Qualche anno prima che a Napoli scoppiasse la
rivoluzione e nascesse la Repubblica Partenopea, a Teramo, Melchiorre Delfico
scrisse un'opera apparentemente meno
impegnativa di quelle pubblicate in precedenza, ma, di fatto assai
importante sia sul piano del riformismo culturale che su quello della
biografia personale.
Si tratta del - Discorso sulle favole
Esopiane - che dettò nel corso del 1792 e di cui si conservano due
copie presso l'Archivio di Stato di Teramo: una in forma di fascicolo a
sé stante di pagine diciotto, di cui diciassette scritte a metà e
una totalmente bianca; e l'altra in forma di prefazione ad una raccolta
di - Favole Morali - che Alessio Tulli scrisse per l'educazione
delle fanciulle teramane. Nel codice del Tulli, il - Discorso -
abbraccia le pagine 13-45 ed è scritto con una grafia diversa da quella
del fascicolo, in un corsivo semplice, ineguale e un pò macchiato
(1).
Tra le due copie non vi sono variazioni, il
contenuto è identico e si diversifica solo per la lettera "Al nobil
uomo. Il Signor D. Alessio Tulli. Barone di Faraone - che nelle
Favole precede il Discorso e nel
fascicolo non si trova. La lettera
dedicatoria, che riproduciamo per intero, è assai preziosa,
innanzitutto, perché con il - Mio caro cugino ed amico - il
Delfico chiarisce i rapporti di parentela con il Tulli e, in secondo
luogo, perché egli plaude all'iniziativa pedagogica, la giudica utile,
meritevole e degna di riconoscenza,
La morte del Tulli, nato a Teramo il 31
gennaio 1739 da Silvestro Tulli e da Eugenia Michitelli, avvenuta a
Borghetto nel 1799, probabilmente ne ostacolò la pubblicazione.
Alessio Tulli, storico e letterato, fu uno dei
personaggi dì maggior rilievo del gruppo teramano della fine del
Settecento. Negli anni Sessanta aveva, sì, acquistato il feudo di
Faraone (Sant'Egidio alla Vibrata) e il titolo di barone, ma, nello
stesso tempo partecipava, insieme a Berardo Quartapelle
(2), a Gian
Francesco Nardi
(3) e ad altri ad una intensa attività
politica. Nel 1775 fu coinvolto con gli amici in un grave processo per
"miscredenza" da cui ne uscì in qualche modo assolto. Nel 1798 dallo
Stato Pontificio, dove si era rifugiato, incitò i Francesi ad entrare
nel regno di Napoli. Fece parte della prima municipalità teramana nel
1798, ma quando i Francesi andarono via la sua casa fu saccheggiata
dalle "masse" inferocite e nel rogo, che ne seguì, andarono distrutti
diversi documenti e diverse sue opere ancora manoscritte o in fase di
realizzazione. Si salvarono solo le due opere a stampa: il Catalogo
degli uomini illustri di Teramo
(4),
la vita del vescovo G. A. Campano
(5),
un inno in latino fu
raccolto e pubblicato dal Palma
(6) nel quinto volume della sua Storia sulla Diocesi e città di
Teramo, pochi altri frammenti storici furono in parte editi, all'inizio
del Novecento, dal Savini
(7).
Quando i Francesi tornarono,
una seconda volta, il Tulli tornò alla guida della municipalità teramana.
Ai primi di gennaio 1799 perse un figlio, Angelo, che racconta il De
Jacobis, fu "crudelmente ucciso dai contadini", in quanto appartenente
ad una famiglia avuta in conto di fautrice del sistema repubblicano
(8).
Con il Quartapelle e il
Nardi, per non parlare di tutto il gruppo che frequentava il Salotto
Delfico, si fece sostenitore di riforme radicali nel campo
dell'agricoltura e in quello dei rapporti sociali, auspicando lo
sviluppo dell'agricoltura e del commercio interno del Regno di Napoli.
Lo spunto alla composizione
delle Favole Morali -
che il Tulli, appunto, dedicò -
Alle
nobili donzelle mie contadine
-
quasi certamente si deve all'approvazione avvenuta l'8 settembre 1792,
di una scuola pubblica "di leggere scrivere e dei principi di
Aritmetica e un convitto di educazione pe' i giovani destinati alle arti
liberali e alle scienze"(9), promossa
e ideata dalla Società Patriottica teramana di cui egli faceva parte. La
scuola si reggeva sui fondi del soppresso convento degli Agostiniani,
che tante polemiche aveva causato, in città e fuori, tra la curia aprutina e il club della rinascenza teramana.
Gli apologhi che sono in totale quarantotto,
tante quante erano le famiglie che governavano la città di Teramo (il
quarantottismo) oltre il prologo, tendono a dimostrare la bruttezza dei
vizi e degli errori allora dominanti nella società e commessi anche dai
preti e dai frati.
"Versi spontane e dì buona fattura li
rendono pregevoli, ma - notò C. Campana (1816-1884) sul finire
dell'Ottocento - la maggior parte pe' cambiati tempi e costumi
riescono inopportuni (e questo è un secondo motivo per cui non
vennero pubblicati nemmeno dai suoi amici), chè ora sarebbe strano
rimproverare alle nostre amabilissime donne il vizio del giuoco"
(10).
