ad una
ripresa di dialogo con il governo borbonico (63), non scorge alcun cambiamento
nella sua politica. Sempre meno sopporta l'"incommodo"
del continuo accantonamento in provincia di truppe regie e la "sospettosa
curiosità" (64)
delle autorità verso ogni forma di corrispondenza. Dalla gelosia dei suoi nemici
dovrà guardarsi soprattutto nel 1798, quando verrà nominato portolano
della città di Teramo, con responsabilità amministrative di rilievo. La
situazione si aggraverà nell'estate di quell'anno, allorché alle trepidazioni
per una probabile invasione straniera si uniranno quelle per una nuova infondata
accusa di giacobinismo costruita ai suoi danni.
Sempre più si alimenta
il sospetto di una sua cospirazione antimonarchica, tanto che il 27 settembre
successivo sarà tratto in arresto, nel proprio palazzo, assieme a tutta la
famiglia (65).
Liberato l'11 dicembre 1798 dall'arrivo a Teramo delle truppe francesi (66),
è dapprima posto a capo della Municipalità della città e successivamente
nominato presidente dell'Amministrazione Centrale dell'Alto Abruzzo, per poi
essere chiamato, il 12 gennaio 1799, a presiedere a Pescara il Supremo Consiglio
(67),
l'organo politico più importante esistente in Abruzzo, che avrebbe dovuto
fungere da raccordo tra il comando francese e i due nuovi organismi repubblicani
- i Dipartimenti dell'Alto e del Basso Abruzzo - in cui il generale Duhesme, con
il proclama del 28 dicembre 1798, aveva diviso il territorio regionale.
Non vi è dubbio che la
collaborazione di Delfico con i Francesi, per quanto "piena e convinta" (68),
vada vista come il tentativo di reinserirsi nel giro di quella politica attiva,
nella quale egli da sempre confida. Non crediamo invece che tale partecipazione
segni il passaggio dello scrittore teramano dalla prospettiva
monarchico-riformistica a quella repubblicano-giacobina (69).
Egli non tiene presente, infatti, quello che può definirsi il momento "eroico"
della rivoluzione francese, le idee e la prassi dei jacobins, che Saitta
ha identificato "con il modello e il momento robespierrista" (70);
né l'esperienza provoca quella vera e propria "lacerazione" e "rottura" nella
sua biografia intellettuale che Galasso ha riscontrato invece nei riformisti
meridionali passati alla rivoluzione (71).
Tensioni ideali e finalità pratiche continuano ad essere, anche durante la
parentesi repubblicana, le stesse che lo hanno animato in tante battaglie del
passato. Persino il Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia pei
Tribunali dei Dipartimenti e Giudici dei Cantoni (72)
del 24 piovoso anno VII (12 febbraio 1799), l'atto legislativo più importante
del Consiglio Supremo pescarese col quale viene introdotto un nuovo ordinamento
giudiziario e in cui maggiore è l'istanza egualitaria, non sembra discostarsi da
certi suoi principi e aspirazioni precedentemente espressi.
Il Piano, che si inserisce fra i provvedimenti di riforma del sistema
giudiziario adottati dalla Repubblica napoletana (73),
sancisce, in nome delle idee di libertà e di eguaglianza, il decentramento
dell'autorità giudiziaria, prevedendo un giudice per ogni capoluogo di cantone e
un tribunale per ogni capoluogo di dipartimento; l'amministra-zione gratuita
della giustizia e la corresponsione di uno stipendio ai giudici e a tutti coloro
che collaboravano all'attività giudiziaria; l'assistenza gratuita ai poveri; la
"prontezza" e "l'imparzialità" dei giudici nell'applicazione delle norme;
l'abolizione della carcerazione per debiti, a meno che non venga provata la
"frode" del debitore; il controllo dell'attività giudiziaria nonché la
possibilità di ricorrere in appello.
Sono questi i tratti
salienti del provvedimento con il quale Delfico, che ne è l'ispiratore, mira a
ristabilire quella "pubblica tranquillità" e quella "sicurezza", necessarie per
il raggiungimento della "felicità dell'uomo sociale" (74), perseguibile
attraverso buone leggi ed un saggio governo, la cui "bontà",
tuttavia, è determinata più che dalla forma, dalla linea politica adottata. Ciò
induce l'Autore a non riconoscersi a priori in un governo precostituito, bensì
solo in quello la cui manovra politica non si riveli inconciliabile con le sue
aspirazioni di rinnovamento sociale.
La collaborazione con i
Francesi, tutt'altro che imposta o fittizia, si rivela sin dall'inizio libera e
attiva (75),
non solo per motivi di prestigio o perché la loro presenza pone fine ad una
incresciosa vicenda personale, quanto soprattutto perché sembra fornire
l'occasione per imprimere una svolta politica nel Napoletano. Volentieri egli si
sarebbe portato nella capitale partenopea dove, il 23 gennaio 1799, era stato
nominato membro del Governo Provvisorio dal comandante in capo Championnet. Ma a
Napoli Delfico non potrà recarsi mai a causa delle insorgenze antifrancesi. Di
qui il rammarico per non poter partecipare all'attività legislativa del Governo
Provvisorio (76)
a cui muove l'accusa di aver non solo "abbandonato" ma addirittura "obliato" le
province abruzzesi, lasciando che ovunque si verificassero "le più ferali
tragedie" ad opera di briganti e di scorribande antifrancesi (77).
Non è da escludere a
questo punto che proprio durante il periodo pescarese Delfico abbia elaborato,
secondo una prassi piuttosto diffusa in Italia nel triennio rivoluzionario (78),
una Tavola dei Dritti e dei Doveri dell'uomo e del Cittadino (79).
