De Filippis

 

De Filippis-Delfico

 

(Teramo, 1820)

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Stemma famiglia De Filippis-Delfico, Teramo, 1820

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Delfico

(Napoli, sec. XVIII)

(Teramo, sec. XV)

Stemma famiglia De Filippis, Napoli, sec.XVIII

Stemma famiglia Delfico, Teramo, sec.XV

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Osservazioni su Machiavelli

di Gabriele Carletti

Capitolo IV di "Melchiorre Delfico. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale", Pisa, Edizioni ETS, 1996

«Il dono che volete farmi è troppo caro al mio cuore perché io possa ricusarlo. O' come potrei ricusare ciò che dal vostro ingegno mi viene per mano vostra, in pegno della vostra amicizia? Io lo collocherò nelle mie cose più care piacendo l'animo mio dei profondi pensieri con cui avete saputo svolgere quello del gran Fiorentino giacché son certo che sarà opera degna di voi e piena d'altissima filosofia».

Così Gian Giacomo Trivulzio ringraziava l'amico Melchiorre Delfico del dono di un «preziosissimo manoscritto» su Niccolò Machiavelli. La lettera, datata Napoli, dove il marchese milanese si trovava per un breve soggiorno, 7 gennaio 1824 (1), consente di collocare l'operetta agli inizi degli anni Venti (2). Nonostante l'Autore provvedesse subito a mandarglierlo, il marchese ricevette l'opuscolo solo nell'estate successiva, quando lo lesse restandone favorevolmente colpito (3).

Dopo la morte di Trivulzio, avvenuta nel marzo del 1831, Delfico inviò il manoscritto al marchese aquilano Luigi Dragonetti (4) che ne caldeggiò la pubblicazione; cosa che non avvenne perché il suo autore riteneva di dovervi «aggiungere qualche cosa» (5).

Rimasto inedito, il testo finale è tuttora irreperito. Di esso si conservano due stesure, entrambe preparatorie, dal titolo Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino, che d'ora innanzi chiameremo per  comodità espositiva Osservazioni I e Osservazioni II. Con quest'ultima denominazione indichiamo la stesura che, sia per struttura (nonostante sia mancante, rispetto all'altra, delle riflessioni delficine sul pensiero militare di Machiavelli), sia per stile e argomentazioni, riteniamo essere, tra le due, quella successiva e forse neppure molto lontana dalla versione definitiva.

Recentemente pubblicate (6), le Osservazioni acquistano un rilievo critico consistente nella storia della fortuna di Machiavelli in Italia nei primi decenni dell'Ottocento. Non soltanto perché esse si collocano in un periodo, quello tra la fine del Settecento e gli inizi degli anni Quaranta del secolo successivo, di relativa stasi degli studi machiavelliani nel nostro Paese, eccezion fatta per le brevi note di Cuoco (7), i Pensieri di Ridolfi (8) e gli appunti sparsi di Foscolo (9); ma soprattutto per il tratto distintivo delle Osservazioni, consistente in una lettura di Machiavelli operata non attraverso l'analisi di una sua opera specifica, quanto invece di alcune sue tesi tratte ora dal Principe, ora dai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, ora dalle Istorie fiorentine, ora dal Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze e dall'Arte della guerra.

Resta ancora un punto da chiarire: che cosa abbia spinto lo scrittore teramano, ormai ottuagenario, a confrontarsi con l'opera del «grande» Fiorentino. Prima di allora, egli lo aveva criticato nei Pensieri su l'istoria, spesso assieme a Montesquieu e a Rousseau, per la sua ammirazione per l'antica Roma dalla quale il Fiorentino aveva tratto sovente conferma per le sue idee (10). Ciò non toglie che precedentemente, consideratolo dotato «d'altissimo ingegno», aveva riecheggiato motivi machiavelliani (11) nel suo Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale del 1782.

Un'attenzione, quella delficina, che non si era tradotta, fino al saggio che stiamo considerando, in un'analisi sistematica delle teorie di Machiavelli. Eppure, a metà del secolo decimottavo, si era assistito in Italia ad una ripresa d'interesse per la figura e l'opera del Segretario fiorentino (12). Dal 1769 si susseguirono numerose edizioni complete dei suoi scritti e si diffuse anche una interpretazione di Machiavelli in chiave antitirannica e repubblicana, sintetizzata nella voce machiavelisme pubblicata sull'«Enciclopédie» (13).

Neppure la disputa sulle reali intenzioni del Fiorentino, se abbia voluto «favorir la tirannide o eccitar contrari sentimentj» (14), aveva coinvolto Delfico, il quale non seguì l'esempio dell'amico Galanti autore, nel 1779, di un Elogio di Machiavelli, in cui, confutate le tesi dell'antimachiavellismo tradizionale, viene accettata l'interpretazione «repubblicana», con preferenza per i Discorsi nei quali è esposta  «una dottrina equa, ragionevole e giudiziosa, tutta opposta a quella del Principe» (15).

Che cosa dunque induce il Teramano a scrivere le Osservazioni? Perché ad un tratto egli avverte il bisogno di evidenziare meriti e limiti del pensiero machiavelliano? La risposta è nella valutazione delficina dell'assetto politico determinatosi in Europa dopo il crollo napoleonico. A Napoli era risalito sul trono Ferdinando IV (dal dicembre 1816 Ferdinando I, re delle Due Sicilie), dopo un decennio di dominio francese, durante il quale i Napoleonidi avevano avviato, collateralmente ad un certo decollo economico-sociale, un rinnovamento della struttura amministrativa del Regno (16).

A questo processo aveva partecipato lo stesso Delfico, che proprio in quegli anni aveva raggiunto l'apice della sua carriera politica. Nominato da Giuseppe Bonaparte consigliere di Stato [3 giugno 1806] (17), era stato assegnato alla sezione delle Finanze, per poi passare nel 1809 alla presidenza della sezione dell'Interno, divenendo uno dei quattro presidenti del Consiglio di Stato. Resse più volte ad interim il ministero dell'Interno (18), facendo parte delle Commissioni per le lauree, per le pensioni, per le riforme del Codice civile, per la procedura delle cause feudali in Cassazione, per la riforma della pubblica istruzione, per la ripartizione dei demani, per la vendita dei beni dello Stato. Presidente della Commissione degli Archivi generali del Regno, nominato commendatore dell'ordine delle Due Sicilie, nel 1814 era stato insignito da Gioacchino Murat del titolo di Barone (19).

Con la restaurazione dei Borboni Delfico teme non soltanto la rivalsa delle forze reazionarie ma anche (soprattutto) che si interrompa quel processo di sviluppo economico e di trasformazione sociale che lentamente, aveva scritto (20), stava facendo «risorgere» il Paese. Quando Ferdinando I chiede l'intervento austriaco per porre fine all'esperienza costituzionale del 1820-21, a cui anche il Nostro aveva partecipato (21), e affida il governo a «legittimisti di schiette convinzioni reazionarie» (22), Delfico, che già dal 1815 aveva diradato il suo impegno nella vita politica, si allontana definitivamente dagli ambienti governativi (23).      

In questa azione di ripristino dell'antico, che si svolge all'insegna della ricomposizione della vecchia alleanza tra trono e altare, il Teramano vede profilarsi la minaccia di «rendere il mondo stazionario» se non addirittura di «farlo a grandi passi o salti retrogradare» (24). Un'ipotesi resa, a suo avviso, ancora più probabile dalla persistenza di pregiudizi politici che precludono al genere umano quel progressivo avanzamento verso «l'umana perfettibilità» cui sembra invece essere destinato.

Pregiudizi di varia natura concorrono con letture ideologicamente distorte di grandi autori a sostenere fini politici particolari. Machiavelli è uno dei pensatori privilegiati dal pensiero reazionario italiano della prima metà dell'Ottocento (25). Maggiore rappresentante di tale corrente è il napoletano Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa (26), uomo politico e pubblicista, autore nel maggio del 1820 di un libro, I piffari di montagna, che in poco più di un decennio avrebbe visto ben sei edizioni, di cui la seconda, corredata di numerose note, già nel dicembre del 1821. Con quest'opera, in cui viene menzionato tra gli altri anche Delfico, apostrofato come uno di quei «furbi settarj» che «nel fare il male cercavano tenersi celati» (27), Canosa intende denunciare i «tanti errori» commessi a Napoli dai «partitanti» della rivoluzione e del liberalismo, tutti riconducibili a suo avviso all'aver considerato l'uomo non «quale è nel fatto», ma come potrebbe essere o «ci figuriamo poter diventare» (28). Questo impianto realistico assume nel Principe di Canosa una valenza negativa, divenendo il presupposto del suo atteggiamento reazionario e antipopolare, dal momento che alla realtà egli si richiama unicamente per legittimare politiche restauratrici o per contrastare tendenze innovatrici. In queste sue considerazioni Canosa incontra Machiavelli, tra i pochi a suo giudizio a non essersi mai ingannato in politica (29), con le cui tesi dichiara di concordare. In realtà, ne I piffari di montagna l'ex ministro di polizia non fa che estrapolare frasi dalle opere del Fiorentino e alterarne il senso per avallare pratiche politiche repressive. Così, riferendosi all'affermazione machiavelliana «che nessuno accidente, benché grave e violento, potrebbe ridurre mai Milano o Napoli libere, per essere quelle membra tutte corrotte» (30), a meno che non intervenga un uomo «virtuoso» che con estrema forza e con mezzi straordinari riesca a debellare la «corruzione» che si è generata in quelle città a causa della profonda «inequalità» esistente, Canosa conclude in modo perentorio. Dove c'è «poca moralità» occorre che ci sia «molta forza nel governo» e «poca libertà nel popolo» e dove c'è «poca religione» è necessario «molto terrore» da parte di chi comanda «perché comandare deve dispoticamente» (31). Ancora al Fiorentino egli si richiama per difendere l'utilità dei corpi intermedi, dell'aristocrazia e, soprattutto, della classe baronale contro l'azione devastatrice della «canaglia democratica», che trama contro i troni legittimi (32). Una strumentalizzazione politica, quella di Canosa, non dissimile da quella che il savoiardo Joseph de Maistre (di cui il Napoletano è entusiasta ammiratore) aveva condotto nell'Essai sur le principe générateur des constitutions politiques et des autres institutions humaines del 1814, per negare la prospettiva di libertà ai popoli non liberi e per sostenere l'assolutismo (33). Né essa è diversa dalla strumentalizzazione che lo stesso Canosa incoraggia a fare sull'«Enciclopedia ecclesiastica e morale», considerata l'espressione teoricamente più originale del pensiero tradizionalista italiano (34), per affermare la superiorità della religione cristiana sulle altre credenze (35).

