Melchiorre Delfico e la politica
culturale degli Aragonesi |
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di Adelmo Marino
In
"Aprutium", Organo del Centro Abruzzese di
Ricerche Storiche, anno VI, n. 1/1988, Edigrafital, S.Atto di Teramo
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Dopo aver fatto conoscere il Discorso sulle favole esopiane,
pronto per la stampa, ma, che per una serie sfortunata di
coincidenze, non fu mai edito dall'Autore, presentiamo ora un
altro inedito di Melchiorre Delfico, che è meno ampio del primo,
ma non meno interessante.
Si tratta di uno studio di poche pagine, sedici per l'esattezza di
cui due bianche, senza titolo e senza data (per cui non è neanche
indicato negli inventari pubblicati da Gregorio De Filippis
Delfico e da Raffaele Aurini) me che a differenza di altri inediti
è completo di note. Noi lo pubblichiamo integralmente, senza
apportarvi nessuna modifica; abbiamo solo inserito, per facilitare
la consultazione e i rimandi, il numero progressivo delle pagine
tra parentesi quadre e il titolo desumendolo dal contenuto.
Quasi con certezza, il saggio fu scritto tra il 1793, anno in cui
il Giustiniani pubblicò l'opera citata dal Delfico, sulle
tipografie nel Regno di Napoli, e il 1805, considerando
inopportuno e troppo forte l'accenno al comportamento truffaldino
di Carlo VIII che ordinò l'invio in Francia di molti manoscritti
napoletani, tra cui il celebre Chronicon Casauriense. Il
riferimento, infatti, non poteva essere fatto nel momento in cui
Giuseppe Bonaparte lo chiamava a Napoli ad occupare nel suo
governo posti di grande responsabilità politica.
Sostanzialmente il manoscritto si configura come un elogio alla
politica culturale degli Aragonesi e un'occasione per ricordare il
contributo abruzzese allo sviluppo dell'Umanesimo italiano.
Il rinnovamento della cultura napoletana, come è noto, cominciò
con Alfonso il Magnanimo (1442-1458), si sviluppò sotto il regno
di Ferrante (1458-1494), subì una battuta d'arresto durante i
regni di Alfonso II (1494-1495) e di Ferrandino (1495-1496) ma si
riprese sotto Federico (1496-1501) che fu l'ultimo re aragonese,
con l'esilio del quale sembrò che si spegnesse ogni fervore di
vita letteraria.
Il re Ferrante (Ferdinando I), per quanto impegnato nella lotta
contro il baronaggio napoletano "e vi sono buone ragioni –
scrive G. Galasso – per ritenere che la grande congiura
baronale del 1485-86 (origine delle posteriori guerre ed invasioni
del Regno) sia stato piuttosto una reazione dei baroni alla tenace
e subdola opera de prevaricazione svolta dal re nei due decenni
precedenti anziché una iniziativa autonoma e spontanea" (1),
favorì grandemente la cultura anche se con una prospettiva del
tutto particolare e prammatica. Sotto il suo regno, infatti, si
sviluppò la letteratura in lingua volgare sia nella versione popolareggiante, che sostanzialmente era estranea al moto
umanistico, sia nella forma aulica e colta che, invece, si
ricollegava nettamente a quel movimento. Nel ventennio in cui fu
libero dalle preoccupazioni politiche, egli stesso si dedicò allo
studio delle lettere e contribuì con la sua opera alla rinascita
della cultura, imprimendo un nuovo stile sia nell'ambito della
ricerca formale come nel campo della problematica morale e
politica (2).
Il Rinascimento napoletano, pertanto, accanto a certe e
inevitabili tendenze neo-feudali, alle quali non erano immuni le
altre corti italiane, assunse quella caratteristica di laica
dignità civile, che lo storico Pandolfo Collenuccio, più volte
ricordato dal Delfico, faceva derivare da Federico II di Svevia.
Melchiorre Delfico, facendo proprie le osservazioni del Panormita,
preferì sottolineare la politica del Magnanimo in favore delle
biblioteche, delle scuole e delle belle arti. A ricordo di questa
imponente azione civilizzatrice, scrive il Delfico, ci restano il
restauro, quasi dalle fondamenta, di Castelnuovo e il magnifico
arco trionfale, opera del milanese Pietro Martino "che fu tanto
caro ad Alfonso, che dopo averlo largamente premiato, lo creò
cavaliere".
"Ma l'operazione più bella di Alfonso – aggiunge – fu
quella d'istituir in Napoli una dotta Accademia. Non gli fu
difficile ciò eseguire perché…essendo la sua corte ripiena di
uomini letteratissimi in ogni facoltà, giureconsulti, filosofi,
teologi, oratori e poeti, non gli mancarono soggetti adatti a tal
uopo".