Al Delfico, invece,
sembrò "opportuno" approfittare dell'occasione
per concorrere alla iniziativa del cugino con: "Un discorso preliminare
- egli
scrisse - dovrebbe quasi esser l'atrio o il peristilio dell'opera
medesima;
ma io sono andato vagando per le cime della materia, persuaso
che per veder con pienezza e distinzione gli
oggetti intellettuali, bisogna
levarsi all'origine delle cose medesime. Comunque, però sia -
concluse
- poiché voi l'avete gradito, il
vostro gradimento mi è sicuro garante di
quello pubblico".
Il "pubblico", invece, non conobbe mai
il Discorso né allora né dopo la morte del Tulli, né ad opera
degli eredi di questi, ma neanche ad opera del Delfico. E questo è
quello che stupisce maggiormente, considerando la cadenza annuale del
Delfico nella pubblicazione delle sue opere e il contenuto stesso
dell'opera. Probabilmente quando il Delfico ci ripensò, dopo la fine
delle disavventure giudiziarie, il sequestro dei beni famigliari e la
prigionia domiciliare, gli sembrò superato o quanto meno inutile fuori
dal contesto culturale nel quale era stato ideato e realizzato. Lo
pubblichiamo noi oggi, per la prima volta, per i motivi che abbiamo
accennato, rispettando fedelmente il testo, che, senza alcuna
digressione e con poche note, due per l'esattezza, scorre veloce e si
legge piacevolmente. Formalmente il Discorso non presenta al suo
interno divisioni in parti, ma dall'andamento è possibile suddividerlo
in tre parti: una prima, in cui il Delfico ricostruisce la storia della
favola, una seconda, nella quale ne rivendica il carattere
intellettualistico e, una terza, nella quale ne sottolinea le capacità
riformatrici in quel difficile momento
politico.
Nella trascrizione abbiamo operato solo
qualche intervento sull'ortografia delle parole, per renderle più
adeguate ai giorni nostri, non abbiamo eliminato nulla, abbiamo solo
preferito scrivere "pubblico" invece che "publico", e così "fu" al
posto di "fù" e "repubblica" al posto di
"repubblica".
Il Discorso è un'opera di occasione,
scritta senza dubbio per far
piacere ad un amico, ma anche un'opera voluta per concorrere
all'educazione morale e intellettuale dei suoi concittadini, pertanto
non è lontana dai suoi interessi ed è in linea con il riformismo
culturale dei suoi amici napoletani e teramani, in particolare, che in
quel periodo erano impegnati in un difficile lavoro di verifica e di
sintesi dentro e fuori l'Abruzzo. In quello stesso anno a Napoli, ad
esempio, l'atriano Troiano Odazi, successore del Genovesi alla cattedra
di Economia Politica, inaugurò l'apertura dell'anno accademico 1792-93
con una brillante prolusione, che il Mezucelli pubblicò nel 1890 sulla "Rivista
Abruzzese di Scienze Lettere e Arti" (11),
mentre gli amici Michele Torcia e
G. M. Galanti si portarono a Teramo: il primo per continuare le sue
ricerche di archeologia (12) e il secondo per verificare l'opportunità
di procedere ad una ristrutturazione circoscrizionale dell'Abruzzo
secondo la Prammatica XXIV - De Administrazione Universitatum,
voluta da Ferdinando IV ed emanata il 23 febbraio 1792 (13). Nel 1791
venne inaugurato a Teramo il Teatro Corradi che in omaggio alla moda del
tempo era stato dedicato al "Genio Patriae, et Civium Hilaritati",
riprendendo una iniziativa del secolo precedente, quando nel 1687 i
due fratelli chierici Maurizio e Angelo de Fabritiis si impegnarono,
pare con non molta fortuna, a far costruire nella città un teatro ove si
potessero recitare le commedie e le operette morali per l'educazione
della gioventù teramana (14).
Il 1792, purtroppo, fu un anno doloroso per
Melchiorre Delfico, poiché gli morì il fratello Gian Filippo, l'autore
dell'applaudita "Memoria per
la conservazione e riproduzione dei boschi nella provincia di Teramo", (15)
erano scomparsi gli amici Francesco
Cicconi di Morrodoro (16)
e Francescantonio Grimaldi, mentre egli stesso
era stato accusato di "miscredenza" e di settarismo. Pur in mezzo a
tante amarezze e difficoltà il Delfico continuò a lavorare per sé, per
la sua provincia e per gli amici: per sé elaborò una nobile "difesa",
che inviò al Codronchi
(17);
per la provincia scrisse una "supplica"
per invocare il miglioramento dei
collegamenti tra Teramo e Campli
(18);
per gli amici, incoraggiò V. Comi a
concretizzare, nonostante le difficoltà internazionali, l'Europa, come è
noto, guardava con preoccupazione alla Francia e alle sorti della
Convenzione Nazionale, il progetto editoriale di dotare il regno di
Napoli di una rivista europea. Fu così che nel 1792 uscì il primo numero
del "Commercio Scientifico dell'Europa col Regno delle due Sicilie" (19).