E' in questo clima culturale che Delfico matura l'idea di smascherare nelle Osservazioni alcuni pregiudizi che si sono formati «sotto la potente autorità» (36) di Machiavelli. Egli non opera una valutazione organica e complessiva dei suoi scritti, una rivisitazione critica del suo pensiero o un'indagine analitica circoscritta, ma una serie di riflessioni su alcune opinioni machiavelliane «poco favorevoli ai progressi della politica ragione» (37), senza tuttavia tralasciare alcune sue verità che potrebbero risultare ancora utili per le civili società. Il confronto con Machiavelli è per Delfico anche l'occasione per ribadire la propria Weltanschauung e per chiarire o riaffermare le proprie convinzioni politiche. Questo fa sì che egli prenda in esame sia proposizioni, a suo giudizio, criticabili, sia principî verso cui manifesta invece la propria adesione e dai quali nasce la sua ammirazione per il Fiorentino (38). Consensi e dissensi, quelli del Teramano, riconducibili all'idea illuministica di progresso assunta come criterio di valutazione del pensiero machiavelliano, che viene di volta in volta giudicato a seconda che favorisca o ostacoli lo sviluppo umano.

Convivono, si alternano e spesso si intersecano nelle Osservazioni due contrapposti atteggiamenti: da un lato, una valutazione del pensiero machiavelliano, considerato in relazione al e come espressione del suo tempo, già emersa negli scritti di Hegel e di Fichte, di cui però difficilmente  Delfico ha avuto conoscenza diretta (39), e in quelli a lui più familiari di Cuoco e di Ridolfi; dall'altro, la tendenza a ricondurlo ai tempi presenti per poi giudicarlo sulla base delle proprie esperienze e convinzioni.

Machiavelli è per Delfico uomo del suo tempo da cui il suo spirito riceve «le impressioni» e prende «il carattere». Per l'anziano illuminista, sostenitore della superiorità dei moderni sugli antichi, è, quella tra il Quattro e il Cinquecento, un'epoca piena di atrocità e di frode, di corruzione e delitti politici. In essa «tutto compariva problematico, contenzioso, disputabile» essendo la filosofia ancora «rugginosa» e scarsi ed imperfetti i metodi della ricerca, tanto che i suoi ingegni sarebbero da riguardare con «venerazione» e insieme con «compatimento» (40). Lo stesso Fiorentino sarebbe stato in più di un'occasione, nei suoi pensieri, «mal assistito» dal secolo e dalle circostanze. Ciò nonostante egli lo considera, come già il Cuoco (41), «superiore al [suo] secolo» per essere riuscito, malgrado le difficoltà, ad «innalzarsi al vero», ponendosi spesso in contrasto con «potenti interessi» e «dominanti opinioni» (42).

Dell'«illustre autore» Delfico sottolinea il realismo politico e l'aderenza alla realtà effettuale. Nato in una repubblica e repubblicano egli stesso, desideroso di conoscere le cause dell'origine e della conservazione degli Stati liberi,  Machiavelli avrebbe inizialmente indirizzato i suoi sforzi allo studio delle repubbliche, sulle quali avrebbe scritto anche un Trattato, «sventuratamente» andato perduto. Molto probabilmente Delfico è indotto a credere all'esistenza di un «Trattato delle Repubbliche» dall'affermazione dello stesso Machiavelli contenuta nel II capitolo del Principe: «Io lascerò indietro il ragionare delle repubbliche, perché altra volta ne ragionai a lungo» (43). Ma, avendo successivamente intuito che quelle forme di civili società «non erano quasi più di moda» e, soprattutto, che erano allora assai difficili da riprodurre, il Fiorentino volse il suo interesse alle altre forme politiche più diffuse, di cui si occupò nel trattato De principatibus. In esso egli concepirebbe l'idea di una rigenerazione dell'Italia, rigenerazione che in lui si identifica, secondo il Teramano, con la conquista dell'indipendenza nazionale.

Delfico guarda dunque il libro non come un'astratta speculazione politica, bensì come uno scritto d'occasione contenente una peculiare proposta operativa, in relazione ad un obiettivo politico contingente. Ma senza farne (soltanto) un precorritore del Risorgimento o un assertore dell'unità nazionale, secondo un'interpretazione del Fiorentino allora assai diffusa (44), egli ammira in lui la «viva passione», la disperata ricerca di soluzioni politiche capaci di porre fine alla grave crisi della società italiana del Cinquecento.

Che la rigenerazione dell'Italia fosse «la mira principale di quel politico lavoro» appare chiaro, scrive Delfico, a chiunque ne legga l'Exhortatio dell'ultimo capitolo; né vi è alcun dubbio che Machiavelli fosse «ansioso», con il suo opuscolo, «di avervi parte», come egli stesso spiega, continua il Teramano, nella lettera a Francesco Vettori (45). Distaccandosi dall'interpretazione in chiave repubblicana del  Principe, affermatasi nella seconda metà del Settecento, Delfico ritiene che con quello scritto l'Autore abbia voluto tracciare la via per far uscire l'Italia «dal letargo» e a tal fine abbia invitato Lorenzo de' Medici «ad innalzare il vessillo della Italiana indipendenza» (46). Tutta l'opera sarebbe finalizzata a questo obiettivo e la strategia politica in essa delineata risulterebbe essere la sola realmente praticabile. Destinatario dell'Exhortatio non avrebbe potuto essere che un principe, non certo i popoli, fra i quali nessuno, secondo Delfico, aveva allora per Machiavelli le qualità necessarie per divenire «il rigeneratore della grandezza Italiana» (47). E', questa, una convinzione sulla quale incidono da un lato la lettura di Cuoco, il quale aveva affermato che Machiavelli si era rivolto ai principi poiché i popoli non avevano più la «virtù» necessaria per muoversi e operare (48), dall'altro una certa sfiducia che, eccezion fatta per gli anni immediatamente successivi allo scoppio della rivoluzione francese (49), il Teramano nutre nell'azione del popolo, condividendo la formula, comune a molti illuministi, «tout pour le peuple, rien par le peuple».

La scelta machiavelliana del Valentino quale liberatore degli Stati italiani appare come l'ipotesi estrema e necessitata, l'unica alternativa all'immobilismo e alla rassegnazione di fronte alla decadenza politica e civile dell'Italia all'inizio del XVI secolo. Questa radicalità autorizzerebbe Machiavelli, secondo Delfico, a «transiggere [sic] su i mezzi» e permette di comprendere come le stesse massime machiavelliane «più infami», (perfino quelle che lo avrebbero reso un autore esecrabile) siano da intendere come l'extrema ratio per il conseguimento di un ideale politico, altrimenti inattuabile. «Le ingiuste dottrine» del Fiorentino, afferma Delfico, si dovrebbero riguardare «non come precetti, ma come mezzi a pervenire, nel caso che le circostanze li avessero resi necessari, non tanto al fine particolare del nuovo principato, quanto al grande scopo finale della grandezza, felicità ed effettiva integrità della Italia, cui erano sempre diretti i suoi voti» (50). Rivive nell'interpretazione delficina la valutazione di Cuoco, secondo cui Machiavelli non poteva non riporre le proprie speranze nel Valentino il quale, nel «massimo de' mali» e fra «tanti scellerati», era l'unico che «almeno dirigeva le sue scelleraggini al fine più nobile e tendeva a riunir l'Italia, che gli altri, con iscelleraggini più vili, dividevano e desolavano» (51). Presente è anche l'opinione di Ridolfi per il quale le massime del Principe che ispiravano «orrore e raccapriccio» dovevano considerarsi «necessarie non come unico mezzo, ma però inevitabile in quelle circostanze nelle quali bisogna ricorrere ad azioni inusitate e straordinarie per la pubblica utilità» (52).

Il quadro storico di decadenza in cui si inserisce la proposta machiavelliana non porta lo scrittore teramano a condividere interamente tutte le tesi del Segretario fiorentino: «Se si possono giustificare le sue intenzioni, e la persona» scrive «questo non vale per le sue dottrine» (53). Infatti, se da un lato egli comprende le preoccupazioni di Machiavelli e fa proprie le sue speranze di una prossima rigenerazione, attuabile quest'ultima solo attraverso mezzi eccezionali, dall'altro manifesta più di una perplessità di fronte al suo realismo politico. Come l'autore del Principe, Delfico ammette l'esistenza di una ragion di Stato, che prescinda per la salute della patria da qualsiasi considerazione di giusto e ingiusto, per negarne però subito dopo il carattere assoluto e limitarne le estreme implicazioni, non riuscendo di fatto ad accettare la dissociazione machiavelliana tra etica e politica.

Riduttiva gli appare l'identificazione operata dal Fiorentino tra virtù, grandezza di uno Stato, e suo ampliamento territoriale. Netto è poi il rifiuto di quelle massime del Principe, ispirate al detto che «per regnar tutto lice», sublimi per la «politica de' Gabinetti», ma «vilissime e dannabilissime» per la morale (54), tanto più che esse ingenerano nell'opinione pubblica l'idea che si possa violare il diritto e la giustizia a vantaggio di personali benefici. L'osservanza della morale, fondata sulle leggi eterne della Natura e giammai sulle leggi o sulle convenzioni storicamente determinate dalla società, costituisce, per il Teramano, la condizione essenziale per qualsiasi politica concepita in funzione del bene comune. Contrariamente a quanto affermato precedentemente (55), egli riconosce alla morale un fondamento giusnaturalistico, preoccupato com'è di limitare il potere dello stato, contro il pericolo di una gestione personalistica o improvvisata del medesimo.

Dopo averlo collocato nella sua epoca, Delfico valuta il pensiero machiavelliano alla luce delle esigenze del secolo XIX. Suo obiettivo prioritario resta quello di sradicare, come abbiamo visto, alcuni pregiudizi politici, ad arte mantenuti in vita in funzione anti-progresso. Tale intento traspare sin dalla prime pagine, quando Delfico si sofferma sulla concezione religiosa di Machiavelli. Egli sembra ignorare o, almeno, non tenere nella dovuta considerazione l'insieme degli aspetti problematici che il tema della religione assume nell'opera machiavelliana. Non tiene presente tutte quelle affermazioni contenute nei Discorsi dalle quali emerge l'idea di una religione non più (e non solo) concepita come instrumentum regni, come mezzo cioè a disposizione dei governanti per conservare saldo il potere, ma anche come vincolo di profonda coesione del corpo sociale, «cagione della grandezza delle repubbliche», oltre che «come cosa al tutto necessaria a volere mantenere una civiltà» (56).

Per quanto riguarda il giudizio sul cristianesimo, Delfico rimprovera al Fiorentino di aver identificato (confuso) la religione in sé, la sua dottrina, i suoi principi fondati sull'«umana fratellanza» e sui «più nobili sentimenti», con la Chiesa come istituzione politica. Se solo invece egli avesse provato a distinguere quest'ultima dalla religione si sarebbe certamente avvicinato più al vero, perché avrebbe capito (come pure una volta riconobbe nei Discorsi (57)) che soltanto la condotta politica della Corte di Roma era la causa della rovina degli Stati (58).

Un'affermazione, quella delficina, che necessita di essere chiarita. E' noto che Machiavelli lancia pesanti accuse, sull'onda della stessa protesta antiecclesiastica del tempo, soprattutto contro il dominio temporale della Chiesa, gli abusi perpetrati dai suoi ministri, i comportamenti deplorevoli dei pontefici, responsabili di utilizzare le armi spirituali come strumenti di potere. Non era dunque la religione cristiana in quanto «religione dell'amore» che Machiavelli condannava, quanto invece la «viltà degli uomini», che avevano interpretato il cristianesimo più «secondo l'ozio» che «non secondo la virtù» (59), rendendolo così non dissimile dalle altre credenze (60).