A prescindere dal fatto se questa sia stata o n "la prima
istituzione in Italia", poiché in quel periodo altre ne sorsero a
Roma e a Firenze, certo è che l'Accademia Pontaniana, come poi si
disse, svolse un ruolo notevolissimo nell'Italia
centro-meridionale, soprattutto chiamando a collaborare al suo
sviluppo gli intellettuali più rappresentativi di tutte le regioni
del regno a cominciare dall'Abruzzo con Andrea Matteo III
(1458-1529) e suo fratello Bellisario Acquaviva, entrambi
intellettuali e amici di intellettuali quali il Pontano, il
Galateo, il Cantalicio e il Sannazzaro. Il loro contributo alla
cultura fu ampiamente ripagato da numerosi attestati di
riconoscimento e di simpatia. Il Pontano dedicò ad Andrea Matteo
III il volume De magnanimitate l'ascolano Cesare Torto una
serie di "sonetti et canzone"; il Galateo l'Apologeticum e
il Sannazzaro il suo De partu Virginis. A Napoli, del
resto, Andrea Matteo aveva impiantato nel 1525 un'eccellente
tipografia, diretta da Antonio Frezza da Corinaldo, della quale si
erano serviti sia il Pontano che il Sannazzaro, mentre in Atri
aveva organizzato una favolosa biblioteca, lodata dal Cantalicio e
dal Croce, che era a disposizione degli amici abruzzesi e
napoletani (3).
La versione in latino con relativo commento delle opere di
Plutarco (segno evidente della sua conoscenza della lingua greca)
è senza dubbio l'espressione più alta del suo ideale umanistico al
quale fece riferimento Bellisario Acquaviva (1464-1528) nella
composizione del De istituendis liberis principum, edito a
Napoli presso "Ioannes Pasquet de Sallo" tra il 7 maggio e il 1°
agosto 1519, e cioè sei anni dopo la conclusione del Principe
del Machiavelli e quattro anni dopo l'ideazione dell'Utopia
di Tommaso Moro. Con la sua opera Bellisario pose le basi del
moderno principe, modellato sui precetti e sugli esempi degli
antichi, additando come ideale politico l'esercizio della
clemenza, della liberalità e della continenza per poter avere
sudditi fedeli e devoti.
L'opera recentemente riesaminata da Lucia Miele nel corso del
convegno su "Gli Acquaviva d'Aragona duchi di Atri e conti di
S. Flaviano", costituisce, infatti, una tessera preziosa di
quel ricco e suggestivo mosaico rappresentato dalla trattatistica
politica meridionale sorta nel secondo Quattrocento.
"Il modello esemplare di principe proposto dall'Acquaviva –
nota L. Miele – coincide con quello del sapiente, canonizzato
ed esaltato dall'antichità classica, come del resto suggerisce e
conferma l'evidente richiamo all'autorità aristotelica, in una
accezione della sapienza come un continuo integrarsi di scientia
ed experientia sul camino di un progressivo affinamento morale ed
intellettuale capace di assicurare il successo della giornaliera
attività politica e in senso più lato una fama imperitura come
corrispettivo di una autentica dignità che sola onora e qualifica
la maestà distinguendola dalla tirannide" (4).
Ai trattati pedagogici Bellisario fece seguire, come del resto
Andrea Matteo, opere di argomento religioso ed ascetico tra cui
l'accertato Expositionis Orationis Dominicae Pater Noster libri
duo, in cui, oltre all'esposizione del Pater Noster, che
occupa tutto il primo libro, egli tratta della morale cristiana,
rivelando una grande apertura culturale e una notevole
indipendenza di giudizio.
Fece scalpore ad esempio il consenso che egli diede a suo figlio
di sposare una fanciulla ebrea, anche se appartenente ad una
famiglia ebrea già convertita al cristianesimo (5).
Nel saggio il Delfico ricorda solo questi due autori, ma ne
avrebbe potuto indicare di più, poiché il contributo culturale
abruzzese all'Umanesimo italiano fu assai più articolato e
consistente. Basti pensare agli intellettuali sulmonesi Marco
Barbato (1304-1365) e Giovanni Quatrario (1336-1402), che furono i
capisaldi della cultura abruzzese, agli aquilani Giovanni da
Capestrano (1386-1456) e Serafino de' Ciminelli detto de L'Aquila
(1466-1500), a Oliviero da Lanciano tanto per citarne alcuni
insieme al vescovo aprutino Giovanni Antonio Campano (6).
Fu, come sostiene giustamente Raffaele Colapietra, un momento
magico del contributo abruzzese alla cultura napoletana (7) e per
questo stupisce il fatto che il Delfico, parlando dell'impianto
delle tipografie a Napoli e dello sviluppo dell'arte della stampa
non consideri l'apporto degli Abruzzesi che fu notevole (8). Una
cosa, comunque è certa, quando nel regno di Napoli nei primi del
Cinquecento l'arte andò in crisi se si riprese subito e si rinnovò
ciò che si verificò per opera di Giuseppe Cacchi (9).