Il Discorso, che come abbiamo
ricordato, trae origine da una motivazione occasionale, non è uno
scritto di natura pedagogica, poiché a ben guardare rivela una natura
assai polemica e giacobina.
Il Settecento fu il secolo d'oro della favola
sia in Italia che in Europa; gli editori facevano a gara nello stampare
o ristampare le opere migliori della fabulistica.
"Rigogliosa fioritura -
scrive il Toldo - ha nel XVIII secolo e
nei primi anni del seguente la
favola nostra, ma Proteo multiforme, ora gittasi su le spalle la
cocolla fratesca e moralizza dal pulpito, ora scende in piazza e la
folla arringa e predica riforme, come i Lanotte, i
Richer, gli Aubert, ora invece
diventa reazionaria e impreca ai lupi sanculotti; talvolta incede
grave, con flemma britannica, ed esce dalla
scuola del Gay, del Calton, del
Johonson, o sdegnosa del presente riprende
il classico pallio e filosofeggia con
Socrate" (20).
Sull'esempio di La Fontaine i favolisti
italiani scrissero apologhi esopiani per l'insegnamento dei fanciulli.
Alcune favole furono scritte in versi e quelle scritte in prosa furono
trasformate in poesia (Crescimbeni); mentre alcune favole fecero la
satira alla nobiltà, alla ricchezza e alla moda stravagante, altre
divertirono prendendo di mira le manie piccole e grandi degli uomini.
Nel periodo in cui il Delfico si occupò del
problema, in Italia andavano di moda le favole di Tommaso Crudeli
(1703-1745), che parlavano
della rarità dell'amicizia, del carattere, dell'adulazione dei
cortigiani, delle cose ridicole della società italiana; e di Lorenzo Pignotti (1739-1812) che, sia pure attraverso le reminiscenze pariniane,
punzecchiavano con vivacità le "preziose", i "belli spiriti", le donne
vezzose e i frolli cicisbei. Il Tulli quasi certamente fece riferimento
a questi, ma anche al sacerdote Giuseppe Manzoni (1742-1811), al
milanese Gaetano Pèrego (1746-1814), che V. Cuoco lodò in articolo
apparso sul "Giornale Italiano" del 14 gennaio 1805, e a Aurelio Bertola
(1753-1798), che con le sue favole intendeva
"servire alla sua nazione e al suo secolo".
Nella dedica
"Alle Nobili
donzelle", che
riproduciamo e pubblichiamo per la prima volta, il Tulli si muove entro
lo stesso quadro e con gli stessi obiettivi del Delfico.
"Offrendo
a voi questo primo saggio de' miei Apologi o Favole
Morali, potete ben immaginare, che
niun particolare motivo di personale interesse mi ha potuto a ciò
determinare, ma quel natural sentimento di affezione e di stima per la
metà della specie, nella quale il Creatore ci volle dare l'idea della
bellezza ed il più puro e perfetto sentimento
del piacere.
Avendo quindi riconosciuto che nella vostra
età più tenera le operazioni
dell'immaginazione anticipano quelle della ragione, ho creduto che la
prima possa servir di strada all'altra, e insinuar così nelle giovani
anime quei sentimenti e quei giudizi, i quali altrimenti nella
vita non si acquistano, che alle
spese della propria esperienza, de' pericoli, e spesso de' più
forti dispiaceri. Una provvista di verità morali vale allo spirito ed al
cuore quanto alle macchine una provvista di materiali di
sussistenza, per cui non ci
troveremo nelle spiacevoli circostanze di cercar
rimedi per i mali che si potevano
prevenire, né di andar accattando consigli
al momento, nel quale se ne prova il bisogno. Ho considerato
similmente che siccome ogni coltura
dello spirito contribuisce direttamente
alla bellezza, da cui nasce la vera
amabilità, è più l'effetto della Fisonomia, del carattere, e dei
sentimenti abituali, che di quella regolarità disegno, ed armonia di
parti, e di colorito, che costituisce la bellezza ideale della
quale tanto pochi esemplari ci
fornisce l'avara Natura. E poiché le donne per sentimento amano
il pregio della bellezza, e per riflessione la virtù, ameranno anche più
questa, quando la stimeranno un mezzo adatto ad
accrescere quella ed abbellir il
volto coi bei colori del Cuore. Sono quindi esse portate a credere che
l'essere stata in altri tempi questa nostra Patria celebrata per
la bellezza delle sue Donzelle da altro non potè prevenire,
che dall'aver riunite alle naturali
qualità quelle che solo può dare l'educazione perfezionatrice
dell'umana natura. Ed a mostrarvi che la sola
riunione della bellezza dell'animo e
del corpo è quella che può effettivamente eccitare le belle e
grandi passioni produttrici di effetti corrispondenti,
senz'andar ricercando le Storie straniere, posso ben addurvi l'esempio
di una nobile Fanciulla nostra
Concittadina pel di cui amore un Valentuomo del XV secolo compose
un'opera, che rendè illustre il di lui nome, com'esso illustrò in quel
Libro la di lui Diva. Fu quella Lucrezia De Lellij, Nipote di quel
famoso Teodoro della stessa famiglia Vescovo di
Trevigi, e quegli Francesco Colonna
Veneziano, che sotto il nome di Polifilo, cioè di amante di Polia,
pubblicò l'opera intitolata Ipnerotomachia, dove celebrando le bellezze
ed i pregi della sua dama, mostrò singolari talenti, e contribuì non
poco al rinascimento delle belle arti,
e specialmente dell'architettura. Se
dunque le generazioni passate ebbero una ragionevole celebrità,
ed il Clima, l'indole del suolo, le qualità dell'atmosfera non sono
punto cangiate, è ben giusta la mia speranza che dobbiate reintegrarvi
ai primi onori, e render più felici le generazioni
che succederanno; poiché qualunque
sia l'illegitma, ed ingiusta dipendenza, in cui le leggi e gli
Uomini han posto il bel sesso, sarà sempre vero che essi saranno quali
voi vorrete che sieno, cioè buoni, se il vostro impero non sarà solo
sostenuto dalle armi della giovanile vaghezza, ma guidato dal vero
amore, che come dalle Grazie, così dev'esser sempre
accompagnato dalla ragione e dalla
virtù. Ecco i miei voti, che coll'opera vi prego di accettare".