Sorge allora il sospetto che lo scrittore abruzzese avesse come obiettivo non quello di stigmatizzare in Machiavelli una presunta confusione che, almeno nei termini da lui rilevati, non esiste, bensì quello di ammonire i contemporanei a mantenere netta la distinzione tra la religione quale valore morale e profonda esigenza dell'animo umano e il suo impiego politico. Questo non perché egli avesse particolarmente a cuore l'interesse o il futuro del cristianesimo, ma perché voleva mettere in guardia contro la appena avvenuta legittimazione governativa dell'antico ordine, operata in nome della religione e con l'avallo delle autorità ecclesiastiche. La polemica politica lo conduce a rinfacciare a Machiavelli la presunta eccessiva benevolenza nei confronti dei ministri del culto e a rimproverargli di non aver sufficientemente colto quelle «miserabili astuzie» (messe in atto dall'«impostura sacerdotale»), delle quali i governi si avvalsero e continuano ad avvalersi «per ingannar i popoli e gravarli di nuovo giogo» ed «indurli ai loro voleri» (61).

Non solo quindi Delfico mostra di condividere l'atteggiamento antiecclesiastico di Machiavelli (nessun rilievo egli muove alle sue critiche o ai suoi giudizi sferzanti), ma addirittura fa ricadere sulla curia romana responsabilità storiche e politiche ancora maggiori. Di gravi colpe la Chiesa si era a suo avviso macchiata anche in epoca recente, nel corso del Settecento, quando aveva accentuato il suo processo di trasformazione da potere spirituale in potere temporale. Contro quei privilegi, pretese giurisdizionali e intromissioni politiche aveva condotto una strenua battaglia il movimento riformatore napoletano, di cui aveva fatto parte lo stesso Delfico.

Critico il Teramano si mostra anche nei confronti della concezione machiavelliana della libertà perché priva, a suo giudizio, di una precisa e corretta definizione. Di tale termine il Fiorentino si sarebbe avvalso per identificare situazioni storiche e momenti politici differenti come il cambiamento di una forma di governo, l'indipendenza dal dominio straniero, il trionfo di un partito, l'introduzione di una qualsiasi riforma. In questo modo Machiavelli, secondo Delfico, non sarebbe riuscito neppure a comprendere «le cause, le condizioni e gli effetti» della libertà.

Per l'anziano illuminista, che ha seguito l'intera dinamica rivoluzionaria in Francia e in Italia, la libertà assume il duplice significato sia di riconoscimento del diritto del cittadino ad essere giuridicamente protetto dagli abusi del potere statale, sia di affermazione di uno Stato che tuteli il cittadino da ogni forma di arbitrio e di sopraffazione da parte di forze sociali nostalgiche dell'Ancien Régime. La questione principale quindi per lui non è quella posta da Machiavelli di stabilire «dove più sicuramente si ponga la guardia della libertà», se nel «popolo» o nei «grandi» (62), bensì quella di riempire la libertà di un contenuto nuovo, di fare in modo che essa dipenda da forme politiche basate sulla divisione dei poteri e sulle distinte attribuzioni dei medesimi, e soprattutto che sia protetta da «leggi fondamentali o costitutive».

E', quello costituzionale, un problema politico che, come per Matteo Galdi (63), si presenta in tutta la sua importanza agli occhi del Teramano sin dai tempi dell'Assemblea Costituente, quando aveva considerato la costituzione «il maggior riparo» contro il pericolo controrivoluzionario e avvertito la necessità di una connessione tra la «libertà civile», il diritto cioè di disporre delle «proprietà personali e reali», e le «costituzioni regolari» che quella libertà doveva riconoscere e custodire.

Le costituzioni rappresentano «le condizioni necessarie per la buona esistenza delle civili società» (64), poiché impediscono qualsiasi abuso di  potere e permettono di assicurare i diritti individuali e la tutela dei cittadini e dei loro beni sotto la legge. Lo stesso Machiavelli avrebbe intuito i vantaggi che sarebbero derivati agli Stati dalle leggi fondamentali ed organiche (65)  e se egli non si accinse mai a farne un oggetto particolare dei suoi studi è perché molto rari erano allora in Europa i «Governi costituiti». Non così invece all'inizio del XIX secolo quando assai più numerosi sono gli esempi di regimi costituzionali e l'emanazione di una carta costituzionale è divenuto il problema politico fondamentale.  

Della necessità ed urgenza di un regime costituzionale è più che mai convinto Delfico, che nel 1820 aveva giudicato la promessa di Ferdinando I di concedere la costituzione come «il più prezioso regalo» che un sovrano potesse fare al suo popolo. Le sue idee costituzionali, tuttavia, non hanno nulla di eccessivo, non la pretesa di una «perfezione astratta», bensì la ricerca di una soluzione «conveniente e proporzionata alle circostanze» (66). Fedele ad una convinzione maturata sin dagli anni giovanili, l'anziano scrittore rivendica un governo moderato, monarchico più che repubblicano, che non segua il principio nefando divide et impera, ma finalizzi la propria azione al conseguimento dell'uguaglianza politica, «condizione necessaria al ben vivere politico» (67).

Dell'uguaglianza, come già della libertà, il Segretario fiorentino non avrebbe avuto che un'idea vaga e imprecisa, dal momento che con quel termine egli sembrava volesse indicare particolarmente l'uguaglianza delle ricchezze, mentre avrebbe mostrato di tenere in poco conto l'uguaglianza dei diritti, ignorando così che compito precipuo dello Stato è quello se non di «distruggere», almeno di «limitare» le differenze politiche esistenti tra i cittadini. Credette Machiavelli di poterla scorgere nella Roma repubblicana e non si accorse invece che non può esserci mai eguaglianza laddove (compresa l'antica Roma) la qualità di cittadino è «distinta in classi», essendo tale distinzione «distruttrice delle civili egualità». In mancanza di tali idee, non ci si meravigli, suggerisce Delfico, come egli riuscisse «poco felice» nell'impresa affidatagli da Leone X di presentare un piano di riforma della sua città natale.

Da molti considerato, alla sua uscita, l'Antiprincipe per antonomasia, il testo che più di tutti rivelava l'animo repubblicano di Machiavelli (68), il Discursus florentinarum rerum, scritto tra il 1520 e il 1521 (69), ma pubblicato la prima volta nel 1760 col titolo Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze ad istanza di Leone X (70), non sembra invece conquistare pienamente Delfico. Il progetto di realizzare «una Repubblica perfetta» gli appare infatti lacunoso e perfino reprensibile. Lacunoso perché in esso il Fiorentino passerebbe sotto silenzio, continua a rimproverargli ingenerosamente Delfico, forte dell'esperienza dell'Ottantanove, tutta una serie di problemi relativi alla formazione, all'organizzazione e alla durata del corpo sociale, quali ad esempio le condizioni che formano «le caratteristiche del cittadino, quali siano i suoi diritti, quali i titoli ed i modi di esercitarli, quale la maniera di esprimere la volontà generale nella formazione delle leggi, e nella delegazione de' poteri; quale la divisione e le attribuzioni de' medesimi» (71).

Il Discursus sarebbe, poi, criticabile perché non porrebbe i cittadini tutti sullo stesso piano, per distinguerli successivamente secondo funzioni e ruoli necessari per il buon funzionamento dello Stato, ma li dividerebbe in tre classi permanenti («primi, mezzani ed ultimi» (72)), legittimando così una politica costituzionale fondata sull'ineguaglianza «legale», che precluderebbe la possibilità di trasformare Firenze in «un vero corpo politico», per piantarvi invece il germe malefico «della disunione, della discordia, della distruzione» (73). Un errore, quello appena ricordato, a cui Machiavelli potrebbe essere stato indotto, commenta Delfico, dalla presenza dei partiti, i cui interessi divergenti e contrapposti interrompevano quell'unità di voleri e di operazioni, essenziale al buon vivere civile, o addirittura dalla «pontificia influenza» o dalla «troppa sollecitudine». Non si spiegherebbe altrimenti come avesse potuto proporre Machiavelli tre diverse qualità di uomini, proprio lui che pure aveva osservato che «il più terribile fomite delle civili disunioni era l'ineguaglianza» (74).

Nei confronti della concezione machiavelliana dell'uguaglianza Delfico alterna rilievi critici e apprezzamenti positivi. La sua valutazione, perfino contraddittoria, si serve ora  di una versione giuridica, ora di un contenuto economico. Se nei riguardi dell'uguaglianza giuridica però il suo giudizio è abbastanza uniforme, nel senso che ritiene la parità dei diritti una componente imprescindibile della moderna politica costituzionale, nei confronti di quella economica la sua concezione si fa meno univoca e più articolata. Infatti, mentre da un lato si dichiara contrario ad una assolutizzazione del principio di eguaglianza economica, secondo un'idea già espressa nei giovanili Indizi di morale del 1775, in cui si era schierato per un riconoscimento di un eguale diritto alla proprietà (75); dall'altro, avverte la necessità di una maggiore uguaglianza delle ricchezze.

La tenace avversione di Delfico per l'uguaglianza economica o, come qui egli la definisce, «l'importuna Agraria» («sempre inutilmente domandata fino all'ultimo respiro repubblicano» (76)) nasce dalla convinzione (anche questa già manifestata) di mantenere in vita la distinzione tra proprietari e non. «Ogni altra divisione di un popolo, di una Nazione - scrive in alcuni fogli sparsi del 1820 - sarebbe immaginaria e non fondata su la realtà» (77). Partendo da questa contrapposizione egli finisce poi per condividere il principio della rappresentanza reale, ritenendo i proprietari «i veri rappresentanti» della Nazione e quindi i più indicati (idonei) a gestire la cosa pubblica, perché i più direttamente interessati alla sua corretta e buona amministrazione. L'uguaglianza di diritto trova qui se non una smentita, una limitazione di fatto. Ad uscire rafforzato è il nesso, già in precedenza individuato, tra proprietà e potere, nel senso che il Teramano considera la proprietà la «sola» in grado di dare la vera qualità di cittadino e crede, pertanto, sia equo conferire ai proprietari anche un'adeguata rappresentanza politica.

D'altro canto, Delfico stima opportuno e perfino doveroso superare il rigido dualismo tra proprietari e abbienti da una parte, nullatenenti e indigenti dall'altra. La proposta da lui formulata di moltiplicare il numero dei piccoli proprietari non solo risponde a un criterio di uguaglianza, ma rappresenterebbe al tempo stesso la migliore garanzia contro il pericolo di possibili sconvolgimenti politici. Non può quindi che consentire con Machiavelli sull'origine delle discordie negli Stati ricondotte non ad una divinità malefica o all'avverso destino, e neppure alla presunta malvagità umana, né tanto meno al mancato perfezionamento della specie, bensì a «quella ineguaglianza di diritti e di beni» a cui le leggi non seppero o non vollero porre riparo. A tal proposito Delfico cita un passo delle Istorie fiorentine in cui si afferma l'assoluta inconciliabilità tra gli «umori» del popolo e quelli dei grandi:

 Le guerre di fuori, e la pace di dentro avevano come spente in Firenze le parti Ghibelline e Guelfe, restavano solamente accesi quelli umori, i quali naturalmente sogliono essere in tutte le città intra i potenti e il popolo; perché volendo il popolo vivere secondo le leggi, e i potenti comandare a quelle, non è possibile capino insieme (78).

