«Il dono che volete farmi è
troppo caro al mio cuore perché
io possa ricusarlo. O' come
potrei ricusare ciò che dal
vostro ingegno mi viene per mano
vostra, in pegno della vostra
amicizia? Io lo collocherò nelle
mie cose più care piacendo
l'animo mio dei profondi
pensieri con cui avete saputo
svolgere quello del gran
Fiorentino giacché son certo che
sarà opera degna di voi e piena
d'altissima filosofia».
Così Gian Giacomo Trivulzio
ringraziava l'amico Melchiorre
Delfico del dono di un
«preziosissimo manoscritto» su
Niccolò Machiavelli. La lettera,
datata Napoli, dove il marchese
milanese si trovava per un breve
soggiorno, 7 gennaio 1824 (1),
consente di collocare l'operetta
agli inizi degli anni Venti (2).
Nonostante l'Autore provvedesse
subito a mandarglierlo, il
marchese ricevette l'opuscolo
solo nell'estate successiva,
quando lo lesse restandone
favorevolmente colpito (3).
Dopo la morte di Trivulzio,
avvenuta nel marzo del 1831,
Delfico inviò il manoscritto al
marchese aquilano Luigi
Dragonetti (4) che ne caldeggiò
la pubblicazione; cosa che non
avvenne perché il suo autore
riteneva di dovervi «aggiungere
qualche cosa» (5).
Rimasto inedito, il testo finale
è tuttora irreperito. Di esso si
conservano due stesure, entrambe
preparatorie, dal titolo
Osservazioni sopra alcune
dottrine politiche del
Segretario fiorentino, che
d'ora innanzi chiameremo per
comodità espositiva
Osservazioni I e
Osservazioni II. Con
quest'ultima denominazione
indichiamo la stesura che, sia
per struttura (nonostante sia
mancante, rispetto all'altra,
delle riflessioni delficine sul
pensiero militare di
Machiavelli), sia per stile e
argomentazioni, riteniamo
essere, tra le due, quella
successiva e forse neppure molto
lontana dalla versione
definitiva.
Recentemente pubblicate (6), le
Osservazioni acquistano
un rilievo critico consistente
nella storia della fortuna di
Machiavelli in Italia nei primi
decenni dell'Ottocento. Non
soltanto perché esse si
collocano in un periodo, quello
tra la fine del Settecento e gli
inizi degli anni Quaranta del
secolo successivo, di relativa
stasi degli studi machiavelliani
nel nostro Paese, eccezion fatta
per le brevi note di Cuoco (7),
i Pensieri di Ridolfi (8)
e gli appunti sparsi di Foscolo
(9); ma soprattutto per il
tratto distintivo delle
Osservazioni, consistente in
una lettura di Machiavelli
operata non attraverso l'analisi
di una sua opera specifica,
quanto invece di alcune sue tesi
tratte ora dal Principe,
ora dai Discorsi sopra la
prima deca di Tito Livio,
ora dalle Istorie fiorentine,
ora dal Discorso sopra il
riformare lo Stato di Firenze
e dall'Arte della guerra.
Resta ancora un punto da
chiarire: che cosa abbia spinto
lo scrittore teramano, ormai
ottuagenario, a confrontarsi con
l'opera del «grande» Fiorentino.
Prima di allora, egli lo aveva
criticato nei Pensieri su
l'istoria, spesso assieme a
Montesquieu e a Rousseau, per la
sua ammirazione per l'antica
Roma dalla quale il Fiorentino
aveva tratto sovente conferma
per le sue idee (10). Ciò non
toglie che precedentemente,
consideratolo dotato
«d'altissimo ingegno», aveva
riecheggiato motivi
machiavelliani (11) nel suo
Discorso sullo stabilimento
della milizia provinciale
del 1782.
Un'attenzione, quella delficina,
che non si era tradotta, fino al
saggio che stiamo considerando,
in un'analisi sistematica delle
teorie di Machiavelli. Eppure, a
metà del secolo decimottavo, si
era assistito in Italia ad una
ripresa d'interesse per la
figura e l'opera del Segretario
fiorentino (12). Dal 1769 si
susseguirono numerose edizioni
complete dei suoi scritti e si
diffuse anche una
interpretazione di Machiavelli
in chiave antitirannica e
repubblicana, sintetizzata nella
voce machiavelisme
pubblicata sull'«Enciclopédie»
(13).
Neppure la disputa sulle reali
intenzioni del Fiorentino, se
abbia voluto «favorir la
tirannide o eccitar contrari
sentimentj» (14), aveva
coinvolto Delfico, il quale non
seguì l'esempio dell'amico
Galanti autore, nel 1779, di un
Elogio di Machiavelli, in
cui, confutate le tesi
dell'antimachiavellismo
tradizionale, viene accettata
l'interpretazione
«repubblicana», con preferenza
per i Discorsi nei quali
è esposta «una dottrina equa,
ragionevole e giudiziosa, tutta
opposta a quella del Principe»
(15).
Che cosa dunque induce il
Teramano a scrivere le
Osservazioni? Perché ad un
tratto egli avverte il bisogno
di evidenziare meriti e limiti
del pensiero machiavelliano? La
risposta è nella valutazione
delficina dell'assetto politico
determinatosi in Europa dopo il
crollo napoleonico. A Napoli era
risalito sul trono Ferdinando IV
(dal dicembre 1816 Ferdinando I,
re delle Due Sicilie), dopo un
decennio di dominio francese,
durante il quale i Napoleonidi
avevano avviato, collateralmente
ad un certo decollo
economico-sociale, un
rinnovamento della struttura
amministrativa del Regno (16).
A questo processo aveva
partecipato lo stesso Delfico,
che proprio in quegli anni aveva
raggiunto l'apice della sua
carriera politica. Nominato da
Giuseppe Bonaparte consigliere
di Stato [3 giugno 1806] (17),
era stato assegnato alla sezione
delle Finanze, per poi passare
nel 1809 alla presidenza della
sezione dell'Interno, divenendo
uno dei quattro presidenti del
Consiglio di Stato. Resse più
volte ad interim il
ministero dell'Interno (18),
facendo parte delle Commissioni
per le lauree, per le pensioni,
per le riforme del Codice
civile, per la procedura delle
cause feudali in Cassazione, per
la riforma della pubblica
istruzione, per la ripartizione
dei demani, per la vendita dei
beni dello Stato. Presidente
della Commissione degli Archivi
generali del Regno, nominato
commendatore dell'ordine delle
Due Sicilie, nel 1814 era stato
insignito da Gioacchino Murat
del titolo di Barone (19).
Con la restaurazione dei Borboni
Delfico teme non soltanto la
rivalsa delle forze reazionarie
ma anche (soprattutto) che si
interrompa quel processo di
sviluppo economico e di
trasformazione sociale che
lentamente, aveva scritto (20),
stava facendo «risorgere» il
Paese. Quando Ferdinando I
chiede l'intervento austriaco
per porre fine all'esperienza
costituzionale del 1820-21, a
cui anche il Nostro aveva
partecipato (21), e affida il
governo a «legittimisti di
schiette convinzioni
reazionarie» (22), Delfico, che
già dal 1815 aveva diradato il
suo impegno nella vita politica,
si allontana definitivamente
dagli ambienti governativi
(23).
In questa azione di ripristino
dell'antico, che si svolge
all'insegna della ricomposizione
della vecchia alleanza tra trono
e altare, il Teramano vede
profilarsi la minaccia di
«rendere il mondo stazionario»
se non addirittura di «farlo a
grandi passi o salti
retrogradare» (24). Un'ipotesi
resa, a suo avviso, ancora più
probabile dalla persistenza di
pregiudizi politici che
precludono al genere umano quel
progressivo avanzamento verso
«l'umana perfettibilità» cui
sembra invece essere destinato.
Pregiudizi di varia natura
concorrono con letture
ideologicamente distorte di
grandi autori a sostenere fini
politici particolari.
Machiavelli è uno dei pensatori
privilegiati dal pensiero
reazionario italiano della prima
metà dell'Ottocento (25).