Il testo, che si ispira alle Dichiarazioni francesi dei diritti dell'89,
del '93 e del '95, proclama l'uguaglianza davanti alla legge; riconosce i
diritti inalienabili di libertà, sicurezza, proprietà, resistenza
all'oppressione e i doveri inviolabili di subordinazione, benevolenza, giustizia
e obbedienza alle leggi. Fa risiedere la sovranità nella Nazione, cui spetta,
attraverso i suoi rappresentanti, emanare le leggi, stabilire le imposizioni,
cambiare la costituzione e il governo. Ritiene la legge l'espressione della
volontà generale e afferma, in linea con quanto sostenuto anche nel Piano di
una amministrazione provvisoria di giustizia, la responsabilità dei
funzionari pubblici. Ammette la possibilità di armarsi contro ogni forma di
manifesta violenza e di tirannia e non esclude il ricorso all'insurrezione, ma
solo in casi estremi, mentre condanna le rivolte e i perturbatori dell'ordine
pubblico, per odio forse delle sommosse che si stavano verificando agli inizi
del '99 e di quanti sobillavano le masse contro le nuove istituzioni.
Il 28 aprile 1799, di
fronte al crescente stato di abbandono delle province abruzzesi e alla partenza
dei Francesi da Teramo, Delfico preferisce, prima ancora della caduta della
Repubblica napoletana, lasciare Pescara e sotto il falso nome di Carlo Cauti
riparare via mare nelle Marche, per poi raggiungere nel settembre successivo San
Marino (80).
Nella piccola Repubblica rimarrà fino al 1806, quando Giuseppe Bonaparte,
divenuto re di Napoli, in giugno lo chiamerà al suo fianco con la carica di
consigliere di Stato.
4. La
riflessione sul decennio
Durante il
soggiorno sammarinese Delfico si interrogherà a lungo sulla "tempestosa crisi"
di fine secolo di cui, come Francesco Lomonaco (81),
Giuseppe Maria Arrighi (82)
e soprattutto Vincenzo Cuoco, con il quale è in contatto (83),
critica l'"immatura ed intempestiva" manifestazione (84),
come pure il metodo rivoluzionario, ritenuto "distruttivo". La confusione dei
principî, l'eccesso di passioni assieme a mal fondati calcoli fecero nascere
delle idee politiche così "mostruose" che per i loro intrinseci difetti non
poterono a lungo sopravvivere.
Fu la Francia,
afferma, a far "sorgere dei canoni politici falsi e irregolari. Si disse -
presto e male - e forse questo fu giusto nella loro situazione; ma quando non è
dettato dalle circostanze, è una misura contraria al fine" (85).
Alla condanna dell'astrattezza dei "dogmi dei politici novatori" segue il
rifiuto di derivazione montesquiana del loro "portentoso progetto di estendere
questa forma di civile associazione su tutto l'universo" e di voler applicare a
tutti i popoli e a tutti gli stati "le leggi di questa politica cosmogonia" (86).
Per quanto riguarda l'Italia, "abbagliata ed attonita non ebbe tempo a
riflettere, che le confuse proclamazioni di libertà, benché le provenissero da
quella nazione che aveva prodotti i più grandi filosofi politici del secolo, Montesquieu, Rousseau, Sieyès, pure non aveva mai essa veduta la libertà in
propria casa, mai ne aveva avuta la pratica né la finezza del senso e il gusto
per conoscerla, così non poteva avere le forze intellettuali e le qualità morali
per effettuare una tale palingenesia" (87)Dal ripensamento
della vicenda rivoluzionaria Delfico trae l'indicazione della necessità di un
recupero della tradizione storica nazionale: "Se si fosse consultata la storia
d'Italia con qualche diligenza, si sarebbe trovato, che lo spirito di ragione e
di moderazione fece dell'Italia il soggiorno o la sede della libertà nei secoli
più remoti" (88).
A questo senso di moderazione l'Italia deve continuamente richiamarsi e "gli esempli recenti ed i fatti antichi devono persuaderla, che non vi è altro mezzo
alla sua tranquillità, alla sua felicità" (89).
La critica delficina dell'esperienza rivoluzionaria si risolve in definitiva più che in un
"politico scetticismo", nella ricerca di una linea politica "saggia" e
realistica, che non miri alle "magiche trasformazioni" ma proceda per
"proporzionate graduazioni" alla realizzazione di un programma costituzionale
(antifeudale e anticuriale), "cui è lecito di aspirare" (90).
Tutta l'attenzione è rivolta alla individuazione di modi civili più adatti e
convenienti all'umana convivenza i quali, più che nelle forme politiche
stereotipe, egli ritiene realizzabili, riprendendo una definizione vichiana (91),
nei "governi umani", di cui proprio il piccolo Stato di San Marino, nonostante
il suo processo di incivilimento avesse subìto arresti ed involuzioni,
rappresentava un modello politico reale che, in modo non utopistico, "mostrava
non essere impossibile alla specie umana una tal forma di società" (92).
Non
sembra che negli anni successivi Delfico sia più ritornato sugli avvenimenti del
1799, mentre ha lasciato alcuni appunti sulla rivoluzione francese che recano
come intestazione Viste politiche e morali sugli effetti della rivoluzione
(93).
In essi l'Autore distingue il valore politico dal valore storico della
rivoluzione dell'89. Sul piano politico, scrive, "la Rivoluzione non ha dato
alcuna nuova verità o teoria politica" (94).
