De Filippis

 

De Filippis-Delfico

 

(Teramo, 1820)

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Stemma famiglia De Filippis-Delfico, Teramo, 1820

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Delfico

(Napoli, sec. XVIII)

(Teramo, sec. XV)

Stemma famiglia De Filippis, Napoli, sec.XVIII

Stemma famiglia Delfico, Teramo, sec.XV

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Storie d'Abruzzo: Melchiorre Delfico

di Gianvito Pizzi

Prima di scrivere di un argomento, lo studio approfonditamente. Sia esso di storia o di filosofia. Nell'intraprendere questa rubrica, "Storie D'Abruzzo", sapevo che volta per volta, mi sarei trovato al cospetto di situazioni eterogenee.

Questa volta mi sono occupato di un filosofo, uno di quegli uomini nascosti nelle pieghe della storia, ma che comunque: hanno partecipato ad essa.

Per formazione culturale, conosco le venture della Repubblica Partenopea. Indi, ho incrociato: Melchiorre Delfico, Carafa e Mantonè.

Tra gli economisti vissuti a cavallo tra il ‘700 e l'800, dopo il Genovesi ed il Galiani, Delfico ha illuminato molti frammenti della vita della Repubblica Partenopea e del Regno di Napoli. Tanto che ne ebbero a scrivere anche il Gentile ed il Croce. Tra i pochi studiosi che ne ebbero a intuire l'argume.

Melchiorre nacque a due passi da Montorio al Vomano, nel 1744, dieci anni dopo la fine della dominazione austriaca nel sonnecchiante Abruzzo.

Figlio di una famiglia di buon casato, rimase orfano ben presto, ed insieme ai fratelli, fu mandato ad istruirsi a Napoli. Come si conveniva ai rampolli gentilizi.

Il ragazzo mostrò subitaneamente doti non comuni. Infatti, maestri del calibro di Genovesi, si dispongono solo se si è illuminati d'ingegno.

E nei tredici anni di studi napoletani, dal 1755 al 1768, il piccolo Delfico, ebbe modo di respirare l'aria riformatrice che spirava in Europa. Un'aria che montò in vento furioso, a ridosso della Rivoluzione Francese.

Infatti, la vita di Melchiorre, che morì a novantuno anni, fu parallela ad uno dei periodi più convulsi della storia d'Occidente. Dove nel meridione d'Italia, la monarchia cominciò a vacillare, per lasciar spazio alla repubblica rivoluzionaria, per poi veder tornare i Borbone, e poi ancor Napoleone e ancora i Borbone.

Anni drammatici, ove si posero le basi del Risorgimento italiano. Anni in cui il sistema feudale cominciava ad aprire le prime brecce, per lasciar spazio ad istituzioni più evolute.

Delfico visse tutto questo, ed ebbe modo d'incidere nel complesso sistema di rinnovamento. Sia da filosofo, che da economista. Ma anche come uomo d'azione, tramite cariche istituzionali.

Quindi, se ebbe salva la vita, nei vari ricambi di potere, lo si deve al suo raffinato intelletto. Il suo apporto, infatti, risultava sempre fondamentale e nessuno voleva privarsene.

Tornando ai suoi studi, il Genovesi, come maestro di filosofia, non lo aggradò più di tanto, ma gli diede spunti importanti.

Erano le idee ispirate dal giusnaturalismo, dal sensismo, dal radicalismo antistorico, da quell'amore per la laicità e per la ragione, che fecero tentennare le alte sfere vaticane.

Infatti, Melchiorre, sin dal suo debutto in filosofia, fu subito guardato con diffidenza dai teologi.

Da buon illuminista, ma con mitezza, nel suo "Saggio filosofico sul matrimonio", pubblicato nel 1774, parlava dei piaceri di esso, non relegando l'istituzione, in un mero imbuto di doveri.

In questo saggio, da me letto in frammenti, ho avuto modo di percepire la straordinarietà di un individuo, che alla fine del settecento, era un vero femminista, che mostrava una sensibilità genuina verso la condizione femminile, che gli faceva onore e merito, in virtù dei due secoli che ci separano.

Traducendo in scritto, esaminate questo estratto: "…..A voler parlare ragionevolmente, quello che le donne sono, non è che un effetto di quello che gli uomini sono la causa. Sono essi gli autori delle leggi e delle opinioni, sono essi che hanno in mano il potere e non è che per l'abuso che ne hanno fatto che si hanno comperata la loro infelicità. Se siamo dunque ancora così ingiusti, queruli e declamatori, contro i difetti del bel sesso, perchè non riconosciamo che sono l'effetto dei nostri vizi?"