Maggiore rappresentante di tale
corrente è il napoletano Antonio
Capece Minutolo, principe di
Canosa (26), uomo politico e
pubblicista, autore nel maggio
del 1820 di un libro, I
piffari di montagna, che in
poco più di un decennio avrebbe
visto ben sei edizioni, di cui
la seconda, corredata di
numerose note, già nel dicembre
del 1821. Con quest'opera, in
cui viene menzionato tra gli
altri anche Delfico, apostrofato
come uno di quei «furbi settarj»
che «nel fare il male cercavano
tenersi celati» (27), Canosa
intende denunciare i «tanti
errori» commessi a Napoli dai «partitanti»
della rivoluzione e del
liberalismo, tutti riconducibili
a suo avviso all'aver
considerato l'uomo non «quale è
nel fatto», ma come potrebbe
essere o «ci figuriamo poter
diventare» (28). Questo impianto
realistico assume nel Principe
di Canosa una valenza negativa,
divenendo il presupposto del suo
atteggiamento reazionario e
antipopolare, dal momento che
alla realtà egli si richiama
unicamente per legittimare
politiche restauratrici o per
contrastare tendenze
innovatrici. In queste sue
considerazioni Canosa incontra
Machiavelli, tra i pochi a suo
giudizio a non essersi mai
ingannato in politica (29), con
le cui tesi dichiara di
concordare. In realtà, ne I
piffari di montagna l'ex
ministro di polizia non fa che
estrapolare frasi dalle opere
del Fiorentino e alterarne il
senso per avallare pratiche
politiche repressive. Così,
riferendosi all'affermazione
machiavelliana «che nessuno
accidente, benché grave e
violento, potrebbe ridurre mai
Milano o Napoli libere, per
essere quelle membra tutte
corrotte» (30), a meno che non
intervenga un uomo «virtuoso»
che con estrema forza e con
mezzi straordinari riesca a
debellare la «corruzione» che si
è generata in quelle città a
causa della profonda «inequalità»
esistente, Canosa conclude in
modo perentorio. Dove c'è «poca
moralità» occorre che ci sia
«molta forza nel governo» e
«poca libertà nel popolo» e dove
c'è «poca religione» è
necessario «molto terrore» da
parte di chi comanda «perché
comandare deve dispoticamente»
(31). Ancora al Fiorentino egli
si richiama per difendere
l'utilità dei corpi intermedi,
dell'aristocrazia e,
soprattutto, della classe
baronale contro l'azione
devastatrice della «canaglia
democratica», che trama contro i
troni legittimi (32). Una
strumentalizzazione politica,
quella di Canosa, non dissimile
da quella che il savoiardo
Joseph de Maistre (di cui il
Napoletano è entusiasta
ammiratore) aveva condotto nell'Essai
sur le principe générateur des
constitutions politiques et des
autres institutions humaines
del 1814, per negare la
prospettiva di libertà ai popoli
non liberi e per sostenere
l'assolutismo (33). Né essa è
diversa dalla
strumentalizzazione che lo
stesso Canosa incoraggia a fare
sull'«Enciclopedia ecclesiastica
e morale», considerata
l'espressione teoricamente più
originale del pensiero
tradizionalista italiano (34),
per affermare la superiorità
della religione cristiana sulle
altre credenze (35).
E' in questo clima culturale che
Delfico matura l'idea di
smascherare nelle
Osservazioni alcuni
pregiudizi che si sono formati
«sotto la potente autorità» (36)
di Machiavelli. Egli non opera
una valutazione organica e
complessiva dei suoi scritti,
una rivisitazione critica del
suo pensiero o un'indagine
analitica circoscritta, ma una
serie di riflessioni su alcune
opinioni machiavelliane «poco
favorevoli ai progressi della
politica ragione» (37), senza
tuttavia tralasciare alcune sue
verità che potrebbero risultare
ancora utili per le civili
società. Il confronto con
Machiavelli è per Delfico anche
l'occasione per ribadire la
propria Weltanschauung e
per chiarire o riaffermare le
proprie convinzioni politiche.
Questo fa sì che egli prenda in
esame sia proposizioni, a suo
giudizio, criticabili, sia
principî verso cui manifesta
invece la propria adesione e dai
quali nasce la sua ammirazione
per il Fiorentino (38). Consensi
e dissensi, quelli del Teramano,
riconducibili all'idea
illuministica di progresso
assunta come criterio di
valutazione del pensiero
machiavelliano, che viene di
volta in volta giudicato a
seconda che favorisca o ostacoli
lo sviluppo umano.
Convivono, si alternano e spesso
si intersecano nelle
Osservazioni due
contrapposti atteggiamenti: da
un lato, una valutazione del
pensiero machiavelliano,
considerato in relazione al e
come espressione del suo tempo,
già emersa negli scritti di
Hegel e di Fichte, di cui però
difficilmente Delfico ha avuto
conoscenza diretta (39), e in
quelli a lui più familiari di
Cuoco e di Ridolfi; dall'altro,
la tendenza a ricondurlo ai
tempi presenti per poi
giudicarlo sulla base delle
proprie esperienze e
convinzioni.
Machiavelli è per Delfico uomo
del suo tempo da cui il suo
spirito riceve «le impressioni»
e prende «il carattere». Per
l'anziano illuminista,
sostenitore della superiorità
dei moderni sugli antichi, è,
quella tra il Quattro e il
Cinquecento, un'epoca piena di
atrocità e di frode, di
corruzione e delitti politici.
In essa «tutto compariva
problematico, contenzioso,
disputabile» essendo la
filosofia ancora «rugginosa» e
scarsi ed imperfetti i metodi
della ricerca, tanto che i suoi
ingegni sarebbero da riguardare
con «venerazione» e insieme con
«compatimento» (40). Lo stesso
Fiorentino sarebbe stato in più
di un'occasione, nei suoi
pensieri, «mal assistito» dal
secolo e dalle circostanze. Ciò
nonostante egli lo considera,
come già il Cuoco (41),
«superiore al [suo] secolo» per
essere riuscito, malgrado le
difficoltà, ad «innalzarsi al
vero», ponendosi spesso in
contrasto con «potenti
interessi» e «dominanti
opinioni» (42).
Dell'«illustre autore» Delfico
sottolinea il realismo politico
e l'aderenza alla realtà
effettuale. Nato in una
repubblica e repubblicano egli
stesso, desideroso di conoscere
le cause dell'origine e della
conservazione degli Stati
liberi, Machiavelli avrebbe
inizialmente indirizzato i suoi
sforzi allo studio delle
repubbliche, sulle quali avrebbe
scritto anche un Trattato,
«sventuratamente» andato
perduto. Molto probabilmente
Delfico è indotto a credere
all'esistenza di un «Trattato
delle Repubbliche»
dall'affermazione dello stesso
Machiavelli contenuta nel II
capitolo del Principe:
«Io lascerò indietro il
ragionare delle repubbliche,
perché altra volta ne ragionai a
lungo» (43). Ma, avendo
successivamente intuito che
quelle forme di civili società
«non erano quasi più di moda» e,
soprattutto, che erano allora
assai difficili da riprodurre,
il Fiorentino volse il suo
interesse alle altre forme
politiche più diffuse, di cui si
occupò nel trattato De
principatibus. In esso egli
concepirebbe l'idea di una
rigenerazione dell'Italia,
rigenerazione che in lui si
identifica, secondo il Teramano,
con la conquista
dell'indipendenza nazionale.
Delfico guarda dunque il libro
non come un'astratta
speculazione politica, bensì
come uno scritto d'occasione
contenente una peculiare
proposta operativa, in relazione
ad un obiettivo politico
contingente. Ma senza farne
(soltanto) un precorritore del
Risorgimento o un assertore
dell'unità nazionale, secondo
un'interpretazione del
Fiorentino allora assai diffusa
(44), egli ammira in lui la
«viva passione», la disperata
ricerca di soluzioni politiche
capaci di porre fine alla grave
crisi della società italiana del
Cinquecento.