Questi ed altri silenzi, come l'assenza del titolo, la
bibliografia incompleta e la numerazione mancante delle pagine
fanno pensare che il saggio doveva essere rivisto e completato in
più parti. Per due volte, infatti, è lui stesso ad ammetterlo
esplicitamente. In una pagina, ad un certo punto, dopo aver
accennato alla rinascita della poesia latina ed italiana nel regno
ad opera del Pontano e del sannazzaro, si chiede: "Quali opere
astronomiche si fecero sotto Alfonso?" e poi annota, vedere "se
vi furono filosofi". Un analogo pro-memoria si legge nella
pagina seguente, quando a proposito dell'introduzione della stampa
in Italia, scrive: "Se la stampa fosse venuta in Napoli nel
tempo di Alfonso".
Sembra, però strano che il Delfico non conoscesse i nomi dei
filosofi napoletani del periodo aragonese e non ricordasse, in
particolare tre abruzzesi: il chietino Nicoletto vernia
(1420-1499), maestro di Agostino Nifo e di Pico della Mirandola;
il francescano Pietro dell'Aquila che, insieme al Caracciolo,
diffuse le teorie dello scozzese Duns Scoto nel napoletano; e il
canonista teramano Pietro d'Ancarano (1340-1416) che partecipò ai
concilii di Pisa e di Costanza con grandissima autorità.
Altrettanto sorprendente appare l'appunto relativo all'inizio
della stampa che, come ricorda, si sviluppò ad opera dei Tedeschi
e il rinvio ad un ulteriore approfondimento sulle opere di
astronomia nella prima metà del Quattrocento che ai suoi tempi
erano conosciutissime per gli studi stellari fatti dal palermitano
G. Piazzi.
Certamente il Delfico non entrò nel merito delle cose, sottolineò
i fatti e gli apporti individuali senz'altra occupazione che
quella dell'efficacia e del rimpianto per un'epoca che vide
rendere più grande il Regno di Napoli e più accogliente le sue
contrade. Da qui il sommesso ma trasparente invito a leggere
questo saggio in controluce e in riferimento al ricordato
Discorso sulle favole esopiane (1792) e alla nota Lettera a
S. E. il Sig. Duca di Cantalupo Intendente generale de' reali
stati allodiali che il Delfico scrisse nel 1795. Se nel
Discorso suggerì agli intellettuali l'utilizzazione anche
delle favole pur di migliorare il costume dei popoli, ignorando le
facili ironie delle "teste coronate", qui, nel saggio il Delfico
propose al sovrano di favorire la ricerca scientifica,
privilegiando le capacità dei singoli alle velleità dei nobili,
l'impegno degli intellettuali alle manovre conservatrici
dell'aristocrazia.
"Se fu l'andamento della natura e dei primi passi sociali che
costituì le aristocrazie, perché solo così si poteva rappresentare
una volontà generale, giacchè nei tempi d'ignoranza solo in pochi
si trovava la ricchezza, la forza ed il sangue, lo stesso
progresso – auspicò il Delfico – deve distruggerle dopo che
la proprietà e la scienza sono divenute un patrimonio generale,
dopo che la proprietà è posta in circolazione, dopo che
l'educazione non è più una privativa" (10).
Il farsi, pertanto un merito dell'antichità per la direzione
politica di uno Stato, spiegò, è come un attribuire una forza o
qualità morale al caso. "Se tutti vengono da Adamo il merito
sarà solo di aver conservato le genealogie".
In conclusione, su un piano più generale, con il saggio Melchiorre
Delfico intese dimostrare che nel Quattrocento il Regno di Napoli
non aveva nulla da invidiare agli altri stati italiani, poiché "mentre
il Cardinale Bessarione in Roma, e Lorenzo de' Medici in Firenze
introdussero le loro accademie, Alfonso aveva in Napoli con
l'opera di Antonio Panormita istituito una industria accademica,
accresciuta poi, ed in miglior forma ridotta da Giovanni Pontano" (11). |
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(1) Cfr. G. GALASSO, Dal Comune meridionale all'Unità.
Linee di storia meridionale, Laterza, Bari 1971, p. 90.
(2) Sulla problematica culturale dell'Italia meridionale
nel Quattro-Cinquecento cfr. F. TATEO, L'Umanesimo meridionale,
Laterza, Bari 1972, e dello stesso, I centri culturali dell'Umanesimo,
Laterza, Bari 1971.
(3) Cfr. C. BIANCO, La biblioteca di Andrea Matteo
Acquaviva, in Atti del Convegno di studi su' – Gli Acquaviva
d'Aragona duchi di Atri e conti di S. Flaviano a cura del centro
Abruzzese di Ricerche Storiche, Teramo 1985, pp. 159-174.