Sul piano storico, invece, la rivoluzione di Francia ha assunto per l'umanità un
significato di grande rilievo per una serie di cambiamenti introdotti nella
politica, nella morale, nell'istruzione e nella religione. Per quanto riguarda
più specificamente la politica, l'idea più importante "è risultata la preferenza
per l'abolizione dell'Aristocrazia e per lo stabilimento del sistema
rappresentativo" (95).
Sebbene l'istituto della rappresentanza non fosse del tutto nuovo ai popoli, la
rivoluzione francese ha mostrato che "la facoltà di far le leggi appartiene al
corpo della Nazione" e che pertanto mentre "prima la formazione delle leggi era
seguita da qualche magistratura suprema sotto l'indicazione sovrana o
ministeriale, ora, anche dove non vi è rappresentanza, i progetti di legge si
appongono all'esame di qualche Consiglio di natura differente dal giudiziario"
(96).
Queste idee sono divenute così generali da appartenere ormai allo spirito del
secolo.
L'esperienza
quasi decennale nell'amministrazione francese porterà lo scrittore teramano ad
individuare nel moderatismo uno spazio praticabile tra la conservazione e la
rivoluzione e lo persuaderà che in politica i veri cambiamenti si realizzano
gradualmente, attraverso piccole trasformazioni, mentre "i grandi fenomeni sono
sempre distruttori" (97).
Concetto questo che Delfico ribadirà nel 1835 quando rimprovererà alla
rivoluzione di Francia di aver preteso tutto "troppo presto" al punto che il
moto rivoluzionario finì per volgere "altrove gli sguardi della umanità e della
ragione". Ed egli "si arrestò nell'aspettativa di tempi migliori" (98).
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_______________ |
(2) Si veda M. Cuaz,
"Le nuove
strepitose di Francia": l'immagine della rivoluzione francese nella stampa
periodica italiana (1787-1791), in «Rivista storica italiana», a. C
(1988), fasc. III, p. 469 sgg.
(7) Memoria delficina, rimasta interrotta e tuttora inedita, conservata
presso la Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo "Manoscritti Delfico",
Ined., n. 402.
(9) Lettera del 26 dicembre 1789, in V.
Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano (1777-1798).
L'attività di Melchiorre Delfico presso il Consiglio delle Finanze,
Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1981, p. 300.
(10)
Introvabile fino a pochi anni addietro, la
Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri è stata pubblicata in
appendice al volume di a. M. Rao,
L'"amaro della feudalità". La devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli alla fine del
‘700, Guida, Napoli 1984, pp. 349-67.
(12) Lettera ai fratelli da Napoli del 25 giugno 1791, in Biblioteca Provinciale
di Teramo, fondo "Manoscritti Delfico", Ep., n. 281.
(14) C. Ghisalberti, La giurisprudenza romana nel pensiero di
Melchiorre Delfico, in «Rivista italiana per le scienze
giuridiche», a. VIII (1954), vol. VII, parte II, p. 432. Sullo sviluppo in
Italia nella seconda metà del Settecento di una letteratura critica della
legislazione romana, cfr. R. Bonini,
Crisi del diritto romano, consolidazioni e codificazioni nel Settecento
europeo, Pàtron, Bologna 1988, in cui viene analizzata anche la
posizione di Delfico (pp. 145-67).
(15) M. Delfico, Ricerche sul vero carattere della
giurisprudenza romana, in Opere complete, cit., vol. I, p. 225.
(17) Ivi, p. 100. Cfr., in proposito,
A. De Martino, Tra
legislatori e interpreti. Saggio di storia delle idee giuridiche in Italia
meridionale, Jovene, Napoli 1975, p. 97.
(18) Sulla coesistenza di una componente razionalistica e di una relativistica,
cfr. S. Armellini, Le due
"anime" dell'illuminismo giuridico e politico italiano, in «Rivista
internazionale di filosofia del diritto», a. LV (1978), n. 2, pp. 253-93,
ora in Libertà e organizzazione. Il riformismo di Carlantonio Pilati,
Jaca Book, Milano 1991, pp. 13-55. Per una ricognizione critica degli studi
delficini, cfr. G. Carletti, Recuperi, oblii e prospettive. Per una
storica critica della storiografia delficina, in «Trimestre», a. XX
(1987), nn. 1-2, pp. 5-40.
(19) C. Ghisalberti, Le costituzioni "giacobine" (1796-1799),
Giuffrè, Milano 1957, p. 43. Cfr., in proposito, alcuni appunti delficini,
dal titolo redazionale Idee per una costituzione, pubblicati da
A. Marino, Scritti inediti
di Melchiorre Delfico, Solfanelli, Chieti 1986, pp. 126-30.
(20) M. Delfico, Ricerche sul vero carattere della
giurisprudenza romana, cit., pp. 167, 168, 174 e 190.
(22) Ivi, pp. 168, 183 e 189.
(24) Lettera ai fratelli da Napoli, 30 luglio 1791, in Archivio di Stato di
Teramo, "Fondo Delfico", b. 24, fasc. 453c, n. 8.