Che la rigenerazione dell'Italia
fosse «la mira principale di
quel politico lavoro» appare
chiaro, scrive Delfico, a
chiunque ne legga l'Exhortatio
dell'ultimo capitolo; né vi è
alcun dubbio che Machiavelli
fosse «ansioso», con il suo
opuscolo, «di avervi parte»,
come egli stesso spiega,
continua il Teramano, nella
lettera a Francesco Vettori
(45). Distaccandosi
dall'interpretazione in chiave
repubblicana del Principe,
affermatasi nella seconda metà
del Settecento, Delfico ritiene
che con quello scritto l'Autore
abbia voluto tracciare la via
per far uscire l'Italia «dal
letargo» e a tal fine abbia
invitato Lorenzo de' Medici «ad
innalzare il vessillo della
Italiana indipendenza» (46).
Tutta l'opera sarebbe
finalizzata a questo obiettivo e
la strategia politica in essa
delineata risulterebbe essere la
sola realmente praticabile.
Destinatario dell'Exhortatio
non avrebbe potuto essere che un
principe, non certo i popoli,
fra i quali nessuno, secondo
Delfico, aveva allora per
Machiavelli le qualità
necessarie per divenire «il
rigeneratore della grandezza
Italiana» (47). E', questa, una
convinzione sulla quale incidono
da un lato la lettura di Cuoco,
il quale aveva affermato che
Machiavelli si era rivolto ai
principi poiché i popoli non
avevano più la «virtù»
necessaria per muoversi e
operare (48), dall'altro una
certa sfiducia che, eccezion
fatta per gli anni
immediatamente successivi allo
scoppio della rivoluzione
francese (49), il Teramano nutre
nell'azione del popolo,
condividendo la formula, comune
a molti illuministi, «tout pour
le peuple, rien par le peuple».
La scelta machiavelliana del
Valentino quale liberatore degli
Stati italiani appare come
l'ipotesi estrema e necessitata,
l'unica alternativa
all'immobilismo e alla
rassegnazione di fronte alla
decadenza politica e civile
dell'Italia all'inizio del XVI
secolo. Questa radicalità
autorizzerebbe Machiavelli,
secondo Delfico, a «transiggere
[sic] su i mezzi» e
permette di comprendere come le
stesse massime machiavelliane
«più infami», (perfino quelle
che lo avrebbero reso un autore
esecrabile) siano da intendere
come l'extrema ratio per
il conseguimento di un ideale
politico, altrimenti
inattuabile. «Le ingiuste
dottrine» del Fiorentino,
afferma Delfico, si dovrebbero
riguardare «non come precetti,
ma come mezzi a pervenire, nel
caso che le circostanze li
avessero resi necessari, non
tanto al fine particolare del
nuovo principato, quanto al
grande scopo finale della
grandezza, felicità ed effettiva
integrità della Italia, cui
erano sempre diretti i suoi
voti» (50). Rivive
nell'interpretazione delficina
la valutazione di Cuoco, secondo
cui Machiavelli non poteva non
riporre le proprie speranze nel
Valentino il quale, nel «massimo
de' mali» e fra «tanti
scellerati», era l'unico che
«almeno dirigeva le sue
scelleraggini al fine più nobile
e tendeva a riunir l'Italia, che
gli altri, con iscelleraggini
più vili, dividevano e
desolavano» (51). Presente è
anche l'opinione di Ridolfi per
il quale le massime del
Principe che ispiravano
«orrore e raccapriccio» dovevano
considerarsi «necessarie non
come unico mezzo, ma però
inevitabile in quelle
circostanze nelle quali bisogna
ricorrere ad azioni inusitate e
straordinarie per la pubblica
utilità» (52).
Il quadro storico di decadenza
in cui si inserisce la proposta
machiavelliana non porta lo
scrittore teramano a condividere
interamente tutte le tesi del
Segretario fiorentino: «Se si
possono giustificare le sue
intenzioni, e la persona» scrive
«questo non vale per le sue
dottrine» (53). Infatti, se da
un lato egli comprende le
preoccupazioni di Machiavelli e
fa proprie le sue speranze di
una prossima rigenerazione,
attuabile quest'ultima solo
attraverso mezzi eccezionali,
dall'altro manifesta più di una
perplessità di fronte al suo
realismo politico. Come l'autore
del Principe, Delfico
ammette l'esistenza di una
ragion di Stato, che prescinda
per la salute della patria da
qualsiasi considerazione di
giusto e ingiusto, per negarne
però subito dopo il carattere
assoluto e limitarne le estreme
implicazioni, non riuscendo di
fatto ad accettare la
dissociazione machiavelliana tra
etica e politica.
Riduttiva gli appare
l'identificazione operata dal
Fiorentino tra virtù, grandezza
di uno Stato, e suo ampliamento
territoriale. Netto è poi il
rifiuto di quelle massime del
Principe, ispirate al detto
che «per regnar tutto lice»,
sublimi per la «politica de'
Gabinetti», ma «vilissime e
dannabilissime» per la morale
(54), tanto più che esse
ingenerano nell'opinione
pubblica l'idea che si possa
violare il diritto e la
giustizia a vantaggio di
personali benefici. L'osservanza
della morale, fondata sulle
leggi eterne della Natura e
giammai sulle leggi o sulle
convenzioni storicamente
determinate dalla società,
costituisce, per il Teramano, la
condizione essenziale per
qualsiasi politica concepita in
funzione del bene comune.
Contrariamente a quanto
affermato precedentemente (55),
egli riconosce alla morale un
fondamento giusnaturalistico,
preoccupato com'è di limitare il
potere dello stato, contro il
pericolo di una gestione
personalistica o improvvisata
del medesimo.
Dopo averlo collocato nella sua
epoca, Delfico valuta il
pensiero machiavelliano alla
luce delle esigenze del secolo
XIX. Suo obiettivo prioritario
resta quello di sradicare, come
abbiamo visto, alcuni pregiudizi
politici, ad arte mantenuti in
vita in funzione anti-progresso.
Tale intento traspare sin dalla
prime pagine, quando Delfico si
sofferma sulla concezione
religiosa di Machiavelli. Egli
sembra ignorare o, almeno, non
tenere nella dovuta
considerazione l'insieme degli
aspetti problematici che il tema
della religione assume
nell'opera machiavelliana. Non
tiene presente tutte quelle
affermazioni contenute nei
Discorsi dalle quali emerge
l'idea di una religione non più
(e non solo) concepita come
instrumentum regni, come
mezzo cioè a disposizione dei
governanti per conservare saldo
il potere, ma anche come vincolo
di profonda coesione del corpo
sociale, «cagione della
grandezza delle repubbliche»,
oltre che «come cosa al tutto
necessaria a volere mantenere
una civiltà» (56).
Per quanto riguarda il giudizio
sul cristianesimo, Delfico
rimprovera al Fiorentino di aver
identificato (confuso) la
religione in sé, la sua
dottrina, i suoi principi
fondati sull'«umana fratellanza»
e sui «più nobili sentimenti»,
con la Chiesa come istituzione
politica. Se solo invece egli
avesse provato a distinguere
quest'ultima dalla religione si
sarebbe certamente avvicinato
più al vero, perché avrebbe
capito (come pure una volta
riconobbe nei Discorsi
(57)) che soltanto la condotta
politica della Corte di Roma era
la causa della rovina degli
Stati (58).
Un'affermazione, quella
delficina, che necessita di
essere chiarita. E' noto che
Machiavelli lancia pesanti
accuse, sull'onda della stessa
protesta antiecclesiastica del
tempo, soprattutto contro il
dominio temporale della Chiesa,
gli abusi perpetrati dai suoi
ministri, i comportamenti
deplorevoli dei pontefici,
responsabili di utilizzare le
armi spirituali come strumenti
di potere. Non era dunque la
religione cristiana in quanto
«religione dell'amore» che
Machiavelli condannava, quanto
invece la «viltà degli uomini»,
che avevano interpretato il
cristianesimo più «secondo
l'ozio» che «non secondo la
virtù» (59), rendendolo così non
dissimile dalle altre credenze
(60).
Sorge allora il sospetto che lo
scrittore abruzzese avesse come
obiettivo non quello di
stigmatizzare in Machiavelli una
presunta confusione che, almeno
nei termini da lui rilevati, non
esiste, bensì quello di ammonire
i contemporanei a mantenere
netta la distinzione tra la
religione quale valore morale e
profonda esigenza dell'animo
umano e il suo impiego politico.