In un'opera tra la favola e
l'opera buffa si era cimentato perfino l'economista chietino Ferdinando
Galiani, di cui quest'anno ricorre il bicentenario della morte
(1728-1787), con il Socrate
immaginario, musicata dal Paisiello. Il concittadino Biagio Michitelli
(1759-1833), giureconsulto e filosofo, amico personale del Delfico, ma
anche del Tulli, fu scrittore e traduttore di favole e novelle.
"Conoscendo a perfezione l'inglese -
scrive C. Campana -
voltò
dall'originale in italiano Re Leer,
tragedia di Shakespeare, e serbò sì nitidi e veri i concetti
dell'immortale tragico, che maggiore fedeltà non trovai nella traduzione
in prosa del Rusconi.
La peste degli animali, apologo in versi
imitato da La Fontaine, una novella, squarci dei poemetti di Pope, il
viaggio sentimentale di Sterne furono altre traduzioni fatte
dall'inglese. Ed il viaggio a Zuncoli di uno scolaro di Sterne in
quindici lettere, fu scritto da lui ad imitazione
di quello del sommo britanno. Dal
tedesco voltò nel nostro idioma diversi pezzi poetici di Schiller
ed il dialogo d'Ippocrate in Abdera di Wieland.
Lasciava pure una novella col titolo
di Braccanali, ed una farsa intitolata Arpagone, ed una quantità
di prose e poesie"(21).
Lo spirito di satira
lieve - come è noto - influenzò lo stesso Goethe ne
"La Volpe
Reineke", scritto nel
1799 e proprio in Germania in quel periodo la favola toccò il massimo
della diffusione dopo gli studi di G.
E. Lessing, che tra l'altro fu l'ultimo grande favolista della
tradizione esopiana. Oltre alla Germania e alla Francia, che
costituirono i poli di maggiore diffusione, l'Inghilterra ebbe grandi
favolisti, tra cui J. Gay, le cui Fables (1727-1738) trovarono
ampia eco anche in Italia. Tutti questi autori erano noti al Delfico e
in gran parte presenti nella sua biblioteca privata.
Nel quadro di questa rinascita europea della
favola e in pieno razionalismo illuministico, il Delfico rivendicò il
valore pedagogico degli apologhi, ma nello stesso tempo mise in guardia
i lettori dall'uso improprio e strumentale che spesso ne faceva il
potere politico. Dopo aver indicato nell'Europa orientale la zona di
maggior diffusione della favola e aver individuato nella Bibbia le prime
tracce, soprattutto, nel libro dì Giobbe e nella storia di Sansone,
esortò a considerare che quanto giovò una volta all'umanità, poteva
tornare utile alle popolazioni per accelerare i processi di
trasformazione e di sviluppo. Egli spiega, infatti, che i Profeti, come
tutti coloro che dovettero parlare al popolo ed ai tiranni, trovarono
gli apologhi giovevolissimi per raggiungere gli scopi voluti. Prendendo
lo spunto da questa considerazione, il Delfico sottolinea l'utilità
delle favole morali pur essendo consapevole della difficoltà, come aveva
scritto il Tulli, di inventarne delle nuove e massimamente rispondenti
alle finalità che si intendevano raggiungere.
Questo è in sintesi il contenuto del
Discorso, che il Delfico doveva avere in mente già da qualche tempo,
in quanto se ne possono individuare
tracce concrete in una lettera al fratello dove spiegando la
metodologia usata nella composizione delle "Ricerche sul vero
carattere della giurisprudenza romana" (1791), disse:
"L'apologo vuolsi inventato per
rivendicare i dritti della morale e
della giustizia, dov'erano condannati al silenzio. Così dev'essere
considerata la mia opera: la giurisprudenza romana vista in senso
proprio e vista in allegoria. Ho dovuto fortificarmi nel senso
proprio per sostenere il soggetto e dal filo dell'errore tirare lateralmente delle verità. Non
poteva calcarle con la forza di raziocinii, l'ho fatto qualche
volta con la forza dell'espressione. Se io fossi capace di timore,
dovrei averne; ma chi ha timore non scrive pel bene pubblico come io ho
fatto fino ad ora [...].