(25) Ai fratelli, che attribuivano la sua esclusione al carattere antifeudale dei
suoi scritti, spiegava il 24 settembre 1791: "Non vorrei che pensaste che le
due operette dell'anno passato e di questo m'abbino potuto far male. Le
avrei sicuramente fatte, ancorché questo fosse stato sicuro, e che avessero
d'altronde potuto produrre qualche pubblico bene; ma sono sicurissimo che la
rabbia baronale e la forense sono state affatto impotenti, e potrei dir
anche vantaggiose" (in G. De
Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico,
cit., p. 102, nota 44). Infatti, all'inizio dell'estate aveva rifiutato un
incarico ministeriale: "Il Governo - confidava a Fortis - ha tentato
ritenermi con favorevole offerta che io ho creduto dover rinunciare e non
l'ho fatto sapere agli amici, che mi avrebbero dato del matto mille volte:
non sono però ancora fuori del pericolo, e mi fermeranno certamente se mi
daranno ciocché mi può convenire, e che io solo credo dover desiderare.
Forse non sarà, ed io resterò tranquillo, libero ed indifferente" (lettera
da Napoli del 12 luglio 1791, in Biblioteca Governativa di San Marino, n.
127). Si trattava, con ogni probabilità, di un posto nel ministero togato
come risulta da una successiva lettera a Fortis dell'8 novembre 1791, in
V. Clemente, Rinascenza
teramana e riformismo napoletano, cit., p. 308.
(26) Lettera di Delfico a Fortis, Napoli 13 settembre 1791, in Biblioteca
Governativa di San Marino, n. 124.
(28) Cfr. la lettera di Delfico ad Amaduzzi da Napoli del 29 novembre 1791, in
Biblioteca Accademica dei Filopatridi di Savignano, Cod. n. 14, Camera I -
III - 3/14, n. 52.
(29) Cfr. la lettera a Fortis da Teramo del 30 gennaio 1792, in
V. Clemente, Rinascenza
teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 391-2.
(30) a. M. Rao, Note sulla stampa periodica napoletana alla fine
del '700, in «Prospettive Settanta», a. X (1988), n. 2-3-4, p. 342.
(31) Cfr. la lettera a Fortis da Teramo del 30 gennaio 1792, cit.
(32) Lettera del 21 febbraio 1792, in Archivio di Stato di Teramo,
b. 20, fasc.
281, n. 4.
(33) Si tratta di Luigi Maria Pirelli (1740-1820), nobile di Ariano, religioso
dell'Ordine dei Regolari teatini, vescovo di Teramo dal 1777 al 1804 e sin
dal suo arrivo avverso alla famiglia Delfico. Sul periodo teramano del
prelato, cfr. N. Palma,
Storia della città e diocesi di Teramo, vol. III (1833), Cassa di
risparmio della provincia di Teramo, Teramo 1980, pp. 487-509. In una breve
memoria, probabilmente del 1797-98, Delfico dà giudizi severi e sferzanti
sul Pirelli: "Il Vescovo di Teramo ha la disgrazia di aver un carattere
inclinato alla maleficenza. Tutta la sua vita ne sarebbe una pruova; né si
può coprire col manto dello zelo religioso, poiché com'è stato inteso a
perseguitare la gente di garbo ed onesta così si è fatto un pregio di
proteggere le persone spregevoli e di pessimo talento (…). Tutto il paese sa
come ha perseguitato alcune persone di lettere benché fossero della più
illibata condotta. (…) Per mettersi al coverto di ricorsi, che si potevano
fare al Sovrano contro la di lui irregolare condotta, come il lupo della
favola, prese il manto dell'agnello attaccando con relazioni e con denuncie
di mano aliena la religione e la fedeltà de' Cittadini, accusandoli
d'irreligiosità e di massime ed azioni contrarie al governo. Le più orribili
calunnie non furono risparmiate, ma la Sovrana intelligenza e giustizia non
ne restarono ingannati". E conclude: "Da tutto ciò si rileva che il Vescovo
di Teramo è un vero spirito malefico, e che il piacere di maleficare e
dominare a torto o a dritto fanno il suo gusto ed il suo carattere deciso"
(Memoria delficina, in Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo "Manoscritti Delfico", Ined., n. 411, ora in V.
Clemente, Introduzione a Una cronaca teramana (1798-1814),
in "Storia e Civiltà", a. IX (1993), n. 3-4, pp. 266-7).
(34) In M.G. Riccobono,
Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico, in «Rassegna della
letteratura italiana», a. 87 (1983), serie VIII, n. 3, pp. 415-6. Da
Napoli, il 7 dicembre 1793, il consigliere Codronchi comunica a Delfico
l'esistenza di una nuova denuncia anonima nei suoi confronti affinché "possa
produrre i suoi discarichi e dileguare qualunque dubbio potesse insorgere
lesivo della Sua opinione" (in V.
Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit.,
p. 452). Nella Relazione risponsiva alle accuse, inviata da Teramo il
18 dicembre 1793 a Nicola Codronchi (pubblicata da
L. Tossini, Autodifesa di un
illuminista, in «Archivio storico per le province napoletane», terza
serie, a. XVI (1977), pp. 86-97), il Teramano non nasconde il suo "rammarico
ed una specie di umiliazione" a dover difendere la propria reputazione
dinanzi al Supremo Consiglio a causa di "vaghe" e "calunniose imputazioni"
di qualche delatore, pur essendo stato sempre "un buon servitor del Re ed un
onesto e meritevole cittadino" (ivi, p. 86). La denuncia del '93, pur
non avendo gravi conseguenze, riesce tuttavia ad impedire che Delfico
succeda al fratello nella presidenza della Società Patriottica di Teramo.
(35) Lettera di Melchiorre al fratello Giamberardino del 12 aprile 1794, da
Napoli, in Archivio di Stato di Teramo, b. 24, fasc. 453c, n. 11.