 Questa contrapposizione tra il popolo e i potenti (79) rappresenta una fonte di notevole preoccupazione per l'anziano scrittore, che la vede, sebbene attenuata, continuare ad esistere negli anni della Restaurazione. La tesi del conflitto tra le tendenze del popolo e quelle dei grandi era stata formulata dal Fiorentino nel capitolo nono del Principe, dedicato al «principato civile», al quale si perviene o con il consenso del popolo o con quello dei nobili, dando luogo così, a seconda dei casi, o a un principato «civile-popolare» o a un principato «civile-ottimatizio». In questo capitolo Machiavelli prende in considerazione la possibilità di instaurare un principato popolare (la cui ipotesi viene però abbandonata nei capitoli diciassettesimo, diciottesimo e, soprattutto, cinquantacinquesimo del I libro dei Discorsi, nonché nel Discursus florentinarum rerum (80)), ritenendo egli il desiderio del popolo (di «non esser comandato né oppresso dai grandi») un fine assai «più onesto» di quello dei grandi (di «comandare ed opprimere il popolo»). Una convinzione, questa, che lo aveva portato a credere che anche nel caso in cui il principe fosse giunto al potere con l'aiuto dei potenti, avrebbe dovuto sin dall'inizio «cercare di guadagnarsi il popolo», di farselo amico, pigliando «la protezione sua» (81) ed esercitando il potere in suo favore.

E', quest'idea del potere concepito in nome e nell'interesse del popolo, la ragione che spinge Delfico a definire il capitolo nono del Principe «eccellente». Così come «eccellenti» egli considera le osservazioni contenute nel sedicesimo capitolo del I libro dei Discorsi, ravvisando una stretta connessione tra questo, che tratta di «quelli popoli dove la corruzione non sia ampliata assai», e il capitolo nono del Principe. Nel capitolo sedicesimo del I libro dei Discorsi Machiavelli ribadisce la necessità per i principi, per tutti i principi, compresi quelli che per regnare hanno bisogno di ricorrere a «vie straordinarie», di fondare il loro principato sul consenso della «moltitudine», poiché «chi ha per nimico l'universale, non si assicura mai, e quanta più crudeltà usa, tanto diventa più debole il suo principato». Non resta così altro rimedio che «cercare di farsi il popolo amico» (82). Nel passo successivo, poi, egli spiega, ancor più di quanto faccia nel capitolo nono del Principe, il modo in cui questo potrebbe avvenire:

 

Volendo pertanto un principe guadagnarsi un popolo che gli fusse nimico, parlando di quelli principi che sono divenuti della loro patria tiranni, dico ch'ei debbe esaminare prima quello che il popolo desidera, e troverà sempre ch'ei desidera due cose; l'una, vendicarsi contro a coloro che sono cagione che sia servo; l'altra, di riavere la sua libertà (83).

 

Come Machiavelli, Delfico considera oltre che necessario anche possibile assicurarsi il favore popolare e se non condivide il radicalismo della proposta machiavelliana, di «tagliare a pezzi tutti gli ottimati» (84), nessun dubbio però egli nutre sulla necessità da parte del sovrano di renderli innocui, di tenere a freno la loro ambizione di dominio. Di grande attualità egli trova in proposito il capitolo cinquantacinquesimo del I libro dei Discorsi in cui Machiavelli tratta dei cosiddetti «gentiluomini», ad un tempo artefici ed espressione di quella «inegualità», da cui origina la corruzione, che per lui equivale a mancanza di «vivere politico» e di «civiltà». Estremamente eloquente è la definizione che il Fiorentino ne offre:

 

E per chiarire questo nome di gentiluomini quale è sia, dico che gentiluomini sono chiamati quelli, che oziosi vivono dei proventi delle loro possessioni abbondantemente, senza avere alcuna cura o di coltivare o di alcun'altra necessaria fatica a vivere (85).

 

Drastica è la conseguenza che egli ne trae, da Delfico interamente riprodotta:

 

Questi tali sono perniciosi in ogni repubblica ed in ogni provincia; ma più perniciosi sono quelli, che oltre alle predette fortune comandano a castella, ed hanno sudditi che ubbidiscono a loro. Di queste due sorte d'uomini ne sono pieni il regno di Napoli, terra di Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non è mai stata alcuna repubblica, né alcuno vivere politico; perché tali generazioni d'uomini sono al tutto nimici d'ogni civiltà (86).

 

Può apparire strano come il Teramano, dopo aver seguito Machiavelli nel suo discorso e averne condiviso le tesi (che nelle Osservazioni suonano come atto di accusa implicita nei confronti della situazione politica in cui vive),  sottaccia la conclusione a cui giunge il Segretario fiorentino. Una conclusione consequenziale, che vale la pena riportare per esteso:

Trassi adunque di questo discorso questa conclusione, che colui che vuole fare dove sono assai gentiluomini una repubblica, non la può fare se prima non gli spegne tutti: e che colui che dove è assai equalità vuole fare uno regno o un principato, non lo potrà mai fare, se non trae di quella equalità molti d'animo ambizioso ed inquieto, e quelli fa gentiluomini in fatto, e non in nome, donando loro castella e possessioni, e dando loro favore di sustanze e d'uomini, acciò che posto in mezzo di loro, mediante quelli, mantenga la sua potenza, ed essi mediante quello la loro ambizione, e gli altri siano costretti a sopportar quel giogo che la forza, e non altro mai può far sopportare loro. […] Costituisca adunque una repubblica colui dove è, o è fatta una grande equalità, e all'incontro ordini un principato dove è grande inequalità, altrimenti farà cosa senza proporzione, e poco durabile (87).

 

Machiavelli fissa in questo passo concetti di innegabile importanza quale la duplice, stretta, correlazione tra «equalità» e «repubblica» da un lato, e «inequalità» e «principato» dall'altro (88). In secondo luogo, egli identifica la «inequalità» e la «equalità» con la presenza o l'assenza nello Stato dei «gentiluomini». Ne consegue che voler «spegnere» i gentiluomini equivale a tendere verso l'«equalità» e quindi, in definitiva, alla costituzione di una repubblica; al contrario, mantenere o fare «gentiluomini in fatto» significa optare per l'«inequalità» e quindi avere come obiettivo la conservazione o la creazione di un principato. Non è molto chiaro se Delfico sorvoli sulle ultime implicazioni della riflessione machiavelliana perché considera quelle equazioni prospettate nei Discorsi, e di lì a poco ripresentate nel Discursus florentinarum rerum (89), troppo rigide e schematiche o perché giudica, invece, una piena adesione a quelle soluzioni teoriche troppo compromettente nei confronti del potere costituito.

Se è un errore sottovalutare questa seconda ipotesi, dal momento che il Teramano è sempre attento a non oltrepassare con i suoi scritti i limiti della tollerabilità, è altrettanto vero che il «bene pubblico», che costituisce l'oggetto costante e principale dei suoi pensieri, non è a suo avviso prerogativa di nessun governo, sebbene le sue preferenze siano sempre per la monarchia, definita «la più vera forma di governi umani» (90). Dall'analisi machiavelliana, pertanto, più che la tesi della contrapposizione fra l'eguaglianza della repubblica e l'ineguaglianza del principato, Delfico riprende la critica incisiva, la ferma condanna di una struttura sociale caratterizzata da forti e profonde sperequazioni socio-economiche. Rimuovere o anche semplicemente ridurre queste disuguaglianze equivale per lui ad agire in direzione del «bene pubblico». La stessa esigenza di «spegnere» i gentiluomini gli appare non come un passaggio esclusivo della repubblica, bensì di qualsiasi forma politica, poiché tali generazioni di uomini sono, come aveva scritto il Segretario fiorentino, «al tutto nimici d'ogni civiltà» e quindi «perniciosi» in qualsiasi società.

All'«illustre scrittore» Delfico riconosce altresì il merito di aver compreso l'importanza e la necessità (da lui entrambe condivise) di introdurre un criterio di uguaglianza anche nel sistema contributivo (91). Dando prova di grandi vedute egli colse questo principio di equità nell'«imposta su le ricchezze, o proprietà», che i Fiorentini erano riusciti a darsi nel 1427, a fronte di numerose resistenze, perché, come aveva osservato Machiavelli, venendo tale imposta «ad aggravare assai i cittadini potenti» fu «dall'universale accettata, e dai potenti con dispiacere grandissimo ricevuta» (92).

Dei Discorsi, che, pur apprezzati, gli appaiono mancanti «di principio e di fine», poco compatti e ordinati, quasi fossero una serie di pensieri distinti «arbitrariamente disposti», Delfico prende in esame il primo capitolo del III libro, in cui Machiavelli svolge il seguente tema: «A volere che una Setta o una Repubblica viva lungamente, è necessario ritirarla spesso verso il suo principio» (93). Il postulato sarebbe in contraddizione con quanto affermato dal Fiorentino nel capitolo diciottesimo del I libro dei Discorsi circa la necessità di cambiare «gli ordini e le leggi» con il procedere dei tempi: «verità importantissima che - afferma Delfico, alludendo alla realtà in cui vive - i legislatori ed i governi sovente con grave danno trascurano» (94). Esso costituisce l'argomento su cui le posizioni dei due autori si fanno più divergenti e inconciliabili. Le ragioni del dissenso derivano da una concezione illuministica del divenire storico a cui il Teramano rimane fedele anche negli anni della Restaurazione. La tesi di ritirare gli Stati verso il loro «principio» (apparsa a taluni come una «trasposizione» sul piano profano del mito del «rinnovo» (95) dei grandi movimenti religiosi medievali) nasce, a suo giudizio, da un equivoco di fondo generato da una fatalistica e malintesa concezione dello sviluppo delle società civili (96), che porterebbe Machiavelli a credere che nel loro succedersi esse corrano necessariamente più verso la «corruzione» che verso il «miglioramento». Da questo punto di vista, ritirar gli Stati al loro «principio» non significherebbe altro che creare le condizioni per farli ritornare alla loro ottimale forma originaria.

Se si considera però che le prime società,  scrive Delfico, «nacquero quasi sempre sotto gli auspici dell'ignoranza e della violenza» e che esse, per lo sviluppo delle facoltà umane, la nascita di nuovi rapporti e l'acquisizione di sempre nuove cognizioni, devono necessariamente migliorare, è evidente che voler mettere in pratica la teoria machiavelliana vorrebbe dire respingere quelle società verso «l'originale barbarie, privarle di ogni civile miglioramento e rinunciare agli effetti di quella perfettibilità che fu il più singolare dono che la Provvidenza facesse all'uman genere» (97). Per poter convenire con Machiavelli bisognerebbe che le società avessero un carattere originario di «perfezione», per cui ogni successivo allontanamento dallo stadio iniziale costituirebbe «un pubblico danno». Ma di tali società nella storia non c'è traccia, ad eccezione di quelle «monastiche e fratesche», la cui dinamica, osserva il Teramano denunciando ancora una volta il processo di graduale decadenza delle istituzioni ecclesiastiche, senza per questo voler smentire il carattere universale del principio di perfettibilità, è completamente opposta a quella  delle società civili. Difatti, mentre queste ultime, nate «imperfettissime», non possono che migliorare; le altre, al contrario, nate «perfette», inevitabilmente degradano, nonostante le riforme che «si sforzano a ricondurle ai principi» (98).