Questo non perché egli avesse
particolarmente a cuore
l'interesse o il futuro del
cristianesimo, ma perché voleva
mettere in guardia contro la
appena avvenuta legittimazione
governativa dell'antico ordine,
operata in nome della religione
e con l'avallo delle autorità
ecclesiastiche. La polemica
politica lo conduce a
rinfacciare a Machiavelli la
presunta eccessiva benevolenza
nei confronti dei ministri del
culto e a rimproverargli di non
aver sufficientemente colto
quelle «miserabili astuzie»
(messe in atto dall'«impostura
sacerdotale»), delle quali i
governi si avvalsero e
continuano ad avvalersi «per
ingannar i popoli e gravarli di
nuovo giogo» ed «indurli ai loro
voleri» (61).
Non solo quindi Delfico mostra
di condividere l'atteggiamento
antiecclesiastico di Machiavelli
(nessun rilievo egli muove alle
sue critiche o ai suoi giudizi
sferzanti), ma addirittura fa
ricadere sulla curia romana
responsabilità storiche e
politiche ancora maggiori. Di
gravi colpe la Chiesa si era a
suo avviso macchiata anche in
epoca recente, nel corso del
Settecento, quando aveva
accentuato il suo processo di
trasformazione da potere
spirituale in potere temporale.
Contro quei privilegi, pretese
giurisdizionali e intromissioni
politiche aveva condotto una
strenua battaglia il movimento
riformatore napoletano, di cui
aveva fatto parte lo stesso
Delfico.
Critico il Teramano si mostra
anche nei confronti della
concezione machiavelliana della
libertà perché priva, a suo
giudizio, di una precisa e
corretta definizione. Di tale
termine il Fiorentino si sarebbe
avvalso per identificare
situazioni storiche e momenti
politici differenti come il
cambiamento di una forma di
governo, l'indipendenza dal
dominio straniero, il trionfo di
un partito, l'introduzione di
una qualsiasi riforma. In questo
modo Machiavelli, secondo
Delfico, non sarebbe riuscito
neppure a comprendere «le cause,
le condizioni e gli effetti»
della libertà.
Per l'anziano illuminista, che
ha seguito l'intera dinamica
rivoluzionaria in Francia e in
Italia, la libertà assume il
duplice significato sia di
riconoscimento del diritto del
cittadino ad essere
giuridicamente protetto dagli
abusi del potere statale, sia di
affermazione di uno Stato che
tuteli il cittadino da ogni
forma di arbitrio e di
sopraffazione da parte di forze
sociali nostalgiche dell'Ancien
Régime. La questione
principale quindi per lui non è
quella posta da Machiavelli di
stabilire «dove più sicuramente
si ponga la guardia della
libertà», se nel «popolo» o nei
«grandi» (62), bensì quella di
riempire la libertà di un
contenuto nuovo, di fare in modo
che essa dipenda da forme
politiche basate sulla divisione
dei poteri e sulle distinte
attribuzioni dei medesimi, e
soprattutto che sia protetta da
«leggi fondamentali o
costitutive».
E', quello costituzionale, un
problema politico che, come per
Matteo Galdi (63), si presenta
in tutta la sua importanza agli
occhi del Teramano sin dai tempi
dell'Assemblea Costituente,
quando aveva considerato la
costituzione «il maggior riparo»
contro il pericolo
controrivoluzionario e avvertito
la necessità di una connessione
tra la «libertà civile», il
diritto cioè di disporre delle
«proprietà personali e reali», e
le «costituzioni regolari» che
quella libertà doveva
riconoscere e custodire.
Le costituzioni rappresentano
«le condizioni necessarie per la
buona esistenza delle civili
società» (64), poiché
impediscono qualsiasi abuso di
potere e permettono di
assicurare i diritti individuali
e la tutela dei cittadini e dei
loro beni sotto la legge. Lo
stesso Machiavelli avrebbe
intuito i vantaggi che sarebbero
derivati agli Stati dalle leggi
fondamentali ed organiche (65)
e se egli non si accinse mai a
farne un oggetto particolare dei
suoi studi è perché molto rari
erano allora in Europa i
«Governi costituiti». Non così
invece all'inizio del XIX secolo
quando assai più numerosi sono
gli esempi di regimi
costituzionali e l'emanazione di
una carta costituzionale è
divenuto il problema politico
fondamentale.
Della necessità ed urgenza di un
regime costituzionale è più che
mai convinto Delfico, che nel
1820 aveva giudicato la promessa
di Ferdinando I di concedere la
costituzione come «il più
prezioso regalo» che un sovrano
potesse fare al suo popolo. Le
sue idee costituzionali,
tuttavia, non hanno nulla di
eccessivo, non la pretesa di una
«perfezione astratta», bensì la
ricerca di una soluzione
«conveniente e proporzionata
alle circostanze» (66). Fedele
ad una convinzione maturata sin
dagli anni giovanili, l'anziano
scrittore rivendica un governo
moderato, monarchico più che
repubblicano, che non segua il
principio nefando divide et
impera, ma finalizzi la
propria azione al conseguimento
dell'uguaglianza politica,
«condizione necessaria al ben
vivere politico» (67).
Dell'uguaglianza, come già della
libertà, il Segretario
fiorentino non avrebbe avuto che
un'idea vaga e imprecisa, dal
momento che con quel termine
egli sembrava volesse indicare
particolarmente l'uguaglianza
delle ricchezze, mentre
avrebbe mostrato di tenere in
poco conto l'uguaglianza dei
diritti, ignorando così che
compito precipuo dello Stato è
quello se non di «distruggere»,
almeno di «limitare» le
differenze politiche esistenti
tra i cittadini. Credette
Machiavelli di poterla scorgere
nella Roma repubblicana e non si
accorse invece che non può
esserci mai eguaglianza laddove
(compresa l'antica Roma) la
qualità di cittadino è «distinta
in classi», essendo tale
distinzione «distruttrice delle
civili egualità». In mancanza di
tali idee, non ci si meravigli,
suggerisce Delfico, come egli
riuscisse «poco felice»
nell'impresa affidatagli da
Leone X di presentare un piano
di riforma della sua città
natale.
Da molti considerato, alla sua
uscita, l'Antiprincipe
per antonomasia, il testo che
più di tutti rivelava l'animo
repubblicano di Machiavelli
(68), il Discursus
florentinarum rerum, scritto
tra il 1520 e il 1521 (69), ma
pubblicato la prima volta nel
1760 col titolo Discorso
sopra il riformare lo Stato di
Firenze ad istanza di Leone X
(70), non sembra invece
conquistare pienamente Delfico.
Il progetto di realizzare «una
Repubblica perfetta» gli appare
infatti lacunoso e perfino
reprensibile. Lacunoso perché in
esso il Fiorentino passerebbe
sotto silenzio, continua a
rimproverargli ingenerosamente
Delfico, forte dell'esperienza
dell'Ottantanove, tutta una
serie di problemi relativi alla
formazione, all'organizzazione e
alla durata del corpo sociale,
quali ad esempio le condizioni
che formano «le caratteristiche
del cittadino, quali siano i
suoi diritti, quali i titoli ed
i modi di esercitarli, quale la
maniera di esprimere la volontà
generale nella formazione delle
leggi, e nella delegazione de'
poteri; quale la divisione e le
attribuzioni de' medesimi» (71).
Il Discursus sarebbe,
poi, criticabile perché non
porrebbe i cittadini tutti sullo
stesso piano, per distinguerli
successivamente secondo funzioni
e ruoli necessari per il buon
funzionamento dello Stato, ma li
dividerebbe in tre classi
permanenti («primi, mezzani ed
ultimi» (72)), legittimando così
una politica costituzionale
fondata sull'ineguaglianza «legale»,
che precluderebbe la possibilità
di trasformare Firenze in «un
vero corpo politico», per
piantarvi invece il germe
malefico «della disunione, della
discordia, della distruzione»
(73). Un errore, quello appena
ricordato, a cui Machiavelli
potrebbe essere stato indotto,
commenta Delfico, dalla presenza
dei partiti, i cui interessi
divergenti e contrapposti
interrompevano quell'unità di
voleri e di operazioni,
essenziale al buon vivere
civile, o addirittura dalla
«pontificia influenza» o dalla
«troppa sollecitudine». Non si
spiegherebbe altrimenti come
avesse potuto proporre
Machiavelli tre diverse qualità
di uomini, proprio lui che pure
aveva osservato che «il più
terribile fomite delle civili
disunioni era l'ineguaglianza»
(74).