(36) Per una ricostruzione di quegli avvenimenti si veda lo studio di
A. Simioni, La congiura
giacobina del 1794 a Napoli, in «Archivio storico per le province
napoletane», a. XXXIX (1914), fasc. II, pp. 299-366; fasc. III, pp. 495-535
e fasc. IV, pp. 788-808. Sul programma politico dei congiurati, cfr.
M. Battaglini, La Repubblica
napoletana. Origini, nascita, struttura, Bonacci, Roma 1992, pp. 18-39.
(37) Cfr. V. Cuoco, Saggio
storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, II ed. con aggiunte
dell'autore, Dalla Tipografia di Francesco Sonzogno, Milano 1806, pp. 37-8.
(38) Cfr. T. Pedìo, La congiura
giacobina del 1794 nel Regno di Napoli, Levante, Bari 1986, il quale
attraverso la pubblicazione dell'inedito "Fatto fiscale", contenente
l'accusa a carico dei congiurati del '94, dimostra, contro la tesi del
Cuoco, del Colletta, del Rodinò e di altri, l'esistenza a Napoli, in quegli
anni, di un "vasto movimento rivoluzionario" che dalla capitale si estendeva
alle province.
(39) Troiano Odazi (1741-94), nativo di Atri, in provincia di Teramo, fu tra i
maggiori economisti napoletani della seconda metà del Settecento. Allievo
del Genovesi, nel 1768 ne curò l'edizione milanese Delle lezioni di
commercio o sia d'economia civile. Nominato nel 1779 professore di Etica
nel Reale convitto della Nunziatella, nell'ottobre del 1781 fu chiamato a
ricoprire la cattedra di Economia e Commercio che era stata del Genovesi e
rimasta vacante per diversi anni. Esponente della massoneria napoletana, fu
coinvolto nel fatti del '94. Arrestato, morì suicida nelle carceri della
Vicaria il 20 aprile di quell'anno. Sulla fine dell'Odazi, cfr.
G. Beltrani, Don Trojano
Odazi. La prima vittima del processo politico del 1794 in Napoli, in
«Archivio storico per le province napoletane», a. XXI (1896), fasc. I, pp.
853-67.
(40) "Fra le occupazioni, le noje, i dispiaceri, e il mal di capo non ti dee far
meraviglia - confessa a Fortis - che io non mi sono rivolto a cercar della
letteratura del paese. L'Analisi ragionata ed insensata è il solo
giornale che io conosco e non leggo" (lettera del 23 settembre 1794, da
Napoli, in Biblioteca Governativa di San Marino, n. 163). L'«Analisi
ragionata de' libri nuovi» aveva interrotto la pubblicazione nel 1793.
Difficile quindi stabilire se Delfico si riferisse al «Giornale letterario
di Napoli per servire di continuazione all'Analisi ragionata» o alle
«Effemeridi enciclopediche per servire di continuazione all'Analisi
ragionata», che costituirono entrambi, al di là delle differenze, la
prosecuzione della precedente rivista. Non è da escludere neppure che egli
alludesse a tutti e due i periodici, dal momento che avevano assunto nel
corso del '94 una linea chiaramente reazionaria, in difesa dell'oltranzismo
cattolico svolgendo, soprattutto le «Effemeridi», un'aperta propaganda
controrivoluzionaria, il che spiegherebbe perché il Teramano avesse definito
"insensata" la rivista. Cfr., in proposito,
a. M. Rao, Napoli e la Rivoluzione (1789-1794), in
«Prospettive Settanta», a. VII (1985), n. 3-4, pp. 474-6.
(41) Lettera da Napoli al fratello Giamberardino del 2 agosto 1794, in Biblioteca
Provinciale di Teramo, fondo "Manoscritti Delfico", Misc.4, n. 934.
(43) Si tratta della richiesta del titolo di conte di Giulianova e della
concessione di "alcuni beni di poco profitto" per l'erario, come ricompensa
dei "dispendj sofferti" e dei "servigj" resi gratuitamente alla Corona. Cfr.
il Carteggio per ottenere il titolo di Conte di Giulia e benefondi
annessi, del 1794, in V. Clemente,
Rinascenza teramana e riformismo napoletano, cit., pp. 492-502.
(44) Cfr. C. Petraccone,
Rivoluzione e proprietà: i repubblicani abruzzesi e molisani nel 1799,
in «Archivio storico per le province napoletane», terza serie, a. XXI
(1982), p. 208 sgg.
(45) Nel 1794 una nuova denuncia anonima è all'origine del rifiuto del Supremo
Consiglio di accogliere la richiesta del Teramano del titolo di conte.
"Molto più mi duole - scrive amareggiato ad Acton il 19 luglio 1794 - di
essere stato e prima e nuovamente in questa occasione attaccato nel Supremo
Consiglio dal dente dell'invidia, da un calunnioso ed anonimo delatore. (…)
Se l'aver passata la mia vita in travagliare per la gloria del Sovrano e per
la pubblica beneficenza non basta per assicurarmi da una ostinata ed
efficace persecuzione, non mi rimarrebbe altro che condannar me stesso alla
volontaria pena dell'ostracismo" (Carteggio per ottenere il titolo di
Conte di Giulia e benefondi annessi, cit., p. 500). Egli non otterrà il
titolo neppure in seguito, ma con decreto del 25 marzo 1815 Gioacchino Murat
gli conferirà quello di barone (Archivio di Stato di Teramo, b. 19, fasc.
231).
(46) Lettera a Giamberardino, da Napoli, del 13 settembre 1794, in Biblioteca
Provinciale di Teramo, fondo "Manoscritti Delfico", Ep., n. 283.
(47) Lettera a Fortis del 23 settembre '94, cit.