Le parole non hanno bisogno di ulteriori commenti. Vi è un'individuazione del maschilismo che non lascia margini di difesa.

E ancora: "Gli uomini, per usare la loro superiorità, si persuadono facilmente che la ragione non possa unirsi alla bellezza, nè le virtù alla debolezza, quindi non mancano di imporre alle donne, sin dalla loro infanzia, inutili e superflui doveri…Non è nelle donne la principale causa dell'infelicità coniugale, ma è nell'abuso del potere o nella mancanza d'educazione."

Questi due frammenti, appartengono ad un saggio pubblicato quando Melchiorre aveva trent'anni: è un saggio pieno di dolcezza, una vera ode all'amore coniugale. Ai suoi piaceri. Con una celebrazione della donna, onde proporne un riscatto.

Utilizzando il metodo di lettura freudiano, essendo uno studioso della materia, potrei leggere tra le pieghe della sua anima. Ma di tale saggio, mi preme solo segnalare lo stagliarsi della figura del filosofo, che inizia a proliferare pensieri sulla vita. "L'uomo può avere una serie di piaceri, sino alla tomba e tutte le età della vita possono essere riempite di piaceri ad esse convenevoli…l'uomo che ha più vissuto, che ha più sentito, che ha messo un ordine alle sue idee ed ai suoi sentimenti, ha ancora nell'età avanzata un vasto campo donde può avere una messe di utili e sensibili piaceri, e così passare il resto dei suoi giorni, non in una noia divoratrice, in un rimorso che consuma, o nel cercare l'oblio di se stesso, ma in una tranquillità condita di azioni proporzionate alle sue forze."

Sbagliano i critici che vogliono "ridurre" il pensiero di Delfico, a mero prodotto delle sue letture e dei suoi maestri. Chi non è un filosofo, non può capire come il pensiero altrui sia a volte estraneo a delle elaborazioni. I critici hanno il limite di voler "incasellare" a tutti i costi, soffrendo il grave handicap di non percepire l'autonomia del singolo.

Il Delfico è stato un filosofo, anzi, diciamo un saggio. La lettura di alcune sue opere mi ha ricordato lo stile di Montaigne nello scrivere gli Essai. Solo che Michel de Montaigne era supportato da un'immensa e proverbiale cultura classica, ed intesseva le sue riflessioni sulla vita, di aneddoti e fatti storici. Melchiorre va di suo, ha letto tanto, ma non ricorreva facilmente alla citazione.

Credo che il Delfico filosofo meritava e merita migliore attenzione.

Ma torniamo alla sua vita, seguendo uno schema di racconto.

Prima del saggio sul matrimonio, il giovane Melchiorre ebbe modo di mettersi in luce, nella capitale del regno borbonico, con due libelli di natura economica dove dispensava teorie per uscire dal sistema feudale. Scritti che servirono ad attirare su di lui l'attenzione del Tanucci, ministro plenipotenziario di un re, Ferdinando, rozzo quanto mai, e a cui non interessava che andare a caccia con la sua banda di scanzonati amici.

Anche Benedetto Croce, ebbe a riconoscere, nella sua storia sul Regno di Napoli, che le aperture intellettuali, per rompere con il sistema feudale, vennero proposte dal Delfico.

In quel tempo il reame era retto da Maria Carolina d'Austria, donna raffinata, con un carattere indomito, andata in sposa su "procura", a quell'uomo sgraziato. Lo aveva conosciuto a Capua, ricevendolo in dono dinastico.

Ma il Tanucci, che non era altro che l'incarnazione di Carlo lll, il quale dalla Spagna continuava a governare Napoli, ebbe un'affinità elettiva con quella affascinante donna e ambedue ressero il regno in una fase delicatissima.

La rivoluzione era scoppiata in Francia e i napoletani, spinti da una generazione d'intellettuali formidabili, e da due eroine particolari (la Sanfelice e la Pimentel), rovesciarono i Borboni, costretti a scappare a Palermo. Così nacque la Repubblica Partenopea.

Ed ecco che, in questo deflagrante contesto, il Delfico compare nella sua elegante dialettica, sia filosofica che economica. Partecipando direttamente all'organizzazione delle istituzioni del nascente stato. 