Nei confronti della concezione
machiavelliana dell'uguaglianza
Delfico alterna rilievi critici
e apprezzamenti positivi. La sua
valutazione, perfino
contraddittoria, si serve ora
di una versione giuridica, ora
di un contenuto economico. Se
nei riguardi dell'uguaglianza
giuridica però il suo giudizio è
abbastanza uniforme, nel senso
che ritiene la parità dei
diritti una componente
imprescindibile della moderna
politica costituzionale, nei
confronti di quella economica la
sua concezione si fa meno
univoca e più articolata.
Infatti, mentre da un lato si
dichiara contrario ad una
assolutizzazione del principio
di eguaglianza economica,
secondo un'idea già espressa nei
giovanili Indizi di morale
del 1775, in cui si era
schierato per un riconoscimento
di un eguale diritto alla
proprietà (75); dall'altro,
avverte la necessità di una
maggiore uguaglianza delle
ricchezze.
La tenace avversione di Delfico
per l'uguaglianza economica o,
come qui egli la definisce,
«l'importuna Agraria» («sempre
inutilmente domandata fino
all'ultimo respiro repubblicano»
(76)) nasce dalla convinzione
(anche questa già manifestata)
di mantenere in vita la
distinzione tra proprietari e
non. «Ogni altra divisione di un
popolo, di una Nazione - scrive
in alcuni fogli sparsi del 1820
- sarebbe immaginaria e non
fondata su la realtà» (77).
Partendo da questa
contrapposizione egli finisce
poi per condividere il principio
della rappresentanza reale,
ritenendo i proprietari «i veri
rappresentanti» della Nazione e
quindi i più indicati (idonei) a
gestire la cosa pubblica, perché
i più direttamente interessati
alla sua corretta e buona
amministrazione. L'uguaglianza
di diritto trova qui se non una
smentita, una limitazione di
fatto. Ad uscire rafforzato è il
nesso, già in precedenza
individuato, tra proprietà e
potere, nel senso che il
Teramano considera la proprietà
la «sola» in grado di dare la
vera qualità di cittadino e
crede, pertanto, sia equo
conferire ai proprietari anche
un'adeguata rappresentanza
politica.
D'altro canto, Delfico stima
opportuno e perfino doveroso
superare il rigido dualismo tra
proprietari e abbienti da una
parte, nullatenenti e indigenti
dall'altra. La proposta da lui
formulata di moltiplicare il
numero dei piccoli proprietari
non solo risponde a un criterio
di uguaglianza, ma
rappresenterebbe al tempo stesso
la migliore garanzia contro il
pericolo di possibili
sconvolgimenti politici. Non può
quindi che consentire con
Machiavelli sull'origine delle
discordie negli Stati ricondotte
non ad una divinità malefica o
all'avverso destino, e neppure
alla presunta malvagità umana,
né tanto meno al mancato
perfezionamento della specie,
bensì a «quella ineguaglianza di
diritti e di beni» a cui le
leggi non seppero o non vollero
porre riparo. A tal proposito
Delfico cita un passo delle
Istorie fiorentine in cui si
afferma l'assoluta
inconciliabilità tra gli «umori»
del popolo e quelli dei grandi:
Le
guerre di fuori, e la pace di
dentro avevano come spente in
Firenze le parti Ghibelline e
Guelfe, restavano solamente
accesi quelli umori, i quali
naturalmente sogliono essere in
tutte le città intra i potenti e
il popolo; perché volendo il
popolo vivere secondo le leggi,
e i potenti comandare a quelle,
non è possibile capino insieme
(78).
Questa
contrapposizione tra il popolo e
i potenti (79) rappresenta una
fonte di notevole preoccupazione
per l'anziano scrittore, che la
vede, sebbene attenuata,
continuare ad esistere negli
anni della Restaurazione. La
tesi del conflitto tra le
tendenze del popolo e quelle dei
grandi era stata formulata dal
Fiorentino nel capitolo nono del
Principe, dedicato al
«principato civile», al quale si
perviene o con il consenso del
popolo o con quello dei nobili,
dando luogo così, a seconda dei
casi, o a un principato
«civile-popolare» o a un
principato «civile-ottimatizio».
In questo capitolo Machiavelli
prende in considerazione la
possibilità di instaurare un
principato popolare (la cui
ipotesi viene però abbandonata
nei capitoli diciassettesimo,
diciottesimo e, soprattutto,
cinquantacinquesimo del I libro
dei Discorsi, nonché nel
Discursus florentinarum rerum
(80)), ritenendo egli il
desiderio del popolo (di «non
esser comandato né oppresso dai
grandi») un fine assai «più
onesto» di quello dei grandi (di
«comandare ed opprimere il
popolo»). Una convinzione,
questa, che lo aveva portato a
credere che anche nel caso in
cui il principe fosse giunto al
potere con l'aiuto dei potenti,
avrebbe dovuto sin dall'inizio
«cercare di guadagnarsi il
popolo», di farselo amico,
pigliando «la protezione sua»
(81) ed esercitando il potere in
suo favore.
E', quest'idea del potere
concepito in nome e
nell'interesse del popolo, la
ragione che spinge Delfico a
definire il capitolo nono del
Principe «eccellente». Così
come «eccellenti» egli considera
le osservazioni contenute nel
sedicesimo capitolo del I libro
dei Discorsi, ravvisando
una stretta connessione tra
questo, che tratta di «quelli
popoli dove la corruzione non
sia ampliata assai», e il
capitolo nono del Principe.
Nel capitolo sedicesimo del I
libro dei Discorsi
Machiavelli ribadisce la
necessità per i principi, per
tutti i principi, compresi
quelli che per regnare hanno
bisogno di ricorrere a «vie
straordinarie», di fondare il
loro principato sul consenso
della «moltitudine», poiché «chi
ha per nimico l'universale, non
si assicura mai, e quanta più
crudeltà usa, tanto diventa più
debole il suo principato». Non
resta così altro rimedio che
«cercare di farsi il popolo
amico» (82). Nel passo
successivo, poi, egli spiega,
ancor più di quanto faccia nel
capitolo nono del Principe,
il modo in cui questo potrebbe
avvenire:
Volendo pertanto un principe
guadagnarsi un popolo che gli
fusse nimico, parlando di quelli
principi che sono divenuti della
loro patria tiranni, dico ch'ei
debbe esaminare prima quello che
il popolo desidera, e troverà
sempre ch'ei desidera due cose;
l'una, vendicarsi contro a
coloro che sono cagione che sia
servo; l'altra, di riavere la
sua libertà (83).
Come Machiavelli, Delfico
considera oltre che necessario
anche possibile assicurarsi il
favore popolare e se non
condivide il radicalismo della
proposta machiavelliana, di
«tagliare a pezzi tutti gli
ottimati» (84), nessun dubbio
però egli nutre sulla necessità
da parte del sovrano di renderli
innocui, di tenere a freno la
loro ambizione di dominio. Di
grande attualità egli trova in
proposito il capitolo
cinquantacinquesimo del I libro
dei Discorsi in cui
Machiavelli tratta dei
cosiddetti «gentiluomini», ad un
tempo artefici ed espressione di
quella «inegualità», da cui
origina la corruzione, che per
lui equivale a mancanza di
«vivere politico» e di
«civiltà». Estremamente
eloquente è la definizione che
il Fiorentino ne offre:
E per chiarire questo nome di
gentiluomini quale è sia, dico
che gentiluomini sono chiamati
quelli, che oziosi vivono dei
proventi delle loro possessioni
abbondantemente, senza avere
alcuna cura o di coltivare o di
alcun'altra necessaria fatica a
vivere (85).