(48) Lettera a Fortis, da Napoli, del 14 ottobre 1794, in
V. Clemente, Rinascenza
teramana e riformismo napoletano, cit., p. 464 e lettera a Fortis, da
Teramo, del 4 novembre 1794, in M.G.
Riccobono, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico
cit., p. 417.
(49) "Nello stato attuale delle cose, - scrive Delfico a Fortis - in cui si fanno
nascere sospetti senz'alcun principio governativo, crederei che ora dovessi
sospendere il pensiero di quel viaggio che mi accennavi. La nazione è piena
di malvagi gratuiti e spontanei, e naturali e costanti nemici del merito e
della virtù. (…) È contro cuore che io ti fo queste riflessioni, ma par che
avrebbe torto chi lasciasse un mare tranquillo per andare fra le tempeste"
(lettera del 9 marzo 1795, da Teramo, in Biblioteca Governativa di San
Marino, n. 150). Ma subito si pentirà di "quegl'insoliti pensieri" dettati
da "un momento di malumore" e pregherà l'amico di raggiungerlo senza alcun
indugio. Cfr. la lettera del 28 aprile 1795 (ivi, n. 177).
(50) Cfr. B. Croce, La
rivoluzione napoletana del 1799, Laterza, Bari 19264, p. 24.
(51) Sulle tappe di questo viaggio, cfr. G.
De Filippis-Delfico,
Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico, cit., pp. 38-46.
(52) Cfr. la lettera di Delfico a Luigi Angiolini da Firenze dell'8 dicembre
1795, in Biblioteca del Museo del Risorgimento di Milano, Busta I, plico II,
n. 32885.
(53) Cfr. la lettera di Delfico ad Angiolini del 26 dicembre 1795, in Biblioteca
del Museo del Risorgimento di Milano, cit.
(55) Il 28 aprile 1796 l'armistizio di Cherasco segnò la resa dei Piemontesi ai
Francesi, i quali si diressero nei giorni successivi in Lombardia, giungendo
a Piacenza e quindi, dopo aver battuto a Lodi gli Austriaci, a Milano dove
Napoleone Bonaparte fece il suo ingresso trionfale il 15 maggio.
(56) "Chi sa quanti belli quadri e statue costerà a Roma la pace!" si chiede con
ironia Delfico alla vigilia dell'occupazione napoleonica delle legazioni
pontificie (cfr. la lettera ad Angiolini del 5 giugno 1796, in Biblioteca
del Museo del Risorgimento di Milano, cit.).
(57) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del 26 luglio 1796, in Biblioteca
Governativa di San Marino, n. 169. Come è noto, alla fine di luglio 1796
Napoleone Bonaparte concentrò le sue divisioni lungo una linea che dalle
valli bresciane andava sino al basso Adige. Iniziava così la seconda fase
della campagna d'Italia che si protrasse fino al febbraio successivo e che
registrò importanti vittorie del generale francese a Castiglione (30 luglio
- 5 agosto) a Bassano (2-8 settembre) ad Arcole (14-17 novembre) e a Rivoli
(13-16 gennaio 1797), cui seguì infine la resa di Mantova con la quale i
Francesi si assicurarono il dominio dell'Italia settentrionale.
(58) Lettera di Delfico a Fortis del 2 agosto 1796, in Biblioteca Governativa di
San Marino, n. 76, parzialmente pubblicata da
V. Clemente, Rinascenza
teramana e riformismo napoletano, cit., p 472.
(59) Cfr. la lettera di Delfico a Fortis del 20 dicembre (1796), in Biblioteca
Governativa di San Marino, n. 174.
(60) Cfr. la lettera di Fortis a Giuseppe Toaldo del 20 marzo 1797 da Parigi, in
Illuministi italiani, t. VII, Riformatori delle antiche
repubbliche, dei ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a cura di
G. Giarrizzo, G. Torcellan e F. Venturi, Ricciardi, Milano-Napoli 1965, pp.
389-90.
(61) Si veda la lettera del 9 gennaio 1797 da Teramo, in
M.G. Riccobono, Contributo
per l'epistolario di Melchiorre Delfico, cit., p. 419.
(62) Lettera a Fortis datata Teramo, 7 marzo 1797, in Biblioteca Governativa di
San Marino, n. 172.
(63) Sono del 1797 le delficine Memoria per la Decima imposta al Regno;
Memoria intorno a' danni sofferti nella provincia di Teramo dalla cattiva
monetazione dello Stato pontificio, e de' mezzi opportuni da ripararli
ed infine Osservazioni su la nuova monetazione dello Stato papale per
rapporto al commercio delle provincie confinanti del Regno, ancora tutte
inedite.
(64) Cfr. la lettera di Delfico ad Angiolini del 15 agosto 1797, in Biblioteca
del Museo del Risorgimento di Milano, cit.
(65) Il pretesto è fornito da alcune lettere "rivoluzionarie" sequestrate ad una
loro domestica, da poco licenziata, mentre faceva ritorno ad Ascoli Piceno.
Interrogata, la donna avrebbe affermato di averle ricevute da Alessio Tullj
e da Eugenio Michitelli, entrambi frequentatori di casa Delfico. Si veda in
proposito la Memoria della persecuzione subita dalla famiglia Delfico nel
1799, scritta presumibilmente da Giamberardino "allo scopo - è precisato
in un'annotazione - di ottenere il dissequestro dei propri beni". Avvenuta
la restaurazione borbonica, egli fu infatti condannato dai Regi inquisitori
nel processo contro "i rei di Stato" e trasferito nell'agosto del 1800 nei
castelli di Puglia. Ritornato in libertà in seguito all'indulto generale del
1° maggio 1801 (cfr. Archivio di Stato di Teramo, "Reali Dispacci", b. 24,
vol. 84, pp. 452-3) ottenne il dissequestro dei beni l'11 luglio dello
stesso anno (cfr. Archivio di Stato di Teramo, "Fondo Delfico", b. 27, fasc.