(4) Cfr. L. MIELE, Il "De Istituendis liberis principum"
di Bellisario Acquaviva, in Atti…op. cit., p. 183. La tirannide
è un topos letterario che parte da molto lontano e cioè dalla politica di
Aristotele, rifluisce nella trattatistica meridionale con S. Tommaso d'Aquino
e arriva a Egidio Colonna. Nel ‘600 fu trattato da un altro esponente
della famiglia Acquaviva ed esattamente dal Gesuita Claudio Acquaviva in
tre specifici decreti per sconsigliarne il ricorso. Sull'argomento si veda
A. LEZZA, I decreti sul tirannicidio di Claudio Acquaviva: significato
culturale e risvolti letterali, in Atti… op. cit., p. 269 e
sgg.
(5) Bellisario Acquaviva è stato piuttosto dimenticato
dalla bibliografia contemporanea per cui rimandiamo per lui, ma anche per
altri membri della famiglia, a V. BINDI, Castel S. Flaviano. Studi
storici archeologici ed artistici, Napoli 1881, vol. III, pp. 114-140
e per il suo pensiero politico a T. PERSICO, Gli scrittori politici
napoletani dal ‘400 al ‘700, Napoli 1912, pp. 139-145, mentre per le
sue idee economiche a G. CARANO-DONVITO, Economisti in Puglia,
Firenze 1956, pp. 247-256. Sull'episodio del matrimonio del figlio di
Bellisario con l'ebrea si veda B. CROCE, Un'epistola del Galateo in
difesa degli Ebrei, in Aneddoti di varia letteratura, I, Bari
1953, pp. 132-140.
(6) Per altre notizie sugli umanisti abruzzesi cfr. N.
FARAGLIA, Barbato di Sulmona e gli uomini di lettere della corte di
Roberto d'Angiò, in I miei studi storici delle code abruzzesi,
Barabba, 1893, pp. 101-160 e recentemente A. CAMPANA, Barbato da
Sulmona, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 6
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma 1964, pp. 130-134 e G.
PAPPONETTI, Intellettuali e circolazione libraria in Sulmona, in
Cultura umanistica del meridione e la stampa in Abruzzo, L'Aquila
1984, pp. 259-307; P.a. DE LISIO, L'Italia meridionale e il Rinascimento,
in La Cultura umanistica nell'Italia meridionale: altre verifiche,
S.E.N., Napoli 1980 e F. SABATINI, Napoli angioina. Cultura e società,
Napoli 1975.
(7) Sul clima culturale nella regione Abruzzo nel periodo
aragonese cfr. R. COLAPIETRA, Aquila e l'Abruzzo nell'età aragonese,
in Dal Magnanimo al Masaniello, Salerno 1972.
(8) Per uno sguardo complessivo sulle tipografie in Abruzzo
cfr. G. PANSA, Le tipografie in Abruzzo dal XV al XVIII secolo. Saggio
critico e bibliografico, Lanciano 1891, mentre per un'interpretazione
del fenomeno nella sua globalità cfr. gli atti del convegno aquilano su
Cultura umanistica nel Meridione e la stampa in Abruzzo, L'Aquila
1982.
(9) Cfr. F. TATEO, Cultura feudale e tipografia nel
meridione: Umanesimo fra gli Abruzzi e Napoli, in Cultura
Umanistica… op. cit., p. 41.
(10) Cfr. A. MARINO, Scritti inediti di Melchiorre
Delfico, Solfanelli, Chieti 1986, p. 115.
(11) Foglietto volante presso Archivio di Stato di Teramo,
Fondo Delfico, busta 16, fasc. 153. |
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Ed ecco, sull'argomento, il testo integrale di Melchiorre Delfico (le note
tra parentesi quadre si riferiscono al numero pagina del manoscritto di
Melchiorre Delfico riportato trascritto):
E' fuor di dubbio, che non v'abbia secolo più glorioso, e celebre per la
letteratura del secolo XV. Dopo l'invasione de' barbari il furor della
guerra, e lo stato infelice, nel quale vivevasi non avevano dato campo
agli studi, ed a coltivarsi le belle Arti e sebbene erano circa qualche
maniera la letteratura in Italia; era stato però il loro numero pur troppo
scarso a tal uopo, e mancavan loro que' mezzi, che per tanta opera erano
necessari. E' vero, che nel secolo XIV era stato con miglior successo
continuato questo importante lavoro, e l'industria di alcuni grandi
ingegni animati dalla munificenza de' Principi aveano incominciato a
squarciare il denso velo della barbarie; pure però nel secolo XV si vidde
tutta l'Italia impegnata a ravvivare in questa felice parte d'Europa le
Scienze, e le belle Arti, che per più secoli languite aveano.