Drastica è la conseguenza che
egli ne trae, da Delfico
interamente riprodotta:
Questi tali sono perniciosi in
ogni repubblica ed in ogni
provincia; ma più perniciosi
sono quelli, che oltre alle
predette fortune comandano a
castella, ed hanno sudditi che
ubbidiscono a loro. Di queste
due sorte d'uomini ne sono pieni
il regno di Napoli, terra di
Roma, la Romagna e la Lombardia.
Di qui nasce che in quelle
provincie non è mai stata alcuna
repubblica, né alcuno vivere
politico; perché tali
generazioni d'uomini sono al
tutto nimici d'ogni civiltà
(86).
Può apparire strano come il
Teramano, dopo aver seguito
Machiavelli nel suo discorso e
averne condiviso le tesi (che
nelle Osservazioni
suonano come atto di accusa
implicita nei confronti della
situazione politica in cui
vive), sottaccia la conclusione
a cui giunge il Segretario
fiorentino. Una conclusione
consequenziale, che vale la pena
riportare per esteso:
Trassi adunque di questo
discorso questa conclusione, che
colui che vuole fare dove sono
assai gentiluomini una
repubblica, non la può fare se
prima non gli spegne tutti: e
che colui che dove è assai
equalità vuole fare uno regno o
un principato, non lo potrà mai
fare, se non trae di quella
equalità molti d'animo ambizioso
ed inquieto, e quelli fa
gentiluomini in fatto, e non in
nome, donando loro castella e
possessioni, e dando loro favore
di sustanze e d'uomini, acciò
che posto in mezzo di loro,
mediante quelli, mantenga la sua
potenza, ed essi mediante quello
la loro ambizione, e gli altri
siano costretti a sopportar quel
giogo che la forza, e non altro
mai può far sopportare loro. […]
Costituisca adunque una
repubblica colui dove è, o è
fatta una grande equalità, e
all'incontro ordini un
principato dove è grande
inequalità, altrimenti farà cosa
senza proporzione, e poco
durabile (87).
Machiavelli fissa in questo
passo concetti di innegabile
importanza quale la duplice,
stretta, correlazione tra «equalità»
e «repubblica» da un lato, e «inequalità»
e «principato» dall'altro (88).
In secondo luogo, egli
identifica la «inequalità» e la
«equalità» con la presenza o
l'assenza nello Stato dei
«gentiluomini». Ne consegue che
voler «spegnere» i gentiluomini
equivale a tendere verso l'«equalità»
e quindi, in definitiva, alla
costituzione di una repubblica;
al contrario, mantenere o fare
«gentiluomini in fatto»
significa optare per l'«inequalità»
e quindi avere come obiettivo la
conservazione o la creazione di
un principato. Non è molto
chiaro se Delfico sorvoli sulle
ultime implicazioni della
riflessione machiavelliana
perché considera quelle
equazioni prospettate nei
Discorsi, e di lì a poco
ripresentate nel Discursus
florentinarum rerum (89),
troppo rigide e schematiche o
perché giudica, invece, una
piena adesione a quelle
soluzioni teoriche troppo
compromettente nei confronti del
potere costituito.
Se è un errore sottovalutare
questa seconda ipotesi, dal
momento che il Teramano è sempre
attento a non oltrepassare con i
suoi scritti i limiti della
tollerabilità, è altrettanto
vero che il «bene pubblico», che
costituisce l'oggetto costante e
principale dei suoi pensieri,
non è a suo avviso prerogativa
di nessun governo, sebbene le
sue preferenze siano sempre per
la monarchia, definita «la più
vera forma di governi umani»
(90). Dall'analisi
machiavelliana, pertanto, più
che la tesi della
contrapposizione fra
l'eguaglianza della repubblica e
l'ineguaglianza del principato,
Delfico riprende la critica
incisiva, la ferma condanna di
una struttura sociale
caratterizzata da forti e
profonde sperequazioni
socio-economiche. Rimuovere o
anche semplicemente ridurre
queste disuguaglianze equivale
per lui ad agire in direzione
del «bene pubblico». La stessa
esigenza di «spegnere» i
gentiluomini gli appare non come
un passaggio esclusivo della
repubblica, bensì di qualsiasi
forma politica, poiché tali
generazioni di uomini sono, come
aveva scritto il Segretario
fiorentino, «al tutto nimici
d'ogni civiltà» e quindi
«perniciosi» in qualsiasi
società.
All'«illustre scrittore» Delfico
riconosce altresì il merito di
aver compreso l'importanza e la
necessità (da lui entrambe
condivise) di introdurre un
criterio di uguaglianza anche
nel sistema contributivo (91).
Dando prova di grandi vedute
egli colse questo principio di
equità nell'«imposta su le
ricchezze, o proprietà», che i
Fiorentini erano riusciti a
darsi nel 1427, a fronte di
numerose resistenze, perché,
come aveva osservato
Machiavelli, venendo tale
imposta «ad aggravare assai i
cittadini potenti» fu
«dall'universale accettata, e
dai potenti con dispiacere
grandissimo ricevuta» (92).
Dei Discorsi, che, pur
apprezzati, gli appaiono
mancanti «di principio e di
fine», poco compatti e ordinati,
quasi fossero una serie di
pensieri distinti
«arbitrariamente disposti»,
Delfico prende in esame il primo
capitolo del III libro, in cui
Machiavelli svolge il seguente
tema: «A volere che una Setta o
una Repubblica viva lungamente,
è necessario ritirarla spesso
verso il suo principio» (93). Il
postulato sarebbe in
contraddizione con quanto
affermato dal Fiorentino nel
capitolo diciottesimo del I
libro dei Discorsi circa
la necessità di cambiare «gli
ordini e le leggi» con il
procedere dei tempi: «verità
importantissima che - afferma
Delfico, alludendo alla realtà
in cui vive - i legislatori ed i
governi sovente con grave danno
trascurano» (94). Esso
costituisce l'argomento su cui
le posizioni dei due autori si
fanno più divergenti e
inconciliabili. Le ragioni del
dissenso derivano da una
concezione illuministica del
divenire storico a cui il
Teramano rimane fedele anche
negli anni della Restaurazione.
La tesi di ritirare gli Stati
verso il loro «principio»
(apparsa a taluni come una
«trasposizione» sul piano
profano del mito del «rinnovo»
(95) dei grandi movimenti
religiosi medievali) nasce, a
suo giudizio, da un equivoco di
fondo generato da una
fatalistica e malintesa
concezione dello sviluppo delle
società civili (96), che
porterebbe Machiavelli a credere
che nel loro succedersi esse
corrano necessariamente più
verso la «corruzione» che verso
il «miglioramento». Da questo
punto di vista, ritirar gli
Stati al loro «principio» non
significherebbe altro che creare
le condizioni per farli
ritornare alla loro ottimale
forma originaria.
Se si considera però che le
prime società, scrive Delfico,
«nacquero quasi sempre sotto gli
auspici dell'ignoranza e della
violenza» e che esse, per lo
sviluppo delle facoltà umane, la
nascita di nuovi rapporti e
l'acquisizione di sempre nuove
cognizioni, devono
necessariamente migliorare, è
evidente che voler mettere in
pratica la teoria machiavelliana
vorrebbe dire respingere quelle
società verso «l'originale
barbarie, privarle di ogni
civile miglioramento e
rinunciare agli effetti di
quella perfettibilità che fu il
più singolare dono che la
Provvidenza facesse all'uman
genere» (97). Per poter
convenire con Machiavelli
bisognerebbe che le società
avessero un carattere originario
di «perfezione», per cui ogni
successivo allontanamento dallo
stadio iniziale costituirebbe
«un pubblico danno». Ma di tali
società nella storia non c'è
traccia, ad eccezione di quelle
«monastiche e fratesche», la cui
dinamica, osserva il Teramano
denunciando ancora una volta il
processo di graduale decadenza
delle istituzioni
ecclesiastiche, senza per questo
voler smentire il carattere
universale del principio di
perfettibilità, è completamente
opposta a quella delle società
civili. Difatti, mentre queste
ultime, nate «imperfettissime»,
non possono che migliorare; le
altre, al contrario, nate
«perfette», inevitabilmente
degradano, nonostante le riforme
che «si sforzano a ricondurle ai
principi» (98).