597). Con ogni probabilità quindi la Memoria è collocabile tra il
maggio e il luglio del 1801. Il testo è stato pubblicato da Vincenzo
Clemente su «Storia e civiltà», a. IV (1988), n. 4, pp. 368-85 e a. V
(1989), n. 1-2, pp. 39-56. L'episodio che portò all'arresto dei Delfico è a
p. 375 sgg.
(69) Sullo spirito di moderazione di Delfico, interessato a trovare una
mediazione tra eccessi rivoluzionari e intemperanze reazionarie, cfr.
G. Carletti,
Melchiorre Delfico. Riforme politiche e riflessione teorica di un
moderato meridionale, ETS, Pisa 1996, p. 135 sgg.
(70)
A. Saitta, Giacobini italiani, in «Cultura moderna»,
n. 26, giugno 1956, p. 6. Cfr. inoltre
D. Cantimori (a cura di), Giacobini italiani, vol. I, Laterza,
Bari 1956, p. 412. Sull'argomento cfr. da ultimo Il giacobinismo italiano
nella storiografia, saggio introduttivo di Francesco Perfetti al volume
di R. De Felice, Il triennio
giacobino in Italia (1796-1799), Bonacci, Roma 1990, pp. 7-56. Spunti
critici anche in Il mondo contemporaneo, vol. XI: Il modello
politico giacobino e le rivoluzioni, a cura di N. Tranfaglia e M.L.
Salvadori, La Nuova Italia, Firenze 1984, in particolare i saggi di Stefano
Nutini, Claudia Petraccone e Salvo Mastellone.
(71) Cfr. G. Galasso, I giacobini
meridionali, in «Rivista storica italiana», a XCVI (1984), fasc. I, p.
78 sgg., ora in La filosofia in soccorso de' governi. La cultura
napoletana del Settecento, Guida, Napoli 1989, p.
519 sgg.
(72) Il testo è stato pubblicato da R.
Persiani, Alcuni ricordi politici nella massima parte abruzzesi al
cadere del XVIII e principio del XIX secolo con documenti e note, in
«Rivista abruzzese di scienze, lettere ed arti», a. XVII (1902), fasc.
VII-VIII, pp. 435-9. Senz'altro meno importante è l'altro atto a firma di
Melchiorre Delfico, Proclama sulla sicurezza pubblica del 15 ventoso
anno VII (5 marzo 1799) con il quale venivano fissate alcune disposizioni
per combattere il vagabondaggio. (Ivi, pp. 441-2). I due testi sono
stati recentemente riediti assieme ad altri scritti delficini da
G. Carletti,
La "Pescara"
di Melchiorre Delfico,
cit., pp. 51-5 e 57-8
(75) Inattendibile è la tesi sostenuta nella Memoria della persecuzione subita
dalla famiglia Delfico nel 1799 di una scelta obbligata del Teramano,
che sarebbe venuto a trovarsi "nella dura necessità di ubbidire per non
mettere in pericolo e vita, e sostanze, ed anche l'intera Città di lui Padria" (cit., p. 45), non solo perché la Memoria, contrariamente a
quanto si è creduto, non è autografa di Melchiorre Delfico, ma soprattutto
perché lo scritto, come è stato ricordato, ha una funzione puramente
strumentale. Sull'impegno profuso da Delfico durante l'esperienza
repubblicana cfr. la lettera che invia a Fortis da Teramo il 30 germinale
a. I della Repubblica napoletana (19 aprile 1799), in Opere complete,
cit., vol. IV, pp. 112-3.
(76) Sul dibattito che si sviluppa a Napoli sull'eversione della feudalità e sul
tipo di Costituzione da dare alla nuova Repubblica, cfr.
G. Galasso, La legge feudale
napoletana del 1799, in «Rivista storica
italiana», a. LXXVI (1964), fasc. II, pp. 507-29, ora in La filosofia
in soccorso de' governi, cit., pp. 633-60. Sulla fiducia che il triennio
giacobino potesse generare un momento di grande partecipazione politica, cfr.
E. Pii, La ricerca di un
modello politico durante il triennio rivoluzionario (1796-99), in
Modelli nella storia del pensiero politico, vol. II, La rivoluzione
francese e i modelli politici, a cura di V.I. Comparato, Olschki,
Firenze 1989, p. 279 sgg.
(77) Cfr. la lettera di Delfico al Governo Provvisorio, da Pescara, datata 7
germile an. 7 Rep. (27 marzo 1799), in Il Monitore Napoletano 1799,
a cura di M. Battaglini, Guida, Napoli 1974, pp. 695-6. Sulle insorgenze
nella regione, cfr. R.
Colapietra, Le insorgenze di massa nell'Abruzzo in età moderna,
in «Storia e politica», a. XX (1981), fasc. 1, pp. 1-46, e il più recente
volume Per una rilettura socio-antropologica dell'Abruzzo giacobino e
sanfedista, Edizioni Città del Sole, Napoli 1995. Per una diversa
valutazione dell'atteggiamento di Delfico durante l'invasione francese, cfr.