Avrei voluto moltiplicare le prove,
le ragioni su molti articoli, ma ho avuto sempre in odio i libri
pesanti, e l'erudizione che avrei potuto prodigarvi non era l'oggetto
ch'io voleva rilevare. L'articolo dei cultori della giurisprudenza l'ho
lasciato mozzo per molti riflessi e specialmente perché la
declamazione è comune contro di
essi..." (22).
In un passo de
"La Delficina o sia
Raccolta di pensieri di Melchiorre
Delfico sopra
svariati argomenti"
pubblicata nel 1841 leggiamo:
"Nella storia della
filosofia morale si troverà presso tutte le nazioni che la prima maniera
di scrivere e di insegnare fu per via di favole, come
quelle di Esopo, di Fedro, di Saadi, e le
parole di Salomone. Perché questo?
Ardisco rispondere che le favole morali siano state come i geroglifici
della morale essa stessa"
(23).
Nelle riflessioni relative all'amministrazione della giustizia, però,
soggiunse: "è
senza fallo da compiangere quel popolo, la cui volgare sapienza
si manifesta in proverbi o apoftegmi contrari
alla morale, ingiuriose alle leggi
ed ai governi, ed in se stessi abjetti e vili; imperocché questo indica
uno stato di abituale
corruzione, assai peggiore forse dello stato selvaggio e della stessa
anarchia"
(24).
Cronologicamente, quindi, il
Discorso
si colloca subito dopo la
pubblicazione delle "Ricerche
sul vero carattere della giurisprudenza romana (1791)"
e prima della "Lettera
a S.E. il Sig. Duca di Cantalupo Intendente generale de' reali Stati
Allodiali (1795)" e
più in generale si situa tra la fine della monarchia in Francia e
l'inizio delle guerre napoleoniche, che tanti problemi causò allo stesso
Delfico nella sua qualità di Assessore Militare della Provincia di
Teramo per l'arruolamento dei soldati.
Nel corso del 1792 il re di
Napoli Ferdinando IV, temendo il peggio, nonostante le dimostrazioni di
sicurezza, ordinò la leva generale di tutti gli uomini atti alle armi,
sollecitando tutti i Presidi delle Province a promuovere le offerte più
utili al mantenimento del costituendo nuovo esercito. Per la provincia
de L'Aquila il governo scelse come responsabile il marchese Lelio Rivera
(25) mentre per Teramo se ne fecero banditori Gio. Filippo Delfico e
Domenico Cosmi, Ufficiale della Segreteria
di
Stato, mentre per l'organizzazione di un corpo di
volontari la città scelse Giovan Berardino e Melchiorre Delfico
(26)
al primo de' quali - racconta il Palma, - ad operazione conclusa "fu
inviata, indi a non molto, la croce
di Commendatore, ed all'altro quella di Cavaliere dell'Ordine Costantiniano,
per aver entrambi spiegato tutto lo zelo in servigio del Sovrano. I
Volontari dell'intera provincia venivano esercitati alle armi in Teramo.
Ed ecco le prime spese straordinarie della città per l'accomodo e la
tenuta dei quartieri ne' conventi di S. Domenico, di S. Francesco, S.
Agostino, S. Maria delle Grazie,
del Carmine e fin del Seminario, e per quant'altro
faceva andare a carico delle Comuni
la presenza della truppa. Ecco altresì la prima ferita al
pubblico costume, poiché tanti giovanotti, i quali avevano abbandonato
o lo studio o i mestieri, o la zappa, trovandosi ben pagati, ben
pasciuti e corrotti da cattivi esempii, ricomparivano ne' loro Paesi (e
molto spesso per le speculazioni pecuniarie di qualche uffiziale)
assai diversi da quelli che n'erano
partiti"
(27).
Per l'arruolamento delle reclute il
"Parlamento Generale" di Teramo si interessò a più riprese: il 7 ottobre
1794 per i criteri di scelta; l'8 ottobre 1794, per la scelta dei 32
cittadini (i parroci furono invitati a presentare lo "Stato delle anime"
delle Parrocchie, non esistendo l'anagrafe comunale, da cui furono
ricavati il numero degli abitanti e l'elenco delle famiglie numerose) e
per sottoporre i prescelti a visita di idoneità; il 9 dicembre 1794 per
deliberare il rimpiazzo di tre soldati che avevano fornito un "cavallo
montato" usufruendo del diritto dell'esonero; il 29 dicembre 1794 per
il giuramento delle reclute; il 5 gennaio 1795 per deliberare le spese
di viaggio delle reclute da inviare a
Napoli per l'addestramento
(28).
Nel 1796 il Delfico si portò a Sulmona per
fare omaggio al re Ferdinando IV di gran parte degli argenti della
città di Teramo.
Tutte queste preoccupazioni: personali e
militari, sociali e culturali, nazionali ed estere, non traspaiono
minimamente nel Discorso che è tutto teso a sgombrare l'animo del
popolo dai condizionamenti politici palesi ed occulti, grossolani e
raffinati, quest'ultimi soggetti ad essere meno
rilevabili.