Alla teoria machiavelliana della
storia come «progressiva
necessaria corruzione»
(argomento sempre ripetuto,
commenta l'anziano scrittore,
«dai vari ipocriti lodatori del
passato, e naturalmente
disgustati del presente» (99)),
Delfico contrappone la sua
visione di un processo storico
continuo e indefinito.
Condividere quella concezione
piuttosto che questa
equivarrebbe per il Teramano a
ritardare il progresso del
genere umano e ad ostacolare il
naturale miglioramento delle
società, cui sembrano invece
essere destinate.
Né, d'altra parte, lo Stato può
essere paragonato ad un
qualsiasi altro organismo
naturale, come ad esempio il
corpo umano, perché, a
differenza di questo che nasce,
cresce, giunge a maturità e poi
muore, ai corpi politici «non
possono mancar le forze» che li
rende «infinitamente
progressivi» (100).
L'avversione delficina per il
postulato machiavelliano cresce
dinanzi alla constatazione che
«ritirar al principio» è lo
stesso che «ripigliar lo Stato».
E' quest'ultima l'espressione
con la quale coloro che avevano
governato Firenze dal 1434 al
1494 indicavano la convinzione
che «per mantenere lo Stato»
occorresse ogni cinque anni
«mettere quel terrore, e quella
paura negli uomini, che vi
avevano messo nel pigliarlo»,
così da impedire che quelli
prendessero «ardire di tentare
cose nuove, e di dir male»
(101). Di simili
«retrogradazioni» l'anziano
scrittore invita a diffidare,
convinto che tale equivalenza
«potrà essere la dottrina degli
oppressori; degli oppressi non
mai» (102).
Altrettanto falsa per Delfico,
perché progressiva e regressiva
al tempo stesso, è infine la
filosofia della storia che
Machiavelli, con accenti che
sembrano anticipare la visione
di Vico, espone all'inizio del V
libro delle Istorie
Fiorentine:
Perché non essendo dalla natura
conceduto alle mondane cose il
fermarsi, come elle arrivano
alla loro ultima perfezione, non
avendo più da salire, conviene
che scendino, e similmente scese
che le sono, e per gli disordini
ad ultima bassezza pervenute, di
necessità non potendo più
scendere, conviene che salghino,
e così sempre dal bene si scende
al male, e dal male si sale al
bene. Perché la virtù partorisce
quiete, la quiete ozio, l'ozio
disordine, il disordine rovina;
e similmente dalla rovina nasce
l'ordine, dall'ordine virtù, da
questa gloria e buona fortuna
(103).
Giunte a questo punto, le
Osservazioni II si
interrompono bruscamente con un
periodo sospeso a metà alla fine
della pagina, il che fa supporre
molto verosimilmente che sia
andata perduta l'ultima parte
del manoscritto, proprio mentre
Delfico si apprestava a
commentare le vedute militari di
Machiavelli. Conserviamo
tuttavia le pagine ad esse
dedicate nelle Osservazioni I.
La questione militare è
l'aspetto della riflessione
machiavelliana più a lungo
dibattuto nello scritto
delficino, a testimonianza
dell'importanza che la
problematica assume per il
Teramano e della sua preferenza
per il Machiavelli scrittore
politico-militare rispetto sia
al Machiavelli storico (Discorsi)
sia al Machiavelli politico del
suo tempo (Il Principe).
Le vedute militari del
Fiorentino gli appaiono
estremamente utili e veritiere,
meritevoli «di essere portate ad
una maggiore luce». Di fronte ad
esse egli approva perfino il
richiamo di Machiavelli alle
antiche istituzioni romane e ne
ammira la «grande conoscenza»
storica, della quale sembra qui
ammettere, alla fine, l'utilità.
Prima di allora, Delfico si era
occupato del problema militare
nel Discorso sullo
stabilimento della milizia
provinciale del 1782 (104).
E lo aveva fatto lasciando
intravedere alcune affinità con
le teorie del Segretario
fiorentino, come nel caso
dell'avversione per le truppe
mercenarie, della condanna del «perpetuus
Miles» o
dell'identificazione tra
cittadino e soldato. Ma delle
tesi machiavelliane Delfico non
sembra cogliere fino in fondo
nel Discorso le
implicazioni politiche. Non
mancano nel testo considerazioni
che preannunciano la sua futura
riflessione, ma esse restano
anticipazioni fugaci, che non
trovano quel necessario
approfondimento che pure
meriterebbero, preso com'è
l'Autore a denunciare, in quel
clima pre-rivoluzionario, il
carattere «asociale» dei
militari, il loro «spirito di
corpo».
Quando nelle Osservazioni I
ritorna sul problema, Delfico ha
presente non soltanto l'Arte
della guerra, opera,
a differenza del Principe
e dei Discorsi, ancora
poco apprezzata agli inizi
dell'Ottocento (105), ma anche
gli scritti di argomento
militare precedenti (106), di
cui ammira in particolare le due
Provvisioni per istituire
Milizie nazionali nella
Repubblica fiorentina del
1506 e del 1512.
L'elemento più significativo
della sua lettura è la chiara
consapevolezza della duplice
valenza, militare e politica,
del pensiero del Segretario
fiorentino, il quale ha
considerato la guerra non solo
«nella multeplicità de' suoi
rapporti», ma anche,
soprattutto, «in quelli che la
legano strettamente alla
politica» (107). Più che gli
aspetti tecnico-militari (108),
è il nesso, in seguito più volte
sottolineato, tra organizzazione
militare e costituzione politica
(109) ad attirare l'attenzione
del Teramano, che condivide,
citandolo, l'enunciato
machiavelliano dei Discorsi,
presente anche nel Principe,
secondo cui «il fondamento di
tutti gli Stati è la buona
milizia» e «dove non è questa,
non possono essere né leggi
buone, né alcuna altra cosa
buona» (110).
Distaccandosi da un'impostazione
puramente militaristica,
Machiavelli salda la questione
militare alla questione
politica, consapevole che «buoni
ordini» hanno origine da «buone
armi» e che queste costituiscono
un fattore determinante per
l'esistenza e la grandezza di
uno Stato. Di qui il problema e
la necessità di una riforma
militare di cui non deve farsi
artefice nessun altro se non il
principe. Tale convincimento si
fonda sul presupposto che una
profonda trasformazione degli
ordinamenti militari trovi nella
politica le condizioni
necessarie per la sua completa
attuabilità (111). Nella
riflessione machiavelliana il
problema militare non solo
investe direttamente il problema
politico, ma viene da questo
fortemente condizionato. L'idea
del principe realizzatore della
riforma muove dalla convinzione
di riorganizzare il potere
militare sulla base di un nuovo
rapporto fondato sulla reciproca
solidarietà tra il popolo, che
vede nel principe la
realizzazione dei propri
interessi, ed il principe, che
trae dal consenso del popolo una
maggiore stabilità del proprio
potere (112) .
Della fondatezza delle tesi
militari del Fiorentino Delfico
è pienamente convinto, tanto da
ritenerle ancora valide per il
suo tempo, quando continua a
sussistere il problema della
formazione di una milizia
nazionale, «fornita di forza
fisica ed animata da una forza
morale» (113). Pertanto, se è
indispensabile munire i soldati
di «particolare istruzione ed
educazione» perché acquisiscano
nuove abitudini e qualità sia
fisiche che mentali, lo è ancor
di più infondere loro
«sentimenti» di amor patrio e
offrire «motivi» di attaccamento
allo Stato e alla società
civile, i soli in grado di
legare i militari in modo
permanente alla causa per cui
combattono, poiché, avendo essi
«ragione di amare le condizioni
della […] civile esistenza»,
verrebbero così a identificare
la loro lotta con la difesa o il
miglioramento del proprio «ben
essere» e dei «beni della vita
civile» (114).
Trae così origine la polemica
delficina contro gli eserciti
mercenari il cui limite di fondo
consiste, come aveva affermato
Machiavelli, nel non avere «una
affezione verso di quello per
chi è combattono, che gli
faccia diventare suoi
partigiani», senza la quale «non
mai vi potrà essere tanta virtù,
che basti a resistere ad uno nimico un poco virtuoso» (115).