Forse fu un pò troppo precipitoso nel lasciarsi trascinare dagli eventi, ma Melchiorre aveva a cuore l'organizzazione di uno stato efficiente. E qualunque fosse il mezzo, per perseguire l'equità e la saggezza istituzionale, egli lo "cavalcava" per perseguire le sue idee.

Ecco perchè fu sempre in prima linea nei rovesciamenti di fronte. Non gli interessava il potere e la stella polare del filosofo illuminato, lo guidava nel proporre le sue ricette economiche, giuridiche, istituzionali, in ogni circostanza. Un aspetto che solo un intellettuale di rango può avere e può percepire.

Questo dato del suo carattere e del suo ingegno, era acquisito nel ceto intellettuale del regno. E niuno ebbe a chiedere la sua testa in nessuna circostanza.

La Repubblica Partenopea ebbe breve durata. I sanfedisti del Cardinale Ruffo di Calabria, riuscirono a piegare i rivoluzionari e vennero i giorni del terrore. Dove ci rimise la vita anche la Sanfelice, che con il suo "Monitore" aveva dettato l'agenda delle riforme del costituendo stato.

Delfico fu costretto a fuggire. A scopo precauzionale. E venne accolto dalla Repubblica di San Marino, dove ebbe, poi, a scriverne la storia.

La Repubblica sammarinese, lo ricorda tutt'ora con una statua esemplare ed un conio di moneta, oltre ad istituti e associazioni dedicate alla sua memoria.

Melchiorre stette lì sino a quando l'esercito napoleonico non fece ingresso in Napoli, rimandando Ferdinando a Palermo.

Ecco, quindi, che il Delfico venne reinserito, dai circoli culturali, nella dialettica del confronto, per far ripartire le riforme di uno stato che si professava laico. Ed ecco come si dimostra, che quest'uomo, nella sua lunga vita, incrociava armonicamente: cariche istituzionali, ruolo sociale, studio e ricerca.

Alla crescita sul piano del prestigio, si affiancava quella sul piano intellettuale.

Nel 1806 venne pubblicato un suo saggio di grande rilevanza, che anche in tale circostanza, molti critici si sono sperticati nel volerlo sminuire, additando la solita litania della mancanza di originalità.

Anche in questo caso siamo davanti ad un abbaglio, anzi, ad una cecità. Il Delfico nei "Pensieri sulla Istoria e sull'incertezza e l'inutilità della medesima", dimostra grande acume. Soprattutto grande libertà intellettuale, tipica di un vero filosofo. La sua capacita dissacratoria è degna di un miglior Paul Louis Courier. La sua irriverenza verso il passato, o meglio, i luoghi comuni del passato, ho avuto modo di percepirla anch'io, in alcune mie scritti. Quell'anelito che monta dentro, quelle catene che si spezzano nell'essere ingabbiato in uno stereotipo. E ciò mi interessò in passato, ma non perchè stimolato da un illuminato, o perchè accarezzato dall'antistoricismo.

Nel leggere alcuni pensieri del Delfico nella "Istoria", mi sono sentito confortato e rafforzato nell'identità del mio lavoro di filosofo. Per questo, forse, mi sono affezionato a quest'uomo di due secoli fa.

Il Delfico ha avuto il coraggio di considerare molti punti cardine della storia, come superata dagli eventi, e dunque inutile, se non dannosa. Nel mio scritto "Rilettura del termine Borghesia. Una riflessione sulla politica", ho avuto modo di dimostrare come molti classici del pensiero politico, dei cardini delle ideologie, ormai non hanno più senso di esistere, se non per studiare il passato. 

Dopo queste considerazioni personali, che perdonerete, torniamo alla storia che c'interessa.

Quando Giuseppe, fratello di Napoleone Bonaparte, venne messo a capo dell'ex regno di Napoli, si preoccupò di riassestare le casse finanziarie. Inoltre, c'era da continuare lo smantellamento del sistema feudale, e di quella casta di baroni, che avevano costituito la più forte resistenza nella vita della Repubblica.

Giuseppe chiamò il Delfico, e lo inserì nel Consiglio di Stato. Alta carica di potere ed onorifica. Poi lo nominò due volte ministro degli Interni. E va considerato che tale considerazione, non si deve purtroppo al filosofo Delfico, ma al Delfico economista, autore di studi come:  "Memorie sulla libertà del commercio", "Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza", "Memorie sul tribunale del Grascia e sull'economie delle province confinanti col regno di Napoli". Studi che misero in luce anche il pragmatismo dell'eclettico teramano.