L. Polacchi, Da Melchiorre
Delfico a Clemente De Caesaris. Storia politica e letteraria del
Risorgimento in Abruzzo sulla base della fortezza di Pescara 1798-1860,
Tip. Stea, Urbino 1960, pp. 44, 55 e 102;
G. Incarnato, Le "illusioni
del progresso" nella società Napoletana di fine Settecento, vol. II,
Tra rigori modernizzatori e aspettative di assistenza, Loffredo, Napoli
1993, pp. 196-7.
(79) Per il testo cfr. G. Carletti,
Melchiorre Delfico. Riforme politiche e riflessione teorica di un
moderato meridionale, cit., pp. 138-9.
(80) Sulla permanenza del Teramano nella
Repubblica sammarinese, cfr. F.
Balsimelli, Melchiorre Delfico e la Repubblica di San Marino,
Arti Grafiche Della Balda, San Marino 1935.
(81) Cfr. F. Lomonaco, Analisi
della sensibilità, delle sue leggi e delle sue diverse modificazioni
considerate relativamente alla morale e alla politica (1801), in
Opere, Ruggia, Lugano 1834, vol. V, p. 103 sgg. Successivamente l'Autore
pubblicherà i Discorsi letterarj e filosofici, Silvestri, Milano 1809
in cui difenderà la monarchia come la migliore forma di governo, immaginando
di rivolgersi ad alcuni protagonisti della Repubblica napoletana, tra i
quali Galdi, Russo, Cuoco e "l'incomparabile" Delfico. Quest'ultimo verrà
ricordato nel cap. III, Dello spirito d'imitazione (pp. 81-109), in
cui Lomonaco si scaglierà contro le "tragicomiche scene rappresentate da
giacobini" italiani per aver voluto seguire pedissequamente i Francesi
nonostante questi avessero vissuto realtà ed esperienze completamente
diverse dalle loro. Robespierre, scrive, "elevò insensatamente il grido:
democrazia universale; e mezza Europa più insensatamente ripeté:
democrazia universale. In mezzo all'eclissi dell'umana ragione chi
ponderò lo stato fisico, economico, morale e politico del suo paese? (…).
Tutti riputandosi solenni politici, leggevano, rileggevano e tornavano a
leggere la stravaganza di Rousseau, l'homme est né libre. Nessuno
studiava Aristotele il quale sentenziò, che alcuni sono fatti per comandare,
altri per ubbidire (…). Nessuno aveva digerita la massima di Machiavelli,
che quando uno stato è corrotto, bisogna che una mano regia tenga a freno
gli scapestrati cittadini (…). L'anarchia delle idee produsse l'anarchia
delle passioni, l'anarchia delle passioni quella dei costumi, più tremenda
dell'anarchia delle leggi" (pp. 96-8).
(82) Cfr. G.M. Arrighi, Saggio
storico per servire di studio alle rivoluzioni politiche e civili del Regno
di Napoli, t. III, Stamp. del Corriere, Napoli 1813, pp. 211-21. I primi
due tomi uscirono sempre a Napoli nel 1809.
(83) Cfr. V. Cuoco, Saggio
storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, seconda edizione con
aggiunte dell'Autore, Dalla Tipografia di Francesco Sonzogno, Milano 1806,
p. 96 sgg. I due s'incontreranno a Milano nel 1804, in occasione della
pubblicazione delle Memorie storiche di San Marino. Per un confronto
tra Delfico e Cuoco, cfr. F. Tessitore, Da Cuoco a De Sanctis. Studi sulla filosofia
napoletana nel primo Ottocento, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli
1988, pp. 12-24; P. Viola,
Delfico, Cuoco e la libertà antica e moderna, in «Annali della Scuola
Normale Superiore di Pisa», serie III, vol. XVIII (1988), 2, pp. 589-97.
(84) Si veda l'ormai nota Prefazione alle Memorie storiche della
Repubblica di S. Marino (Milano 1804), in Opere complete, cit.,
vol. I, pp. 249-50.
(85) Foglio di appunti inedito (Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo
"Manoscritti Delfico", Misc. 2, n. 625).
(86) M. Delfico, Memorie storiche della Repubblica di S. Marino,
cit., p. 250.
(89) Foglio di appunti di Delfico pubblicato da A. Saitta, Alle origini del
Risorgimento: i testi di un "celebre" concorso (1796), vol. I, Istituto
storico italiano per l'età moderna e contemporanea, Roma 1964, p. XXV, la
cui stesura più che al 1796 risale probabilmente al periodo sammarinese per
una sua certa affinità con alcuni concetti espressi nelle Memorie
storiche.
(90) M. Delfico, Memoria su la perfettibilità organica
considerata come il principio fisico dell'educazione con alcune vedute sulla
medesima (1814), in Opere complete, cit., vol. III, p. 511.
(91) Cfr. G. Vico, Principj di
Scienza nuova (17443), in Opere a cura di F. Nicolini,
Ricciardi, Milano-Napoli 1953, lib. IV, p. 772.
(92) M. Delfico, Memorie storiche della Repubblica di S. Marino,
cit., p. 250.
(93) Il testo è stato pubblicato da A.
Marino, Scritti inediti di Melchiorre Delfico, Solfanelli,
Chieti 1986, pp. 111-2.
(98) Lettera di Delfico a Neroni, s.d. (ma Teramo 1835), in Archivio di Stato di
Teramo, b. 24, fasc. 464, n. 1. Pubblicata in Opere complete, cit.,
vol. IV, pp. 126-28, e assegnata inspiegabilmente dai curatori al 24 aprile
1835, la lettera è la prima di tre in cui Delfico discorre degli "Stabilimenti
di Beneficenza".
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