Prive come sono di un «vero
interesse» e di un «nobile
sentimento», le soldatesche
mercenarie non danno, per
Delfico, quella affidabilità
propria delle truppe animate da
una «vera forza morale», spesso
motivo, assai più dell'onore e
della fedeltà, di coraggio e di
straordinarie imprese. Né va
dimenticato che esse sono, come
aveva scritto il Segretario
fiorentino, «per chi le chiama
sempre dannose; perché perdendo
rimani disfatto, vincendo resti
loro prigione» (116).
Escluso qualsiasi impiego delle
forze mercenarie, il compito di
salvaguardare e sviluppare le
istituzioni civili e politiche
spetta, a suo avviso, unicamente
alle milizie proprie,
caratterizzate non più dai
vecchi quadri militari, bensì da
una nuova figura che implica una
continua e profonda
immedesimazione tra il cittadino
e il soldato.
Il problema diviene a questo
punto politico. Perché sorga nei
cittadini l'«affezione»
verso il proprio principe e
diventino essi soldati a lui
fedeli, occorre, secondo il
Teramano, procedere ad una
ridefinizione del rapporto tra
sudditi e principi, che
presupponga da parte di questi
ultimi un cambiamento radicale
del modo con cui avevano fino ad
allora regnato e che abbandonino
il principio, criticato anche da
Machiavelli, che bisogna
«governarsi co' sudditi
avaramente e superbamente» (117)
per cercare, invece, come aveva
ammonito ancora il Fiorentino,
di «guadagnarsi il popolo», di «satisfare
al popolo, e tenerlo contento»
(118), interpretando le sue
aspirazioni e traducendole in
programmi politici.
Quando dunque - conclude
Delfico - i Governi con le
buone istituzioni, colle buone
leggi ed ordini rendono
piacevole la vita, quando una
istituzione militare ben
immaginata è eseguita da
corrispondenti istruzioni ed
ordinanze, quando il militare
può riguardarsi come un essere
dotato di più utili qualità che
prima non aveva, e quando può
essere condotto a tale da stimar
la sua condizione, e conoscersi
in grado da poter adempiere le
publiche mire per la sua
destinazione, e ciò con tutte le
cure corrispondenti, che gli ne
faccino nascere il sentimento,
allora l'uomo della guerra dovrà
considerarsi come un funzionario
dello stato, e pronto ad
eseguire i doveri che si avrà
imposti verso la patria e il
Sovrano i quali dal canto loro
avranno contribuito alla sua
formazione. Ma se - continua
egli con accenti machiavelliani
- le condizioni del ben vivere
politico mancano in uno Stato,
se l'ineducazione da una parte e
la miseria e l'oppressione
dall'altra rendono poco gradita
la civile coesistenza […] e non
fanno nascere i nobili
sentimenti di affezione
per i governi, né il desiderio
di accrescere le proprie forze
fisiche e morali, e che l'uomo
quasi si vergogni di appartenere
alla sua specie, quali speranze
che un essere di tal fatta possa
godere di tali qualità
impossibili a nascere da sì
trista semenza. […] E se
veggiamo talora che il bastone,
le catene, ed i più severi
castighi prendono il luogo di
una ragionevole educazione, è
facile il giudicare che da essi
potranno sorgere piuttosto de'
satelliti della Tirannia, che
de' difensori di quella libertà,
cui sempre usarono ospitalità
gli umani governi (119).
Appaiono chiare la
complementarità della riforma
militare e di quella politica e
l'influenza che le «buone armi»
esercitano sulla vita politica,
del cui rinnovamento esse
costituiscono il presupposto e
l'effetto al tempo stesso.
Delfico pone qui esplicitamente
il problema di una riforma
dello Stato, delle sue
istituzioni e di una nuova
visione della politica, che
concepisca la gestione del
potere a vantaggio non
esclusivamente del principe, ma
anche dei cittadini. Come
Machiavelli, egli è convinto che
dove gli uomini «non sono
soldati» ciò si verifica per
«difetto del Principe» (120)
(inteso dal Nostro come
«Principato» e non come
«persona») e non per altra
ragione. Dalla capacità o meno
dei governanti di creare «le
condizioni del ben vivere
politico» dipendono infatti, a
suo avviso, la coesione
all'interno dello Stato, la
nascita nei cittadini di
sentimenti di solidarietà e di
«affezione» o, al contrario, di
assoluta apatia nei confronti
dei governi. A seconda, dunque,
delle finalità politiche che si
perseguono (negazione delle
«condizioni del ben vivere
politico» da un lato, o
formazione delle «buone
istituzioni, colle buone leggi
ed ordini» dall'altro) e del
metodo prescelto per realizzarle
(«il bastone, le catene, ed i
più severi castighi», piuttosto
che «una ragionevole
educazione») si determinano per
lui due diversi, contrapposti,
risultati: la trasformazione dei
sudditi-soldati o in «satelliti
della tirannia» o in paladini
della libertà.
Di fronte al problema militare
Delfico assume un particolare
atteggiamento. Infatti, mentre
fino ad allora egli si era
preoccupato essenzialmente di
difendere posizioni e principî
che rischiavano di essere
fraintesi o negati, ora invece
fissa le direttive,
sollecitandone l'attuazione,
affinché i governi possano
uscire dall'impasse
illiberale in cui sono venuti a
trovarsi dalla Restaurazione.
Eppure, nonostante l'invito
all'azione, non si può non
avvertire il tono distaccato
dell'esortazione, un certo
disincanto nei confronti delle
possibilità dei governanti.
Se si paragona l'atteggiamento
pacato delle Osservazioni
con quello appassionato e
ottimistico delle Memorie
giovanili o degli scritti dei
primi anni della rivoluzione si
ha l'impressione che Delfico
ripercorra la parabola che era
stata propria del Segretario
fiorentino quando era passato
dalla fiducia totale, nel
Principe, in una
rigenerazione della politica
italiana, all'amara
constatazione, nell'Arte
della guerra, della
«negatività della situazione»
(121) alla quale era ormai
impossibile opporsi.
In realtà, pur alimentando in
Delfico molti dubbi e
perplessità, la negatività degli
anni in cui scrive il saggio su
Machiavelli non incrina la sua
fiducia nel progresso, sempre
configurato come un processo
ineluttabile verso forme e
condizioni di vita politica e
civile più elevate. Ma la loro
attuabilità dipende, per il
Teramano, diversamente dal
passato, assai più che dal
favore delle circostanze o di un
principe illuminato, da una
ridefinizione dei fondamenti
della «vera politica» e dei suoi
contenuti. E in ciò consiste la
novità maggiore delle
Osservazioni.
Scriverà all'amico Dragonetti
nel 1832, dopo aver di nuovo
elogiato le «eccellenti vedute»
militari di Machiavelli: «Si
temono le rivoluzioni, ma
chi può dubitare che sieno
figlie dell'errore, come pure
l'assolutismo?» (122). Alla
soglia ormai dei novant'anni, lo
scrittore teramano ribadisce
così il suo giudizio negativo
nei confronti della prassi
rivoluzionaria, che aveva
maturato ed espresso, per poi
non più mutarlo, negli anni
dell'esilio sammarinese.
Ribadita è anche la condanna,
più volte manifestata sin dagli
scritti giovanili, di un potere
politico arbitrario e
repressivo, che operando in
funzione e nell'interesse di una
ristretta minoranza rende
«retrograda l'umanità […],
vietandole ogni avanzamento»
(123). Un disegno politico,
quello di mantenere in
condizioni retrograde l'umanità,
che sul piano culturale si
traduce in un rifiuto della
filosofia, ad arte accusata di
essere la causa «di tutti gli
errori passati, presenti e
futuri» (124).
A rafforzare in lui l'avversione
verso qualsiasi gestione
superficiale del potere vi è
invece la convinzione,
consolidata dalla lettura del
Fiorentino, che «la politica è
una scienza, e non altro che la
pratica della universale
filosofia, che si propone il
bene di tutti, di chi comanda e
di chi obbedisce», dei
governanti e dei governati.
Può accadere che la politica non
vada avanti, ma è compito
dell'intellettuale, conclude
Delfico, «rimetterla su la buona
strada». |