Ma Giuseppe venne chiamato a condurre il Regno di Spagna ed il testimone passò a Gioacchino Murat. E siamo nel 1815.

Murat, rispetto a Giuseppe Bonaparte, credeva nell'autonomia del regno che rappresentava. Voleva farne uno stato moderno, dove vedeva la possibilità di imporsi come uomo di stato, al centro dello scacchiere internazionale. Al fondo, aveva l'obiettivo velleitario di unificare l'Italia. Un autonomia che Napoleone mal sopportava, e che era mediata da Carolina, la sorella dell'imperatore, che copriva le spalle al suo ambizioso consorte.

Il Delfico partecipò attivamente a questa attività di ammodernamento. Murat gli diede un incarico di notevole valore: l'organizzazione della pubblica istruzione.

Murat fu autore di una vasta azione di ammodernamento, con tanti temi cari a Melchiorre, che lo stimolarono molto, in un arco della vita che lo vedeva varcare la soglia dei sessant'anni.

Ma Gioacchino, vittima degli eventi e della sua ambizione, tradì anche l'ingombrante cognato e fu costretto a fuggire.

Voleva unificare l'Italia e fu il primo ispiratore dei moti carbonari, infatti in una sua rocambolesca avanzata sino a Rimini, suggerì al Mazzini il "Proclama di Rimini". Ma il Delfico, non lo seguì mai, su questi temi arditi. E quando il Metternich riorganizzò l'Europa, e decise di far occupare la sedia del Regno di Napoli, nuovamente ai Borbone, Melchiorre non fece le spese dell'epurazione.

D'altronde, Ferdinando, memore della prima disastrosa epurazione, questa volta agì con guanto felpato. Ed il Delfico rimase integrato nella classe dirigente, conservando la carica di Presidente della commissione degli Archivi del Regno.

Fu un periodo in cui, il filosofo teramano, smise i vestiti dell'intraprendenza fattuale, per tornare alla riflessione. Di vicende ne erano occorse anche troppe, e s'addiceva il tempo dell'analisi.

Lo spirito d'indagatore dell'animo umano riprese il sopravvento nel suo intelletto, e partorì, nel 1818, le "Nuove ricerche sul bello", ove si evince tale fase riflessiva.

L'ultimo incarico di prestigio fu la traduzione della costituzione spagnola, onde poi poter redigere quella del reame di Napoli. Ma ormai, la piega degli eventi mostravano una restaurazione di vecchi principi, che al Delfico riformatore, non potevano andare a genio. Preferì ritirarsi.

Lui, uomo con l'alto senso dello stato, che aveva servito il meridione, non come mera espressione geografica, ma come un insieme di milioni di persone in cerca di miglior sorte, sentiva la sua causa perduta. E tornò in quel di Teramo. Ove trascorse tra i suoi cari, gli ultimi anni della sua vita.

I suoi cari ed i suoi libri. Innumerevoli volumi che fanno parte di una biblioteca poi lasciata in dono ai suoi concittadini.

 

In sede di conclusione

L'imbarazzo dei critici, nel dover vagliare la figura del Delfico, è dovuta al suo eclettismo.

Per studiarlo occorrerebbe una commissione, con più facoltà d'indagine. Oppure l'impegno di studiosi che accomunano più specializzazione.

Non per nulla, Delfico è stato valutato da Gentile e Croce. Spiriti filosofici che conoscevano le vicende storiche e avevano una buona sintesi delle due discipline.

L'idea che mi sono fatto, è che un vero studio sul Delfico, non è stato mai tentato. Perchè troppo vasta la sua opera, e qualunque studioso di rango, preferisce concentrarsi su personaggi che hanno mostrato maggiore incidenza.

Si sbaglia.

Delfico attende ancora che si apra il capitolo del suo lavoro, lungo un secolo.

N.A. Ringrazio Massimo De Filippis Delfico, mio amico, che mi ha messo a disposizione il materiale per studiare il suo illustre antenato. Un ringraziamento va anche a Paola Sorge, perchè tramite la raccolta in aforismi, di parte del pensiero delficiano, mi ha accelerato l'apprendimento dei punti focali del suo ingegno.