Il bisogno di comunicazione - argomenta il
Delfico - fece sì che nascessero gli apologhi e che col tempo questi
crescessero e si moltiplicassero, tramandandosi di generazione in
generazione e ciò a prescindere dall'esistenza o meno di un unico centro
d'irradiazione. Lungo il cammino, però, gli apologhi, come le favole,
incontrarono dei cultori interessati negli ambiziosi e nei potenti, i
quali, per dimostrare di essere potenti anche nell'ingegno li
trasformarono in giochi di società e facendo
prevalere l'aspetto ludico su quello
pedagogico, commisero un grave errore storico, ignorando che le
favole rappresentano "la morale dell'infanzia dell'umanità" e
che esse furono utili per l'educazione dei fanciulli e per la
trasmissione delle abilità tecniche ed espressive. L'uomo, infatti,
spiega il Delfico, non ha ricevuto dalla natura che le disposizioni
necessarie per crescere "chiunque non abbia perciò al favor
dell'educazione potuto
acquistare tali qualità al grado di potersene far un uso proporzionato
ai bisogni, si troverà ancora presso a poco nelle epoche primitive".
Le favole, pertanto, nacquero per
necessità, come primo mezzo per far ragionare gli spiriti non esercitati
al raziocinio, poiché mancavano di idee astratte, e non per il gusto
delle finzioni o per un ignoto desiderio allegorico. Quando esse
diventarono preda e trastullo del dispotismo monarchico e degli uomini
delle corti entrarono in crisi e non produssero più gli effetti positivi
per cui erano sorte, "giacché il dispotismo tanto più è tale quante
più facoltà si combinano nel punto centrale delle sue forze".
Analogamente, spiega il Delfico, l'aristocrazia, considerando la
sapienza un fatto di propria competenza, escluse dalla cultura gran
parte della umanità giudicandola incapace di progredire per concetti
astratti. Allora la filosofia con i suoi metodi e il dispotismo con le
sue ritorte articolazioni incatenarono lo spirito dell'uomo semplice e "l'immaginazione
divenne sterile fra le secche formule dei sillogismi, e lo
spirito restò inviluppato ed oppresso alle minacce del tiranno, ed ai
terrori della superstizione".
Pertanto le favole, che erano sorte nel seno
dell'umanità come mezzo di comunicazione e di crescita morale, si
trasformarono in catene e in strumenti di oppressione dei popoli.
Questo attacco violento contro il dispotismo
monarchico fa nascere il sospetto che il Delfico parlò delle favole non
tanto per far piacere a un amico quanto per concludere anche
cronologicamente un discorso politico già avviato nell'ambito delle "Riflessioni
su la vendita de' feudi (1790)"
e proseguito nelle "Ricerche sul vero carattere della
giurisprudenza romana e dei suoi cultori (1791)".
Nel primo scritto, infatti, per convincere il
sovrano a liquidare i feudi si era scagliato contro la feudalità; nel
secondo, per spingerlo a una riforma del sistema giudiziario aveva
rivelato le bassezze e la corruzione esistenti nell'ambito della
magistratura, affermando che i giudici e gli avvocati col tempo erano
diventati "i continui nemici della legge,
mentre la reclamavano in loro favore,
e de' magistrati medesimi che cercavano
corrompere o indurre in errore. In quanto poi allo Stato, i forensi
non sono in alcuno dei
rapporti utili e necessari alla sussistenza del medesimo e
discontinuano anzi le relazioni civili, impegnando l'attività loro o
invano o in pubblico danno; per cui la società non può considerarli,
che come contrari al suo benessere
ed alla sua prosperità.
Dalla continuazione
del mestiere, il quale nasce come abbiamo veduto
dalle cattive leggi,
questi professori vanno ad acquistare un carattere morale
perverso, ed un
carattere intellettuale incerto e falso; poiché col continuo disputare
indifferentemente pel giusto o per l'ingiusto, queste idee diventano
indifferenti; e si perdono nell'animo e nel cuore i principi, che la
natura vi ha fondati, e che le leggi e
l'educazione devono migliorare e rischiarare"
(29).
Contro i feudi e il mondo
della feudalità si era espresso in maniera ancora più severa,
osservando, innanzitutto, che "le
leggi feudali",
non
solo, stabiliscono, ma
"differenziano
le condizioni degli uomini, ed autorizzano l'ingiustizia e
l'oppressione",
in secondo luogo, annotò:
"Molti
si fanno un pregio
di ripetere con Montesquieu, che la Virtù non è il principio
delle Monarchie, ma l'onore: e che quindi la corruzione è un male in
questi stati, e che è una miserabile fantasia il pretendere d'apportarci
riparo". Io -
conclude il Delfico – "non
rispondo, ma domando loro, se l'onore può coesistere con i vizi e con la
bassezza d'animo, colla miseria degradante. Sia che si vuole di quei
principj male immaginati e peggio intesi, sarà sempre vero, che l'onestà, la probità, la moderazione
saranno principj necessari al
benessere delle Nazioni, e che dove vi è l'abuso illegittimo di
un cittadino sull'altro, dove vi è una doppia legislazione, dove il
Sovrano ha perduto una parte del potere, quei principj non vi possono
allignare"
(30).