Alla teoria machiavelliana della storia come «progressiva necessaria corruzione» (argomento sempre ripetuto, commenta l'anziano scrittore, «dai vari ipocriti lodatori del passato, e naturalmente disgustati del presente» (99)), Delfico contrappone la sua visione di un processo storico continuo e indefinito. Condividere quella concezione piuttosto che questa equivarrebbe per il Teramano a ritardare il progresso del genere umano e ad ostacolare il naturale miglioramento delle società, cui sembrano invece essere destinate.           

Né, d'altra parte, lo Stato può essere paragonato ad un qualsiasi altro organismo naturale, come ad esempio il corpo umano, perché, a differenza di questo che nasce, cresce, giunge a maturità e poi muore, ai corpi politici «non possono mancar le forze» che li rende «infinitamente progressivi» (100).

L'avversione delficina per il postulato machiavelliano cresce dinanzi alla constatazione che «ritirar al principio» è lo stesso che «ripigliar lo Stato». E' quest'ultima l'espressione con la quale coloro che avevano governato Firenze dal 1434 al 1494 indicavano la convinzione che «per mantenere lo Stato» occorresse ogni cinque anni «mettere quel terrore, e quella paura negli uomini, che vi avevano messo nel pigliarlo», così da impedire che quelli prendessero «ardire di tentare cose nuove, e di dir male» (101). Di simili «retrogradazioni» l'anziano scrittore invita a diffidare, convinto che tale equivalenza «potrà essere la dottrina degli oppressori; degli oppressi non mai» (102).

Altrettanto falsa per Delfico, perché progressiva e regressiva al tempo stesso, è infine la filosofia della storia che Machiavelli, con accenti che sembrano anticipare la visione di Vico, espone all'inizio del V libro delle Istorie Fiorentine:

 

Perché non essendo dalla natura conceduto alle mondane cose il fermarsi, come elle arrivano alla loro ultima perfezione, non avendo più da salire, conviene che scendino, e similmente scese che le sono, e per gli disordini ad ultima bassezza pervenute, di necessità non potendo più scendere, conviene che salghino, e così sempre dal bene si scende al male, e dal male si sale al bene. Perché la virtù partorisce quiete, la quiete ozio, l'ozio disordine, il disordine rovina; e similmente dalla rovina nasce l'ordine, dall'ordine virtù, da questa gloria e buona fortuna (103).

Giunte a questo  punto, le Osservazioni II  si interrompono bruscamente con un periodo sospeso a metà alla fine della pagina, il che fa supporre molto verosimilmente che sia andata perduta l'ultima parte del manoscritto, proprio mentre Delfico si apprestava a commentare le vedute militari di Machiavelli. Conserviamo tuttavia le pagine ad esse dedicate nelle Osservazioni I.

La questione militare è l'aspetto della riflessione machiavelliana più a lungo dibattuto nello scritto delficino, a testimonianza dell'importanza che la problematica assume per il Teramano e della sua preferenza per il Machiavelli scrittore politico-militare rispetto sia al Machiavelli storico  (Discorsi) sia al Machiavelli politico del suo tempo (Il Principe). Le vedute militari del Fiorentino gli appaiono estremamente utili e veritiere, meritevoli «di essere portate ad una maggiore luce». Di fronte ad esse egli approva perfino il richiamo di Machiavelli alle antiche istituzioni romane e ne ammira la «grande conoscenza» storica, della quale sembra qui ammettere, alla fine, l'utilità.

Prima di allora, Delfico si era occupato del problema militare nel Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale del 1782 (104). E lo aveva fatto lasciando intravedere alcune affinità con le teorie del Segretario fiorentino, come nel caso dell'avversione per le truppe mercenarie, della condanna del «perpetuus Miles» o dell'identificazione tra cittadino e soldato. Ma delle tesi machiavelliane Delfico non sembra cogliere fino in fondo nel Discorso le implicazioni politiche. Non mancano nel testo considerazioni che preannunciano la sua futura riflessione, ma esse restano anticipazioni fugaci, che non trovano quel necessario approfondimento che pure meriterebbero, preso com'è l'Autore a denunciare, in quel clima pre-rivoluzionario, il carattere «asociale» dei militari, il loro «spirito di corpo».

Quando nelle Osservazioni I ritorna sul problema, Delfico ha presente non soltanto l'Arte della guerra, opera, a differenza del Principe e dei Discorsi, ancora poco apprezzata agli inizi dell'Ottocento (105), ma anche gli scritti di argomento militare precedenti (106), di cui ammira in particolare le due Provvisioni per istituire Milizie nazionali nella Repubblica fiorentina del 1506 e del 1512.

L'elemento più significativo della sua lettura è la chiara consapevolezza della duplice valenza, militare e politica, del pensiero del Segretario fiorentino, il quale ha considerato la guerra non solo «nella multeplicità de' suoi rapporti», ma anche, soprattutto, «in quelli che la legano strettamente alla politica» (107). Più che gli aspetti tecnico-militari (108), è il nesso, in seguito più volte sottolineato, tra organizzazione militare e costituzione politica (109) ad attirare l'attenzione del Teramano, che condivide, citandolo, l'enunciato machiavelliano dei Discorsi, presente anche nel Principe, secondo cui «il fondamento di tutti gli Stati è la buona milizia» e «dove non è questa, non possono essere né leggi buone, né alcuna altra cosa buona» (110).

Distaccandosi da un'impostazione puramente militaristica, Machiavelli salda la questione militare alla questione politica, consapevole che «buoni ordini» hanno origine da «buone armi» e che queste costituiscono un fattore determinante per l'esistenza e la grandezza di uno Stato. Di qui il problema e la necessità di una riforma militare di cui non deve farsi artefice nessun altro se non il principe. Tale convincimento si fonda sul presupposto che una profonda trasformazione degli ordinamenti militari trovi nella politica le condizioni necessarie per la sua completa attuabilità (111). Nella riflessione machiavelliana il problema militare non solo investe direttamente il problema politico, ma viene da questo fortemente condizionato. L'idea del principe realizzatore della riforma muove dalla convinzione di riorganizzare il potere militare sulla base di un nuovo rapporto fondato sulla reciproca solidarietà tra il popolo, che vede nel principe la realizzazione dei propri interessi, ed il principe, che trae dal consenso del popolo una maggiore stabilità del proprio potere (112) .

Della fondatezza delle tesi militari del Fiorentino Delfico è pienamente convinto, tanto da ritenerle ancora valide per il suo tempo, quando continua a sussistere il problema della formazione di una milizia nazionale, «fornita di forza fisica ed animata da una forza morale» (113). Pertanto, se è indispensabile munire i soldati di «particolare istruzione ed educazione» perché acquisiscano nuove abitudini e qualità sia fisiche che mentali, lo è ancor di più infondere loro «sentimenti» di amor patrio e offrire «motivi» di attaccamento allo Stato e alla società civile, i soli in grado di legare i militari in modo permanente alla causa per cui combattono, poiché, avendo essi «ragione di amare le condizioni della […] civile esistenza», verrebbero così a identificare la loro lotta con la difesa o il miglioramento del proprio «ben essere» e dei «beni della vita civile» (114).

Trae così origine la polemica delficina contro gli eserciti mercenari il cui limite di fondo consiste, come aveva affermato Machiavelli, nel non avere «una affezione verso di quello per chi è combattono, che gli faccia diventare suoi partigiani», senza la quale «non mai vi potrà essere tanta virtù, che basti a resistere ad uno nimico un poco virtuoso» (115). Prive come sono di un «vero interesse» e di un «nobile sentimento», le soldatesche mercenarie non danno, per Delfico, quella affidabilità propria delle truppe animate da una «vera forza morale», spesso motivo, assai più dell'onore e della fedeltà, di coraggio e di straordinarie imprese. Né va dimenticato che esse sono, come aveva scritto il Segretario fiorentino, «per chi le chiama sempre dannose; perché perdendo rimani disfatto, vincendo resti loro prigione» (116).

Escluso qualsiasi impiego delle forze mercenarie, il compito di salvaguardare e sviluppare le istituzioni civili e politiche spetta, a suo avviso, unicamente alle milizie proprie, caratterizzate non più dai vecchi quadri militari, bensì da una nuova figura che implica una continua e profonda immedesimazione tra il cittadino e il soldato.

Il problema diviene a questo punto politico. Perché sorga nei cittadini l'«affezione» verso il proprio principe e diventino essi soldati a lui fedeli, occorre, secondo il Teramano, procedere ad una ridefinizione del rapporto tra sudditi e principi, che presupponga da parte di questi ultimi un cambiamento radicale del modo con cui avevano fino ad allora regnato e che abbandonino il principio, criticato anche da Machiavelli, che bisogna «governarsi co' sudditi avaramente e superbamente» (117) per cercare, invece, come aveva ammonito ancora il Fiorentino, di «guadagnarsi il popolo», di «satisfare al popolo, e tenerlo contento» (118), interpretando le sue aspirazioni e traducendole in programmi politici.

 

Quando dunque  - conclude Delfico  - i Governi con le buone istituzioni, colle buone leggi ed ordini rendono piacevole la vita, quando una istituzione militare ben immaginata è eseguita da corrispondenti istruzioni ed ordinanze, quando il militare può riguardarsi come un essere dotato di più utili qualità che prima non aveva, e quando può essere condotto a tale da stimar la sua condizione, e conoscersi in grado da poter adempiere le publiche mire per la sua destinazione, e ciò con tutte le cure corrispondenti, che gli ne faccino nascere il sentimento, allora l'uomo della guerra dovrà considerarsi come un funzionario dello stato, e pronto ad eseguire i doveri che si avrà imposti verso la patria e il Sovrano i quali dal canto loro avranno contribuito alla sua formazione. Ma se - continua egli con accenti machiavelliani - le condizioni del ben vivere politico mancano in uno Stato, se l'ineducazione da una parte e la miseria e l'oppressione dall'altra rendono poco gradita la civile coesistenza […] e non fanno nascere i nobili sentimenti di affezione per i governi, né il desiderio di accrescere le proprie forze fisiche e morali, e che l'uomo quasi si vergogni di appartenere alla sua specie, quali speranze che un essere di tal fatta possa godere di tali qualità impossibili a nascere da sì trista semenza. […] E se veggiamo talora che il bastone, le catene, ed i più severi castighi prendono il luogo di una ragionevole educazione, è facile il giudicare che da essi potranno sorgere piuttosto de' satelliti della Tirannia, che de' difensori di quella libertà, cui sempre usarono ospitalità gli umani governi (119).