Le sventure de' Greci costrinsero molti tra essi a trovare asilo in varie
parti d'Italia, dove furono con molt'onore da Principi, che in essa
regnavano, accol- [1] ti e protetti. Incominciarono do nuovo a risuonare
in Italia, e a leggersi nel loro naturale idioma le Opere di Platone, di
Omero, di Aristotile, di Demostene, di Plutarco, di Senofonte, di Polibio
e di altri celebrati nella Greca antichità, e s'incominciarono a formare
di loro esatte traduzioni. S'incominciarono a ricercare in ogni angolo i
Codici, ed intraprendersi a tal fine lunghi, e disastrosi viaggi, ed a
formarsi in conseguenza buone biblioteche, ed aprirsi cattedre per
l'erudizione Greca e Latina; ad ergersi Letterarie Accademie per
maggiormente animare gl'ingegni, e comunicarsi a vicenda le cognizioni, e
che resero quindi l'Italia oggetto di maraviglia a tutto il resto del
Mondo.
Fra li Principi, che contribuirono a queste grandi opere, debbono essere
espressamente ricordati li Medici in Firenze, ed i Pontefici in Roma, e
tra questi particolarmente Eugenio IV, Niccolò V, e Pio II; e non sono
nemmeno da tralasciarsi di nominare i Signori di Casa d'Este in Ferrara, e
Filippo Maria Visconti, ed i Sforza in Milano.
La Corte però dei nostri Monarchi Aragonesi, se non fosse per altro, fu
certamente la più illustre per gli Letterati, che la frequentarono, e per
la protezione, che quei Principi [2] fecero per le lettere, e
particolarmente Alfonso primo fece "che la sua Corte fosse uno dei più
dolci ricoveri per le Scienze, e per le Arti, ov'esse eran sicure di
ricevere ricompensa, e favore, ci avverte un Autor sincrono, che (1)
Illud vel notabile praecipue inter Regis facinora fuit, quod quot viros,
aut re bellica, aut letteraria illustres acceperit ad sese pene omnes
avocatos amplissimis honoribus, magnificentissimique muneribus ornanti",
giacchè costruì, al dir di Pio II (2) "in ogni etade di sua vita
diede opera alle lettere, peritissimo nell'arte della Grammatica, ancorché
di rado parlasse; ebbe in onore tutte le Istorie, e seppe tutto quello,
che dissero i Poeti, e gli Oratori, agevolmente scioglieva i dialettici
intrichi; niuna cosa gli fu incognita della Filosofia; investigò tutt'i
segreti della Teologia, egli seppe gentilmente e dottamente ragionare
dell'Essenza di Dio, e del libero arbitrio dell'uomo, della Incarnazione
del Verbo, del Sacramento dell'Altare, della Trinità, e d'altre
difficilissime quistioni. E gloriavasi questo Sovrano, a dir di Antonio
Panormita (3) quod Biblia quater, et decies cum glossis, et
commentariis per legisset Proin- [3] de illa memoria ita tenere, ut
non solum res, sed et verba etiam ipsa pluribus locis sine scripto
redderet".
Questo stesso celebre scrittore ci addita che (4) "Scholas, et
auditoria, in quibus maxime Theologia publice legeretur magnifice adornari
curavit. Nec adornari solum, sed interfuit ipse lectioni", e ci avvisa
anche, che questo Principe (5) "Regna quem plurima quidam haberet, et
possideret, malle se perdere, etiam persante affirmabat, quam literas,
quas permodicas scire se dicebat, nescire".
Era tanto l'amore, che costui portava alle lettere, che dallo stesso
Panormita sappiamo, che (6) "in urbium direptione quicumque ex
militibus librum, offendisset, confestim, certatimque illum ad regem quasi
suo quodam iure perferebant. Siquidem fama vulgarerat eum libris maxime
delectari solitum. Itaque nulla alia in re magis sese regi gratificari
dignitus, aut facilius posse arbitrabantur, quam in libris exhibendis,
atque tradentis".
Incominciò anche sotto a questo Principe l'antica numismatica ad essere
illustrata giacchè dice il Panormita (7) che "Numismata illustrium
Imperatorum per universam Italiam sum- [4] mo studio conquisita, in
eburnea arcula a rege pene dixerim religiosissime, asservantur".
Fece sì che molti letterari, che stavano alla sua Corte si esercitassero a
produrre parti de' loro ingegni a beneficio delle scienze, e delle belle
lettere, diede infatti incombenza a Giorgio Trapezunzio (8) di tradurre
dal Grego i libri di Aristotile, che trattano dalla storia naturale; a
Poggio Fiorentino (9) che traducesse la Ciropedia di Senofonte,
rimunerandoli generosamente. Creò Cavaliere, e premiò largamente Filelfo
(10) che portogli a leggere alcune sue Opere.