Giacinto Pannella, che, insieme a Luigi Savorini, all'inizio del Novecento
raccolse in quattro volumi le opere più importanti del Delfico, nella
nota che aggiunse alla edizione della "Giurisprudenza Romana",
commentò:
"fu audace
nell'assalire di fronte due rocche, quella della vecchia aristocrazia
medievale e l'altra della giurisprudenza, ed affrontò,
con le -
Riflessioni sulla vendita dei feudi -
1789 - e le
Ricerche sul
vero carattere della
giurisprudenza romana -
1791 -
l'ira feudale e quella forense"
(31).
Il biografo G. De
Filippis-Delfico nel 1836 aveva espresso un giudizio analogo, dicendo:
"Al passo dato contro la feudalità,
ardimentoso certo per quei tempi, in cui volevasi far credere
l'aristocrazia il sostegno de' troni, tenne egli dietro con altra non
minore arditezza di pubblicare il suo libro sulla Giurisprudenza romana,
che non poteva mancare di
suscitargli contro una classe non men potente allora in Napoli del
baronaggio. Però la rabbia baronale e la forenze -
commentò -
furono affatto
impotenti, a quel
ch'egli diceva" (32).
I ripetuti accenni al
dispotismo monarchico e alle chiusure culturali dell'aristocrazia
sembrano destinati a mettere sull'avviso i popoli dall'apparente bonomia
dei sovrani illuminati. Le "teste coronate" e gli uomini delle corti,
spiega il Delfico, dimenticando l'origine, la
serietà e il valore cognitivo delle favole se ne sono
impadronite e le riflettono contorte sulla società per conservare i
sudditi nell'ignoranza e nella superstizione. Tanto ciò è vero -
aggiunge d'accordo con Fedro - che spesso i popoli per dire delle verità
contro e a dispetto dei tiranni utilizzano proprio le favole.
"Non sarebbe codesto un picciol merito
- commentò - poiché
tanto è meritorio il dire le verità
morali agli uomini, quanto più ne hanno bisogno,
e ne hanno maggior bisogno,
quanto più la verità ha più possenti nemici".
Contro i tiranni in
turbante o in diadema anche le "ariette
di teatro sono utili e quanto più le immagini sono precise, tanto più
facile ne risulterà l'applicazione e così
- scrive sempre nel
Discorso - il mulo che
non fugge all'avvicinarsi dei ladri indica l'indifferenza per li cattivi
governi".
Tutto il
Discorso
è quindi decisamente mirato
al perfezionamento della "sensibilità sociale" e alla ricerca della
felicità pur essendo l'Autore cosciente che non tutte le favole
producono gli stessi effetti e non tutte sono utili allo stesso modo.
Probabilmente l'occasionalità
dell'intervento e la fretta, pur in un quadro di grande adesione
personale e intellettuale, non consentirono al Delfico di definire e
articolare meglio il Discorso
né sul piano politico né su
quello epistemologico. Egli, infatti, non vede, come del resto la
maggior parte degli scrittori politici del secolo XVIII, una grande
differenza tra la tirannia e il dispotismo Gli era sufficiente
dimostrare che entrambe ostacolavano la ricerca della felicità.
"La tirannia, secondo il pensiero antico,
preteoretico, era -
scrive
T. Serra -
la forma di governo in
cui il legislatore si era riservato il diritto
di azione e aveva bandito i cittadini dal
dominio pubblico, isolandoli nell'intimità della casa e dove si pensava
attendessero ai loro interessi
privati. La tirannia, in altre parole, privava della felicità pubblica e
della libertà pubblica, senza
necessariamente interferire nel perseguimento degli
intereressi personali e nel
godimento dei diritti privati. Secondo la teoria
tradizionale, la tirannia era la
forma di governo in cui il legislatore legiferava secondo il suo
volere e nel suo personale interesse, offendendo così il benessere
privato e le libertà personali dei suoi sudditi. Il diciottesimo secolo,
nel parlare di tirannia e di dispotismo, non faceva distinzione tra le
due possibilità e comprese l'acutezza della distinzione tra
privato e pubblico, tra un non
ostacolato perseguimento dei propri interessi privati e il godimento
della libertà pubblica o della pubblica felicità solo quando, nel
corso delle rivoluzioni, questi due principi vennero in conflitto fra di
loro"
(33).
La tirannia come il dispotismo si incardina
nel Delfico in quella forma di governo in cui il legislatore opera
secondo una sua particolare volontà e nell'esclusivo interesse
personale, offendendo in tal modo tutti gli altri componenti il
consorzio sociale.