 

Appaiono chiare la  complementarità  della  riforma  militare  e di quella politica e l'influenza che le «buone armi» esercitano sulla vita politica, del cui rinnovamento esse costituiscono il presupposto e l'effetto al tempo stesso.  Delfico pone qui  esplicitamente il  problema  di  una riforma  dello  Stato, delle sue istituzioni e di una nuova visione della politica, che concepisca la gestione del potere a vantaggio non esclusivamente del principe, ma anche dei cittadini. Come Machiavelli, egli è convinto che dove gli uomini «non sono soldati» ciò si verifica per «difetto del Principe» (120) (inteso dal Nostro come «Principato» e non come «persona») e non per altra ragione. Dalla capacità o meno dei governanti di creare «le condizioni del ben vivere politico» dipendono infatti, a suo avviso,  la coesione all'interno dello Stato, la nascita nei cittadini di sentimenti di solidarietà e di «affezione» o, al contrario, di assoluta apatia nei confronti dei governi. A seconda, dunque, delle finalità politiche che si perseguono (negazione delle «condizioni del ben vivere politico» da un lato, o formazione delle «buone istituzioni, colle buone leggi ed ordini» dall'altro) e del metodo prescelto per realizzarle («il bastone, le catene, ed i più severi castighi», piuttosto che «una ragionevole educazione») si determinano per lui due diversi, contrapposti, risultati: la trasformazione dei sudditi-soldati o in «satelliti della tirannia» o in paladini della libertà.

Di fronte al problema militare Delfico assume un particolare atteggiamento. Infatti, mentre fino ad allora egli si era preoccupato essenzialmente di difendere posizioni e principî che rischiavano di essere fraintesi o negati, ora invece fissa le direttive, sollecitandone l'attuazione, affinché i governi possano uscire dall'impasse illiberale in cui sono venuti a trovarsi dalla Restaurazione.

Eppure, nonostante l'invito all'azione, non si può non avvertire il tono distaccato dell'esortazione, un certo disincanto nei confronti delle possibilità dei governanti.

Se si paragona l'atteggiamento pacato delle Osservazioni con quello appassionato e ottimistico delle Memorie giovanili o degli scritti dei primi anni della rivoluzione si ha l'impressione che Delfico ripercorra la parabola che era stata propria del Segretario fiorentino quando era passato dalla fiducia totale, nel Principe, in una rigenerazione della politica italiana, all'amara constatazione, nell'Arte della guerra, della «negatività della situazione» (121)  alla quale era ormai impossibile opporsi.

In realtà, pur alimentando in Delfico molti dubbi e perplessità, la negatività degli anni in cui scrive il saggio su Machiavelli non incrina la sua fiducia nel progresso, sempre configurato come un processo ineluttabile verso forme e condizioni di vita politica e civile più elevate. Ma la loro attuabilità dipende, per il Teramano, diversamente dal passato, assai più che dal favore delle circostanze o di un principe illuminato, da una ridefinizione dei fondamenti della «vera politica» e dei suoi contenuti. E in ciò consiste la novità maggiore delle Osservazioni.

Scriverà all'amico Dragonetti nel 1832, dopo aver di nuovo elogiato le «eccellenti vedute» militari di Machiavelli: «Si temono le rivoluzioni, ma chi può dubitare che sieno figlie dell'errore, come pure l'assolutismo?» (122). Alla soglia ormai dei novant'anni, lo scrittore teramano ribadisce così il suo giudizio negativo nei confronti della prassi rivoluzionaria, che aveva maturato ed espresso, per poi non più mutarlo, negli anni dell'esilio sammarinese. Ribadita è anche la condanna, più volte manifestata sin dagli scritti giovanili, di un potere politico arbitrario e repressivo, che operando in funzione e nell'interesse di una ristretta minoranza rende «retrograda l'umanità […], vietandole ogni avanzamento» (123). Un disegno politico, quello di mantenere in condizioni retrograde l'umanità, che sul piano culturale si traduce in un rifiuto della filosofia, ad arte accusata di essere la causa «di tutti gli errori passati, presenti e futuri» (124).

A rafforzare in lui l'avversione verso qualsiasi gestione superficiale del potere vi è invece la convinzione, consolidata dalla lettura del Fiorentino, che «la politica è una scienza, e non altro che la pratica della universale filosofia, che si propone il bene di tutti, di chi comanda e di chi obbedisce», dei governanti e dei governati.

Può accadere che la politica non vada avanti, ma è compito dell'intellettuale, conclude Delfico, «rimetterla su la buona strada».

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(1) In BNBM, Aut. B. VIII n. 78/2.

(2) F. RANALLI, Elogio di Melchiorre Delfico [Napoli 1836], Stab. Grafico «La Super», Nereto 1928, p. 22, nota 9.

(3) Cfr. la lettera di Trivulzio a Delfico del 4 settembre 1824, in BNBM, Aut. B. VIII n. 78/5.

(4) Cfr. la lettera di Delfico a Dragonetti del 21 settembre 1831, in Spigolature nel carteggio letterario e politico del march. Luigi Dragonetti, cit., p. 139.

(5) Lettera di Delfico a Luigi Dragonetti del 20 settembre 1832, ivi, p. 149.

(6) Le Osservazioni I sono state pubblicate da A. Marino in «Aprutium», a. II (1984), n. 2, pp. 34-61 e successivamente riedite dallo stesso autore assieme alla pubblicazione delle Osservazioni II nel volume Scritti inediti di Melchiorre Delfico, cit., rispettivamente pp. 19-42 e 59-79.

(7) V. CUOCO, La politica di Niccolò Machiavelli [gennaio 1804], in Scritti vari, cit., vol. I, pp. 45-48.

(8) A. RIDOLFI, Pensieri intorno allo scopo di Niccolò Machiavelli nel libro Il Principe, Stamperia Destefanis, Milano 1810.

(9) Si tratta di una serie di abbozzi e di frammenti su Machiavelli i quali, concepiti come risposta al libro di Ridolfi e a quello di W. ROSCOE, Vita e pontificato di Leone X del 1805, che avevano confutato l'interpretazione in chiave repubblicana del Principe, saranno pubblicati postumi, col titolo Frammenti sul Machiavelli, nelle Prose politiche e letterarie dal 1811 al 1816, vol. III dell'edizione nazionale delle opere di Foscolo, a cura di L. Fassò, Le Monnier, Firenze 1933, pp. 1-63.

(10) Cfr. M. DELFICO, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, cit., pp. 85, 86, 106, 117, 122, 130, 142, 176.

(11) Cfr. retro, pp. 33-34.

(12) Sulla rinascita in Italia degli studi machiavelliani nel XVIII secolo, cfr. G. PROCACCI, Studi sulla fortuna del Machiavelli, Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea, Roma 1965, p. 337 sgg. Spunti critici anche in C. CURCIO, Machiavelli nel Risorgimento, Giuffrè, Milano 1953, pp. 3-18; F. GAETA, Appunti sulla fortuna del pensiero politico di Machiavelli in Italia, in Atti del convegno internazionale su Il pensiero politico di Machiavelli e la sua fortuna nel mondo, Istituto nazionale di studi sul Rinascimento, Firenze 1972, pp. 21-36.

(13) «Lorsque Machiavel - si legge nell'«Encyclopédie» - écrivit son traité du prince, c'est comme s'il eût dit à ses concitoyens, lisez bien cet ouvrage. Si vous acceptez jamais un maître, il sera tel que je vous le peins: voilà la bête féroce à laquelle vous vous abandonnerez. Ainsi ce fut la faute de ses contemporains, s'ils méconnurent sont but: ils prirent une satyre pour un éloge» («Encyclopédie ou dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers», tome neuvième, Friedrich Frommann Verlag, Stuttgart-Bad Cannstatt 1966, p. 793). Sullo sviluppo in Italia nella seconda metà del Settecento di una lettura del Fiorentino in chiave repubblicana, cfr. PROCACCI, Studi sulla fortuna del Machiavelli, cit., p. 354 sgg.; M. ROSA, Dispotismo e libertà nel Settecento. Interpretazioni «repubblicane» di Machiavelli, Laterza, Bari 1964, p. 49 sgg., e, per quanto riguarda il triennio 1796-99, V. CRISCUOLO, Appunti sulla fortuna del Machiavelli nel periodo rivoluzionario, in «Critica storica», a. XXVII (1990), n. 3, pp. 475-92.

(14) Osservazioni II, cit., p. 66.

(15) G. GALANTI, Elogio di Niccolò Machiavelli cittadino e Segretario fiorentino con un discorso intorno alla costituzione della società e al governo politico, s.l. [ma Napoli], 1779, p. 33.

(16) Per un quadro d'insieme dell'attività amministrativa e dell'opera legislativa dei Napoleonidi nel Regno napoletano, cfr. il volume, notevolmente arricchito e ampliato rispetto alla prima edizione del 1941, di A. VALENTE, Gioacchino Murat e l'Italia meridionale, Einaudi, Torino 1976, pp. 231-332.

(17) Prima ancora di ricevere la comunicazione ufficiale della nomina [3 giugno], Delfico lascia il 15 giugno 1806 San Marino, dove si era rifugiato nel settembre del 1799 in seguito alla caduta della Repubblica napoletana, per dirigersi verso il capoluogo partenopeo, dove giunge il 25 giugno successivo, dopo una breve sosta a Roma. Cfr. BALSIMELLI, Melchiorre Delfico e la Repubblica di San Marino, cit., pp. 78-79.

(18) Cfr. la lettera di Delfico a Münter del 12 maggio 1813 da Napoli, in DI NARDO, Storia e scienza in Melchiorre Delfico, cit., pp. 150-52.

(19) Sull'attività del Teramano nell'amministrazione francese, cfr. G. PALMIERI, Melchiorre Delfico e il decennio francese (1806-1815), Edizioni del Gallo Cedrone, L'Aquila 1986, il quale riproduce in appendice alcuni scritti delficini del periodo; FEOLA, La monarchia amministrativa, cit., pp. 125-35. Per una diversa lettura del periodo murattiano, cfr. VENTURI, Nota introduttiva [a M. Delfico], cit., p. 1186; GAROSCI, San Marino, cit. p. 215. A metà degli anni Venti un libro anonimo, dal titolo La vérité sur les cent jours, principalement par rapport à la renaissance projetée de l'Empire Romain, par un Citoyen de la Corse, H. Tarlier, Bruxelles 1825 (di cui uscì nel 1829 una traduzione italiana incompleta dal titolo Delle cause italiane nell'evasione dell'imperatore Napoleone dall'Elba, con la falsa indicazione del luogo e dell'editore del testo originale), riferì di una congiura che sarebbe stata ordita nel 1814 da alcuni italiani per affidare la corona d'Italia a Napoleone Bonaparte. Dei presunti cospiratori, rimasti anonimi nel libro, l'Autore fece il nome soltanto del conte Luigi Corvetto [1756-1821], «justement regardé comme un des meilleurs jurisconsultes de Gênes» e di Melchiorre Delfico, «un des hommes les plus vertueux de l'Italie», ritenendoli, erroneamente, entrambi deceduti. Al Teramano venne anche attribuita la stesura di un Rapport adressé à S. M. l'empereur Napoléon à l'île d'Elbe, par le principal émissaire en Italie, daté de Naples du 14 octobre 1814 (ora, tradotto, in Opere complete, cit., vol. IV, pp. 325-33, col titolo Rapporto sull'Italia inviato a Napoleone e attribuito a M. Delfico) sulle condizioni politiche e morali dei vari Stati italiani, che sarebbe dovuto servire all'imperatore francese per meglio valutare le possibilità di successo dell'impresa. Ma nessuna conferma in proposito è mai venuta dalle carte delficine, né da successive ricerche, per cui ancora oggi l'ipotesi di una partecipazione del Nostro al progetto resta legata a quest'unica notizia. 