Ad istigazione sua anche Flavio Biondo da Forlì, scrisse l'Italia
illustrata, e la dedicò a questo Sovrano medesimo (11). Mandò il Porcellio
storico e poeta; che credo, che fosse nome Accademico, sapendosi per
altro, che era della famiglia de' Pandoni; e che fu suo segretario, nel
campo de' Veneziani, acciochè fosse esatta la storia, che scrisse della
guerra, che nel 1452 e 53 vi fu tra Veneziani e Francesco Sforza (12),
questa Storia fu la prima volta stampata dal Muratori (13) con
alcune notizie della vita dell'Autore.
Il Pontano ci fa sapere, che (14), "ad [5] ordinariam in
Antonium Panormitam benignitatem illud addidit, ut mille eum aureis ob
scriptum de dictis, et factis suis librum donaverit". Non si restrinse
soltanto l'opera di Alfonso nel promuovere la letteratura nel regno di
Napoli, ma cercò promuoverla ancora nei suoi regni, che aveva nelle Spagne,
ci fa sapere a tal proposito il lodato Panormita (15), che "Hispanos
quingentis, atque eo amplius annis a studio humanitatis usque adeo
abhorrentes, ut quis literis operam impenderent, ignominia prope modum
notarentur, ad litterarum cultum sic revocavit, ut rudes, propeque
effereratos homines doctrina quidam modo reformaverit".
Furono fra gli altri alla sua corte, i soprannominati Antonio Panormita,
Francesco Filelfo, e Giorgio Trapezunzio, anche Bartolomeo Facio, Lorenzo
Valla, e Giannozzo Manetti celebri letterati di quell'epoca; e del
Panormita ebbe tanta venerazione Alfonso, che dopo averlo colmato di
onori, come si è detto, e fatto suo segretario, e consigliere, volle,
anche che fosse suo Maestro, e de' suoi figli, come lo fu anche de' figli
di Ferdinando. In un diploma quindi d'Alfonso del 1454, vien da [6] quel
Principe, chiamato, Poeta laureatus, Praeceptor, Consiliarus, et fidelis
noster (16).
Non mancò nemmeno questo Principe di formare con regia magnificenza una
biblioteca, né minor cura ebbe in accrescerla il suo figliuolo Ferdinando
I, ma nelle guerre, che vi furono poi nel Regno, allorchè Carlo VIII dopo
averlo occupato, dovette uscirne, ed abbandonare l'Italia, seco recò gran
parte de' libri di quell'insigne biblioteca, e presendendo da altri, il
Muratori (17) fa menzione di un pregevolissimo codice, che conteneva le
carte del Monistero di Casauria, che fu per comando di Carlo VIII
trasportato in Francia (18).
Ma l'operazione più bella d'Alfonso fu quella d'istituire in Napoli una
dotta Accademia. Non gli fu difficile ciò eseguire perché, come sopra si è
detto, e come ci attesta anche il Collenuccio (19), essendo la sua corte
ripiena di uomini letteratissimi in ogni facoltà, giureconsulti, filosofi,
teologi, oratori e poeti, non gli mancarono soggetti adatti a tal uopo.
Di quest'Accademia, la quale probabilmente fu la prima istituzione in
Italia, fu il capo il Panormita, e dopo Giovanni Pontano vivente ancora il
Panormita stesso, che l'adornò di leggi, ed istituti (20), ed il
quale sotto [7] Ferdinando I, figlio di Alfonso, l'adornò maggiormente, perché molto accrescimento
ebbe la letteratura fra noi dopo la presa di Costantinopoli fatta dai
Turchi negli ultimi anni del Regno d'Alfonso, essendo venuti qui fra
gl'altri letterati Greci, Emmanuele Crisolara, Costantino Lascari, Gazza,
ed Argiropolo.
In quest'Accademia furono ascritti l'ingegni più rari, così di Napoli, che
d'Italia, e per nominarne alcuni fra i Napoletani, Giacomo Sannazzaro,
Alessandro D'Alessandro, Andrea Matteo e Bellisario Acquaviva, Francesco
Elio marchese, Girolamo Borgia, il Cardinal Seripando, Giuniano majo,
Pietro Summanzio, Giovanni Albino, Scipione capece, Tristano caracciolo,
Elisio Calenzio, ed Antonio Galateo; e fra i forastieri il cardinale Bembo,
il cardinale Egidio da Viterbo, il Cariteo, Francesco Pucci, il cardinale
Sadoleto, Marc'Antonio Flaminio, Manilio Ballo, e Michele Marullo (21).
Per mezzo di quest'Accademia, ed altre istituite in Roma, ed altre parti
d'Italia, l'Oratoria, la Poesia latina, ed Italiana, la Filosofia Morale
ripigliarono l'antica eleganza, e proprietà, e particolarmente le latine
poesie del Pontano, e le latine [8] ed italiane del Sannazzaro possono
stare in fronte a più belli pezzi dell'antichità. Gli studi astronomici
furono anche sotto il Regno d'Alfonso, e successori della sua casa
illustrati dal Pontano stesso, e da Angelo Catone.