Una certa ambiguità,
inoltre, si nota nell'uso del termine aristocrazia
il cui potere, secondo il Delfico, è basato
sul valore delle genealogie familiari e sul rispetto puntuale della
prassi, L'aristocrazia costituiva un corpo a parte fra il sovrano e la
Nazione inutile in quanto "o è una
parte della Nazione o no; ma essere
e non essere nel tempo stesso, essere
per un rapporto e non essere per un
altro è contraddizione. Non potendosi
fondare l'assertiva su ragione, si
ricorre alla Storia: ma che dice mai questa maestra - si
chiede il Delfico? - Che gli strangolatori furono di quella classe? I
primi aristocratici non potevano essere nobili, nel senso comune che si
dà a tal parola. Qual è lo stato attuale? Chi si oppone ai progressi
della ragione? Chi al miglioramento delle leggi? Chi agli
avanzamenti della civilizzazione? Chi
all'integrità della giustizia? Chiunque ha interesse a conservare
l'ignoranza e l'errore e il possesso" (34).
Nell'agire pratico il Delfico accomuna
l'Aristocrazia alla Nobiltà e non potendo per ovvi motivi parlare del
Regno di Napoli fa riferimento alla Francia scrivendo: "La Nobiltà in
Francia o era comprata o era genealogica: la comprata non ha alcun
diritto, la genealogica era un mestiere e non un merito" (35).
Come si vede c'è appena un accenno a una
indagine categoriale e sociologica, ma niente più poiché è preminente
l'aspetto politico (36).
Nelle favole, parimenti, egli sottolinea solo
l'aspetto politico, e vede solo nel diverso peso tra intenzionalità
morale e godimento artistico la differenza tra la favola e l'apologo.
Senza dare per nulla uno sguardo alla diversa morfologia, mette insieme
le favole con le parabole, l'apologo con l'apoftegma in quanto li
ritiene provenienti "dagli stessi principi".
La prefazione invece gli offrì lo spunto per
approfondire lo studio sull'origine dei sentimenti morali, analizzati
negli Indizi di Morale (1775) e che riprenderà successivamente
tra il 1814 e il 1816 con la redazione delle due "Memorie" sulla
perfettibilità organica considerata come il principio fisico
dell'educazione.
Il riferimento a precedenti studi è palese là
dove scrive: "Si vede quindi che i
progressi della morale corrono paralleli a quelli dello spirito,
e senza il perfezionamento di esse le idee morali debbono rimanere
nella oscurità, e nella,
confusione. Se intanto gli apologi furono la morale dell'infanzia
dell'umanità, si potrebbe credere che l'utilità ne fosse finita
dopo un considerevole miglioramento
sociale, e dopo che la morale pervenuta al vero grado di scienza
si può far derivare dalla sublime teoria
delle sensazioni, cioè dalla Natura e
proprietà dell'animo umano, per quanto esse sono conosciute" (37),
ma così non è.
Il
Discorso,
quindi, si muove
nell'ambito della ricerca sulla felicità delle Nazioni e all'interno di
uno storicismo non ancora abbandonato.
"II volgo (e vi è del volgo in tutte le
classi sociali, non escluse le più rispettate) se non è nelle
modificazioni dello spirito del tutto eguale
ai popoli incolti delle prime
Epoche è forse in uno stato peggiore, poiché -
scrive -
lo stato di errore e di pregiudizio è più
infelice di quello solo d'ignoranza".
Per rimuovere dalla
storia questa drammatica situazione, anche le favole morali potevano
ancora essere utili per la semplicità delle loro strutture interne e per
la loro capacità di fare subito presa sul pubblico.
Le verità - scrive nel
Discorso
- "dette in un apologo non mostrano tanto
l'odiosa divisa, diventano presto di
pubblica proprietà, e corrono per le strade come le ariette di Teatro di
più facile espressione e più accostanti alla natura. E poi quando le
immagini sono precise, l'applicazione si fa facilmente: così la rana che
crepa per eguagliarsi al Bue, si rapporta subito al vano ed ozioso degli
omaggi popolari; il mulo che non fugge all'avvicinasi dei ladri indica
l'indifferenza per li cattivi governi; la Donnola che non mantiene
parola, indica di non doversi prestar fede ai malvaggi; l'asino in
gravità pel carico delle reliquie fà subito il ritratto
dell'ignorante messo in dignità
sacre o profane, senza merito personale".
In sostanza, mentre le
Favole Morali
del Tulli si collocano
nel filone settecentesco dell'educazione delle donne, il
Discorso
del Delfico rientra
nel filone illuministico e suo
personale della lotta contro l'aristocrazia, considerata il puntello più
importante del dispotismo. Nel moralismo riformistico del Delfico non
c'era spazio per la strumentalizzazione politica della cultura o della
donna (38),
ma solo per la diffusione dell'istruzione pubblica nel quadro di un
rinnovato concetto dell'estetica e del bello nei rapporti umani e
culturali. Il binomio dispotismo-aristocrazia doveva pertanto essere
individuato e annullato a tutti i livelli, soprattutto laddove si
presentava con il
volto meno appariscente e per questo più pericoloso del rispetto della
tradizione e della prassi. In conclusione nella battaglia contro la
feudalità il Delfico invocò l'unità dello Stato, in quella contro la
magistratura la sovranità della legge, mentre nella lotta contro il
dispotismo auspicò un nuovo ordinamento sociale, purtroppo senza
specificarne i contorni e le forme istituzionali, per cui non è assurdo
parlare, almeno in questa fase, di un Delfico non molto lontano dalle
idee dei pensatori politici d'oltralpe, meno vicini all'istituto
monarchico. |