(20) Cfr. la lettera di Delfico a  Münter del 16 febbraio 1810, cit., pp. 148-49.

(21) All'indomani dello scoppio insurrezionale del 1820, Ferdinando I aveva affidato a Delfico l'incarico di tradurre la Costituzione spagnola del 1812 e subito dopo, il 9 luglio 1820, lo aveva nominato (assieme ad altri 14) membro della Giunta provvisoria di governo, chiamata a sostituire il Parlamento fino al suo insediamento. Successivamente fu uno degli 89 deputati di quel Parlamento che, costituitosi il 1° ottobre 1820, visse solo fino al marzo 1821, quando l'esercito austriaco mise fine al regime costituzionale.

(22) A. SCIROCCO, Dalla seconda restaurazione alla fine del Regno, in Storia del Mezzogiorno, vol. IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, Edizione del Sole, Roma 1986, p. 674.

(23) Nel maggio del 1822 Delfico torna a Teramo, ma nell'autunno successivo si reca di nuovo a Napoli dove rimane per alcuni mesi, fino alla primavera del 1823, quando lascia la Capitale per non farvi più ritorno. A Teramo, dove trascorre il resto della sua vita, senza mai più allontanarsi, l'anziano scrittore continua a studiare e a scrivere. Fra gli scritti di questi anni (alcuni dei quali ancora inediti e, di questi, molti non terminati o soltanto abbozzati e frammentari) ricordiamo la memoria Della importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della filosofia intellettuale, cit. [1823]; Della antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le origini italiche, cit. [1824]; i due opuscoli Fiera franca in Pescara [1823] e Breve cenno sul progetto di un porto da costruirsi alla foce del fiume Pescara [1825], nei quali ipotizza la realizzazione di un polo commerciale per incentivare le attività produttive sulla costa adriatica; la lettera Della preferenza de' sessi, cit. (1829), alla contessa Chiara Mucciarelli Simonetti. Di questo periodo è inoltre l'interesse di Delfico per la scienza medica testimoniato da numerose sue pagine, ancora inedite, conservate presso il «Fondo Delfico» della Biblioteca Provinciale di Teramo.

(24) Osservazioni I, cit., p. 41.

(25) Cfr. N. DEL CORNO, Gli «scritti sani». Dottrina e propaganda della reazione italiana dalla Restaurazione all'Unità, Angeli, Milano 1992, pp. 24-25.

(26) Antonio Capece Minutolo [1768-1838], sostenitore della dinastia borbonica, divenne nel gennaio del 1816 ministro della Polizia a Napoli, ma fu licenziato nel giugno successivo per la sua azione particolarmente repressiva contro la Carboneria, alla quale oppose la setta sanfedista dei Calderari, sorta durante il Decennio. Nominato di nuovo ministro della Polizia nell'aprile del 1821, fu dapprima esonerato [luglio 1821] e poi, nel maggio dell'anno successivo, allontanato dal Regno. Cfr. W. MATURI, Il principe di Canosa, Le Monnier, Firenze 1944.

(27) CANOSA, I piffari di montagna, s.e., Parigi 18326, p. 13.

(28) Ivi, p. 117.

(29) Cfr. ivi, p. 123.

(30) N. MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, in Opere, cit., vol. III, lib. I, cap. XVII, p. 69.

(31) CANOSA, I piffari di montagna, cit., pp. 123-24.

(32) Cfr. ivi, pp. 156-58.

(33) Cfr. J. DE MAISTRE, Essai sur le principe générateur des constitutions politiques et des autres institutions humaines, in Oeuvres complètes, tome premier, Emmanuel Vitte, Lyon-Paris 1924, pp. 229-30.

(34) Si veda, in proposito, a. M. BATTISTA, Aspetti del tradizionalismo italiano nell'età della Restaurazione, in Atti del XLVII congresso di Storia del Risorgimento italiano, Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, Roma 1975, pp. 223-49.

(35) Cfr. «Enciclopedia ecclesiastica»», t. II, Napoli 1822, p. 79. Fondata a Napoli nel maggio del 1821 da padre Gioacchino Ventura e da lui diretta, la rivista dovette sospendere la pubblicazione nell'ottobre del 1822, dopo che al ministero Canosa era succeduto quello di Luigi de' Medici, ostile verso ogni forma di papismo e di azione clericale. Cfr. MATURI, Il principe di Canosa, cit., p. 197.

(36) Osservazioni I, cit., p. 20.

(37) Ivi, p. 21.

(38) Non mi sento pertanto di condividere la tesi di chi ha visto nelle Osservazioni soltanto una critica radicale del pensiero machiavelliano. Cfr. G. GENTILE, La Repubblica virtuosa. Rousseau nel Settecento politico meridionale, Morano, Napoli 1989, pp. 156-66.

(39) Com'è noto, le pagine di Hegel su Machiavelli fanno parte del capitolo IX della sua opera Über die Verfassung Deutschlands, composta tra il 1799 e il 1802 ma pubblicata postuma nel 1893. Lo scritto di Fichte, invece, pur essendo apparso nel giugno del 1807 sul 1° volume della rivista «Vesta» non viene mai citato dal Teramano, né d'altro canto esso sembra aver avuto riscontro nella letteratura machiavelliana in Italia negli anni precedenti la stesura delle Osservazioni delficine. Il saggio fichtiano fu tradotto in italiano da Antonio Buoso che lo pubblicò, col titolo Su Machiavelli scrittore con brani dai suoi scritti, in appendice al suo volume Il Machiavelli nel concetto del Fichte, Castion, Portogruaro 1920.

(40) Cfr. Osservazioni I, cit., pp. 20-21, e  Osservazioni II, cit., pp. 60-61.

(41) Secondo il Molisano Machiavelli «vide i costumi e gli ordini de' suoi tempi, e ne giudicò con una mente la quale era superiore ai tempi suoi», che venne ammirata o biasimata «sempre senza ragione, perché non era mai ben compresa» (V. CUOCO, La politica inglese e l'Italia [gennaio 1806], in Scritti vari, cit., vol. I, p. 204. Su Cuoco interprete di Machiavelli, cfr. CURCIO, Machiavelli nel Risorgimento, cit., p. 19 sgg. Per un'altra valutazione, cfr. L. RUSSO, La critica machiavellica dal Cuoco al Croce [1949], in Machiavelli, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 234-45.

(42) Osservazioni II, p. 75.

(43) Cito dall'edizione, in otto volumi, delle Opere di Niccolò Machiavelli Cittadino e Segretario fiorentino, Italia 1813. Stampata a Firenze presso il Piatti, a cura di F. Tassi, e arricchita di una lunga introduzione, in cui vengono passati in rassegna molti dei giudizi fino ad allora espressi sul Fiorentino, e comprensiva della raccolta di massime machiavelliane pubblicata a Roma nel 1771 da Stefano Bertolini col titolo La mente di un uomo di Stato, l'edizione è quella utilizzata da Delfico per la stesura delle Osservazioni. La citazione è nel vol. IV, p. 2. In realtà, il passo non allude a nessuna opera andata perduta, bensì ai primi capitoli dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio che, com'è noto, furono interrotti ad un certo punto della loro compilazione per poi essere completati dopo che il suo Autore ebbe scritto il Principe. Sulla datazione delle opere maggiori di Machiavelli, cfr., da ultimo, G. SASSO, Niccolò Machiavelli, vol. I, Il pensiero politico, Il Mulino, Bologna 1993, p. 349 sgg.

(44) Per una lettura «risorgimentale» del Fiorentino fondamentale è il volume di CURCIO, Machiavelli nel Risorgimento, cit. Un'utile rassegna di moderni interpreti favorevoli e contrari a Machiavelli profeta dell'unità d'Italia è in R. DE MATTEI, Dal premachiavellismo all'antimachiavellismo, Sansoni, Firenze 1969, p. 89 sgg.

(45) La lettera, datata 10 dicembre 1513, fu pubblicata la prima volta nel 1810 da Ridolfi in appendice ai suoi Pensieri intorno allo scopo di Niccolò Machiavelli nel libro Il Principe, cit., pp. 61-72.

(46) Osservazioni II, cit., p. 67.

(47) Ivi, p. 66.

(48) Cfr. CUOCO, La politica di Niccolò Machiavelli, cit., p. 47.

(49) Cfr. retro,  pp. 83-84.  

(50) Osservazioni II, cit., p. 67.

(51) CUOCO, La politica di Niccolò Machiavelli, cit., p. 48.

(52) RIDOLFI, Pensieri intorno allo scopo di Niccolò Machiavelli nel libro Il Principe, cit., p. 25. Lo stesso concetto è anche a p. 11.

(53) Osservazioni II, cit., p. 67.

(54) Cfr. Osservazioni I, cit., p. 29; Osservazioni II, cit., p. 70.

(55) Cfr. retro, pp. 13-14, 20, 128-29 e 133.

(56) MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, cit., lib. I, cap. XI, pp. 51 e 48-49. Sul duplice significato che la religione assume in Machiavelli, cfr. G. PROCACCI, Introduzione, in N. MACHIAVELLI, Il Principe e Discorsi, a cura di S.Bertelli, Feltrinelli, Milano 1960, pp. LVIII-LXII;  SASSO, Niccolò Machiavelli, cit., vol. I, pp. 549-58.

(57) Delfico cita in proposito il cap. XII del primo libro, p. 55, in cui Machiavelli denuncia la responsabilità storica della Chiesa per aver tenuto e continuare a tenere l'Italia divisa: «Non essendo dunque stata la Chiesa potente da potere occupare l'Italia, né avendo permesso che un altro la occupi, è stata cagione che la non è potuta venire sotto un capo, ma è stata sotto più principi e signori; da' quali è nata tanta disunione e tanta debolezza, che la si è condotta ad esser stata preda, non solamente de' barbari potenti, ma di qualunque l'assalta».

(58) Osservazioni I, cit., p. 22; Osservazioni II, cit., p. 62.

(59) Cfr. MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, cit., lib. II, cap. II, pp. 188-89.

(60) Cfr. A. TENENTI, La religione di Machiavelli, in «Studi storici», a. 10 (1969), n. 4, p. 722.

(61) Osservazioni II, cit., p. 62;  Osservazioni I, cit., p. 22.

(62) Cfr. MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, cit., lib. I, cap. V, p. 23. Sulla concezione machiavelliana della libertà, cfr. le osservazioni di RUSSO, Machiavelli, cit., pp. 189-203, e di SASSO, Niccolò Machiavelli, cit., vol. I, pp. 511-27.

(63) Sull'evoluzione politica di Galdi e sulla sua esigenza costituzionalistica, cfr. M. CAPURSO, Matteo Galdi. Dalla monarchia riformistica alla monarchia costituzionale, estratto dagli «Studi economico-giuridici» dell'Università di Cagliari, vol. XXXVIII, Cedam, Padova 1954, pp. 67-71.

(64) Osservazioni II, cit., p. 77.