La nuova invenzione della stampa, non fu tarda ad illustrare il nostro
Regno, ed a facilitare il modo d'istruirsi, giacchè prima la rarezza de'
manoscritti, e l'esorbitante prezzo, che costavano rendevano la lettura
più difficile; ed è cosa notabile ciocchè si legge in una lettera scritta
dal Panormita ad Alfonso I (22) "sed illud, egli dice, a
prudentia sua scire desidero, uter ego, an Poggius melius fecerit, is ut
villam Florentiae emeret, Civium vendidit, quemo manus sua pulcherrime
scripserat. Ego, ut Civium eman fundum proscripsi, haec
ut familiariter a te peterem, suasit humanitas et modestia tua".
Introdotta la stampa circa la metà del secolo XV, fu trasportata in
Napoli da Sisto di Riessinger, Arnaldo da Brusella, e Maria Moravo,
giacchè i primi libri stampati con data, furono la lettura di Bartolo sul
codice stampata nel 1741, e certe Opere di Pietro da Ubaldis, e di Angelo
da Perugia su materie forentis (23). [9]
Né mancò il Re Ferdinando di proteggere i stampatori che vennero nel
nostro Regno, un editto infatti del detto sovrano a favore del detto
Mattia Moravo, e Gio: Marco da Parma ritrovasi nel Real Archivio della
Cancelleria (24), ed un altro a favore di Ajolfo Cantono da Milano
(25).
Gran cura ancora si prese Ferdinando, imitando gli esempi paterni nel
commentare le Lettere, ed abbiamo alle stampe un volume di Epistole, e di
Orazioni. E molto si adoprò per ben regolare il nostro Collegio de'
Dottori (26), e la nostra Università de' Studi (27), come da varj Diplomi,
che ne' nostri Archivi conservansi, accrescendo un'altra cattedra per la
lingua Greca, facendone Lettore Costantino Lascari, e ci avverte il
Pontano, che (28), "Ferdinandus Rex magnum pecuniam summam quotannis ex
Aerario pendendam statuit, rethoribus, Medicis, Philosophis, Theologia,
qui publice Neapoli docerent Egregie sane factum, et perpetua
commendatione dignum, ingenia prosegui, virtutes ornare, et ad excolendos
animas excitare juventutem".
I successori di Ferdinando I non lasciarono lo stesso impegno per le
lettere nonostante i torbidi tempi, ne' quali vissero e le continue
guerre, dalle quali fu il regno agitato, e particolarmente Federigo, il
quale ad esempio de' suoi [10] maggiori ebbe una famosa libreria della
quale erano bibliotecari celebri Francesco Pucci (29) e Giovanni Albino
(30), ed era questa in modo rispettabile, che in un Ordine diretto al Tesoriero generale del 1496 si legge: " Et perché fo anche promisso per
voi per nostro ordine et dareli tanti libri quanti ascendono a la summa de
duemila ducati de oro (somma in quei tempi di gran rilievo) da
tenerso se in deposito per loro per tutto lo mese de dicembre proximo, nel
quale non pagandose al predicto Collegio (cioè di cardinali) li dicti
ducati duemila al complimento de cinquemila imprestati che avessero ad
dividere per li Cardinali et favorirne loro voluntà però ve decimo, che li
libri ve so stati assegnati ultimamente per abbate Albino li debiate dar
con li poeti soprascritti et voi procurante con omne diligentia che al
tempo sieno redimiti ad tale non se vengano ad perdere et divider non se
per li Cardinali, non facendo lo contrario per quanto amate nostra gratia".
Ebbero anche cura i Monarchi Aragonesi di promuovere le belle Arti nel
nostro Regno, come lo dimostrano diversi Edifizi per loro ordine eretti,
Alfonso sin quasi da fondamenti ristorò od accrebbe il Castel nuovo di
Napoli, fortificandolo [11] nella maniera più propria, e soda di quei
tempi, dicendoci il Panormita (31) che "Arcem regiam, quam novam
Napolitani vocant a fundamentis Alphonsus restituit, et ita demum novis
operibus ampliavit, ut cum omni vetustate possit de magnificentia
contendere" ed a tal uopo volle leggere le opere di Vitrurio, che gli
furono date dal Panormita stesso (32), essendo stato Alfonso medesimo
l'Architetto di tal'opera (33), sotto di lui, ed a suo onore fu eretto il
magnifico Arco trionfale, che fu opera del celebre Pietro di martino
Milanese, che fu tanto caro ad Alfonso, che dopo averlo largamente
premiato, lo creò Cavaliere, il quale Arco ritrovasi dopo il ponte
all'entrata del Castello suddetto, ed appresso a questo vedesi la porta di
bronzo con bassorilievi nobilmente lavorata, che dinotano alcune azioni di
Ferdinando I d'Aragona, e questa fu fatta col disegno di Giuliano da
Majano, ed eseguita poi con sui modelli, e gittata dal celebre scultore di
quei tempi Guglielmo Monaco, che vi scolpì il suo nome (34).Fè
riedificare il nostro Episcopio, che era rovinato per i terremoti del
1456, riducendolo a miglior forma. [12]
Fiorirono anche sotto Alfonso, Andrea Ciccone, ed Agnolo Aniello Fiore,
Scrittori, ed Architetti, ed i Pittori Colantonio del Fiore, Andrea
Solario detto il Zingaro, Agnolo Franco, Agnolillo detto Voccaderame, e
Silvestro Buono e sotto i suoi figli per tacer d'altri, Pietro, e Polito
Damelli, che fra le altre cose dipinsero il palagio a Poggio Reale, ed il
cenacolo di S. Maria la nuova, che fa onore a quei tempi.