(65) A conferma delle proprie tesi Delfico cita alcuni passi tratti dai capp. XVI e LVIII del lib. I dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, cit., pp. 67 e 165-66.

(66) M. DELFICO, Opinioni politiche, in MARINO, Scritti inediti di Melchiorre Delfico, cit., p. 126, col titolo redazionale Idee per una costituzione.

(67) Osservazioni II, cit., p. 64.

(68) Sul «repubblicanesimo» del Discursus, cfr. DE MATTEI, Dal premachiavellismo all'antimachiavellismo, cit., pp. 77-88, il quale sottolinea l'astrattezza e il carattere «antistorico» della proposta istituzionale di Machiavelli, tutta incentrata sulla mitica figura del «fondatore». Per una diversa lettura, cfr. G. GUIDI, Niccolò Machiavelli e i progetti di riforme costituzionali a Firenze nel 1522, in «Il Pensiero politico», a. II (1969), n. 3, pp. 580-90.

(69) Per la composizione dello scritto, il cui titolo per esteso è Discursus florentinarum rerum post mortem iunioris Laurentii Medices, cfr. R. RIDOLFI, Vita di Niccolò Machiavelli, Sansoni, Firenze 19787, pp. 547-48; G. INGLESE, Il ‘Discursus florentinarum rerum’ di N. Machiavelli, in «La Cultura», a. XXIII (1985), n. 1, pp. 203-13; GUIDI, Niccolò Machiavelli e i progetti di riforme costituzionali a Firenze nel 1522, cit., p. 583, nota 14.

(70) Il testo fu incluso in un volume dal titolo Opere inedite di Niccolò Machiavelli, pubblicato a Firenze con la falsa indicazione di Londra, per iniziativa di Giovanni Maria Lampredi.

(71) Osservazioni II, cit., p. 69.

(72) N. MACHIAVELLI, Discorso sopra il riformare lo Stato di Firenze fatto ad istanza di papa Leone X, in Opere, cit., vol. IV, p. 113.

(73) Osservazioni II, cit., p. 69.

(74) Ivi, p. 70.

(75) Cfr. retro, p. 25.

(76) Osservazioni II, cit., p. 64.

(77) DELFICO, Idee per una costituzione, cit., p. 128.

(78) N. MACHIAVELLI, Istorie fiorentine, in Opere, cit., vol. I, lib. II, XII,  p. 79.

(79) Sul contrasto tra i due diversi «umori», cfr. A. BONADEO, Corruption, Conflict, and Power in the Works and Times of Niccolò Machiavelli, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London 1973, pp. 41-71.

(80) Sull'evoluzione della teoria machiavelliana del principato popolare, cfr. G. SASSO, Principato civile e tirannide, in «La Cultura», a. XX (1982), n. 2, pp. 213-75 e a. XXI (1983), n. 1, pp. 83-137. Una diversa valutazione è in G. CADONI, Il principe e il popolo, in «La Cultura», a. XXIII (1985), n. 1, pp. 124-202. Dello stesso autore si veda anche Machiavelli. Regno di Francia e «principato civile», Bulzoni, Roma 1974, pp. 110-29.

(81) MACHIAVELLI, Il Principe, cit., cap. IX, p. 35.

(82) MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, cit., lib. I, cap. XVI, p. 65.

(83) Ivi, p. 66.

(84) Ibid.

(85) Ivi, cap. LV, p. 159.

(86) Ibid.

(87) Ivi, pp. 160-61.

(88) Per un approfondimento di questi nessi, cfr. SASSO, Principato civile e tirannide, cit., p. 115 sgg.; Niccolò Machiavelli, cit., pp. 561-68; CADONI, Il principe e il popolo, cit., pp. 190-202; Machiavelli. Regno di Francia e «principato civile», cit., pp. 136-43.

(89) Per un'analisi comparata dei due testi, rinvio a G. SASSO, Studi su Machiavelli, Morano, Napoli 1967, pp. 139-59.

(90) Frammento delficino, in MARINO, Scritti inediti di Melchiorre Delfico, cit., p. 131, col titolo redazionale Quale sia la migliore costituzione per l'Italia. La citazione è a p. 131.

(91) Aveva scritto Delfico nel 1808 in un memoria ancora inedita dal titolo Pensieri che si propongono per rimediare agli inconvenienti della fondiaria: «I popoli nel loro senso comune riconoscono perfettamente che i bisogni dello Stato debbono essere da esso medesimo soddisfatti; ma sentono pure che l'ingiustizia in fatto di tributi nasce dall'ineguaglianza e questa dagli infelici metodi delle imposte e dal modo di eseguirle». Sulla proposta delficina di riforma del sistema contributivo, cfr. A. DE MARTINO, La nascita delle intendenze. Problemi dell'amministrazione periferica nel Regno di Napoli (1806-1815), Jovene, Napoli 1990, pp. 340-43, da cui è stata tratta la citazione.

(92) MACHIAVELLI, Istorie fiorentine, cit., lib. IV, XIV, pp. 221-22.

(93) MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, cit., p. 301.

(94) Osservazioni II, cit., p. 74.

(95) Cfr. F. CHABOD, Scritti su Machiavelli, Einaudi, Torino 1968, pp. 218-20.

(96) Sul fatalismo che pervade il primo capitolo del lib. III dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, cfr. le osservazioni di SASSO, Niccolò Machiavelli, cit., vol. I, pp. 617-22.

(97) Osservazioni II, cit., p. 73.

(98) Ivi, pp. 73-74. Delfico allude al passo in cui Machiavelli, pur apprezzando l'azione di san Francesco e di san Domenico di ridare nuovo impulso e prestigio alla religione cristiana, commenta negativamente l'esito da loro prodotto. (Cfr. Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, cit., lib. III, cap. I, p. 306).

(99) Osservazioni II, cit., pp. 71-72.

(100) M. DELFICO, Appunti sulle opere del Machiavelli, in MARINO, Scritti inediti di Melchiorre Delfico, cit., p. 84.

(101) MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, cit., lib. III, cap. I, p. 304.

(102) Osservazioni II, cit., p. 74.

(103) MACHIAVELLI, Istorie fiorentine, cit., vol. II, pp. 1-2. Il brano è interamente riprodotto da Delfico negli Appunti sulle opere del Machiavelli, cit., p. 84.

(104) Cfr. retro, p. 32 sgg.

(105) Per una storia della fortuna dell'Arte della guerra nel secolo XVIII, cfr. DE MATTEI, Dal premachiavellismo all'antimachiavellismo, cit., pp. 313-31.

(106) Sulla composizione e datazione di questi scritti e sulla loro importanza per la conoscenza del pensiero machiavelliano si veda il volume di J.-J. MARCHAND, Niccolò Machiavelli. I primi scritti politici (1499-1512), Antenore, Padova 1975.

(107) Osservazioni I, cit., p. 35.

(108) Sulle teorie militari di Machiavelli, cfr. P. PIERI, Guerra e politica negli scrittori italiani, Ricciardi, Milano-Napoli 1955, pp. 1-71.

(109) Sulla correlazione nell'Arte della guerra tra questione militare e questione politica, cfr. A. GRAMSCI, Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno, Einaudi, Torino 1966, pp. 14-15; CHABOD, Scritti su Machiavelli, cit., pp. 220-22; F. GILBERT, Niccolò Machiavelli e la vita culturale del suo tempo, Il Mulino, Bologna 1972, p. 193 sgg.; PROCACCI, Introduzione, cit., pp. LXVIII-LXXV; V. MASIELLO, Classi e Stato in Machiavelli, Adriatica Editrice, Bari 1971, p. 125 sgg.; SASSO, Niccolò Machiavelli, cit., vol. I, p. 623 sgg.

(110) MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, cit., lib. III, cap. XXXI, p. 409; Il Principe, cit., cap. XII, p. 43.

(111) «Non basta adunque in Italia - scrive Machiavelli - il sapere governare un esercito fatto, ma prima è necessario saperlo fare, e poi saperlo comandare. E di questi bisogna siano quelli principi, che per avere molto stato ed assai soggetti, hanno comodità di farlo. De' quali non posso essere io che non comandai mai, né posso comandare se non ad eserciti forestieri, e ad uomini obbligati ad altri, e non a me. Ne' quali s'egli è possibile o no introdurre alcuna di quelle cose da me oggi ragionate, lo voglio lasciare nel giudizio vostro. Quando potrei io fare portare ad uno di questi soldati, che oggi si praticano, più armi, che le consuete; ed oltre all'arme, il cibo per due o tre giorni, e la zappa? Quando potrei io farlo zappare, o tenerlo ogni giorno molte ore sotto le armi negli esercizj finti, per potere poi ne' veri valermene? Quando si asterrebbe egli da' giuochi, dalle lascivie, dalle bestemmie, dalle insolenze, che ogni dì fanno? Quando si ridurrebbero eglino in tanta disciplina, in tanta ubbidienza e riverenza, che un arbore pieno di pomi nel mezzo degli alloggiamenti vi si trovasse, e lasciasse intatto, come si legge che negli eserciti antichi molte volte intervenne? Che cosa poss'io promettere loro, mediante la quale è mi abbiano con riverenza ad amare o temere, quando finita la guerra ei non hanno più in alcuna cosa a convenire meco?» (Dell'Arte della guerra, in Opere, cit., vol. IV, lib. VII, p . 418-19).

(112) Riserve sulla effettiva coerenza in Machiavelli tra l'esigenza di una radicale  riforma militare e i mezzi da lui prospettati per attuarla sono state avanzate da CHABOD, Scritti su Machiavelli, cit., p. 87, e da SASSO, Niccolò Machiavelli, cit., vol. I, pp. 189-213 e 640-42.

(113) Osservazioni I, cit., p. 35.

(114) Ivi, p. 36.

(115) MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, cit., lib. I, cap. XLIII, p. 130.

(116) MACHIAVELLI, Il Principe, cit., cap. XIII, p. 48. Cfr. inoltre cap. XII, pp. 43-44. Lo stesso concetto è anche nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, cit., lib. I, cap. XLIII, p. 130.

(117) MACHIAVELLI, Dell'Arte della guerra, cit., lib. VII, p. 421.

(118) MACHIAVELLI, Il Principe, cit., cap. IX, p. 35 e cap. XIX, p. 69.

(119) Osservazioni I, cit., pp. 36-37.

(120) MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, cit., lib. I, cap. XXI, p. 79.

(121) Cfr. G. BÀRBERI SQUAROTTI, L'«Arte della guerra» o l'azione impossibile, in «Lettere italiane», a. XX (1968), n. 3, pp. 281-306. Sul diverso atteggiamento di Machiavelli nel Principe e nell'Arte della guerra interessanti osservazioni in G. PROCACCI, Niccolò Machiavelli, in Storia delle idee politiche economiche e sociali, diretta da L. Firpo, vol. III, Umanesimo e Rinascimento, Utet, Torino 1987, pp. 276-81; SASSO, Niccolò Machiavelli, cit., vol. I, p. 646  sgg.

(122) Lettera del 13 settembre, in Spigolature nel carteggio letterario e politico del march. Luigi Dragonetti, cit., p. 147.

(123) Osservazioni II, cit., p. 75.

(124) Ivi, p. 71.