Ma sotto Ferdinando I fiorirono Novello da S. Lucano, Gabriele d'Agnolo e
Gio: Francesco Normanno, che ridussero l'architettura al buon uso, e
proporzione degli antichi Greci, e Romani, come dimostrano varie opere
da loro erette, qualcheduna delle quali ancor oggi vedesi (35), e
fra gli Architetti militari Gaspare Ferrata, e mastro Antonio Marchese
Fiorentino, che furono molto adoperati da Ferdinando, e da' suoi figli.
Ferdinando anche ampliò il ricinto della città, cingendola di mura di
piperno, che cominciarono dalla Marina del Carmelo, e finivano fin dietro
il convento di S. Gio: a Carbonara, che furon cominciate circa l'anno
1485, e terminate poi da [13] Alfonso II, suo figlio, che (36) molti altri
edifici fece costruire, vivente ancora il padre, e particolarmente un
sontuoso Palagio a Poggio Reale, con varie fontane, e gli ornamenti a
Porta Capuana, servendosi di Giuliano da Maiano, che fu generosamente da
lui in compensato (37). [14] |
(1) PANORMITA, Dicta et facta
Alphonsus Regis, libro 2, § 61.
(2) PIO II, Descrizione dell'Europa tradotta da
Fausto da Longiano, cap. 25.
(3) PANORMITA, libro 2, § 12.
(4) PANORMITA, libro 1, § 39.
(5) PANORMITA, libro II, § 60.
(6) PANORMITA, libro 2, § 15.
(7) PANORMITA, libro 1, § 12.
(8) PANORMITA, libro 2, § 61..
(9) PANORMITA, loc. cit.
(10) PANORMITA, libro 3, § 11.
(11) Quirini Diatr. Ad Epist. Fran. Barbari,
p. 17.
(12) TIRABOSCHI, Storia Letteratura Italiana,
tomo VI, parte 2°, f. 54, ed. Napoli.
(13) MURATORI, R (erum)
I (talicarum), tomoXX, p. 67 e tomo XXV, p. 1.
(14) PONTANUS,
De Liberalitate.
(15) PANORMITA, Libro 1, Pag. 5.
(16) ARCHIVIO DELLA CANCELLERIA, Privilegiorum
dal 1452 al 1458, f. 163;
Comune del 1463, fol. 103 a t, e 142 a t.
(17) MURATORI, R (erum)
I (talicarum), tomo II, parte 2°, f. 769.
(18) TIRABOSCHI, tomo IV, parte 1°, p. 114.
(19) COLLENUCCIO, Istoria Napol. Libro VI.
(20) ANTONIO GALETEO, Epist. Hieronimum barbonem.
(21) SARNO, Vita Pontani.
(22) PANORMITA, libro 3, Epist. 45.
(23) GIUSTINIANI, Saggio sulla tipografia del
Regno di Napoli.
(24) Partium X dal 1489 al
1490, f.
105.
(25) Partium X dal 1492 al
1493, f.
166.
(26) ARCH. CIV. COMUNE,
Partium X dal 1465 al 1466,
f. 132 a t, e 181 a t.
(27) Cun. VI dal 1482 al
1484, f. 139
a 1 e 142.
(28) TOPPI,De origine tribunalium, tomo III,
p. 307.
(29) Comune dal 1498 al
1499, f.
133.
(30) Comune XVI dal 1496 al
1497, f. 2 a
1°.
(31) PANORMITA, libro 1, § 23.
(32) PANORMITA, libro 1, § 44.
(33) CELANO, Notizie di Napoli, giornata 5.
(34) DE DOMINICIS, Vite de' Pittori, Scultori, ed
Architetti Napoletani, tomo I, pp. 206 ss.
(35) DE DOMINICIS, t. II, p. 69.
(36) SUMMONTE, Istoria di Napoli, libro 1,
cap. VI.
(37) G. VASARI, Vite dei Pittori, tomo II, p.
203, ediz. Di Livorno del 1767. |
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