Da alcuni documenti di proprietà privata e da ricerche d'archivio si
apprende che la famiglia Rossi si insedia effettivamente in Mosciano
(oggi Mosciano S. Angelo), con il notaio Alessandro Rossi che, nato
intorno al 1698, inizia in questo luogo la sua lunga ed ininterrotta
attività notarile che va dal 1722 al 1787. In prime nozze sposa Rosa,
figlia di Biagio De Bartolomeis, prestigiosa famiglia di Giulia (oggi
Giulianova) e di Caterina Pistilli di Teramo, ma rimasto presto vedovo e
senza figli, passa ad un nuovo matrimonio, presumibilmente intorno al
1724, con Maria Faustina, figlia del notaio Nicola Somma di Tortoreto.
Da questa unione nascono Quintilia, Francescantonio che prenderà la via
del sacerdozio, Ambrogio, Pasquale e Maria.
Ambrogio, laureatosi Dottor Fisico, sposa a Giulia il 5 novembre 1749
Elisabetta, figlia del quondam Giuseppe Mezzoprete, notaio e di
Francesca Santarelli. A questo punto è curioso evidenziare che nello
stesso giorno del matrimonio di Ambrogio ed Elisabetta, il padre
Alessandro, di nuovo vedovo, sposa Francesca Santarelli, come già detto,
madre di Elisabetta. Da Ambrogio ed Elisabetta nascono Gianpasquale,
Luigi, Marcantonio, Maria Vittoria, che sposerà Giuseppe Procedi di
Teramo e Giuseppe che diverrà sacerdote. Dall'unione di Gianpasquale con
Anna Maria De Panicis nasce, nel 1787, solamente Francescantonio, almeno
così si deduce dalle fonti. Francescantonio, nei primi anni del 1800 si
unisce in matrimonio con Anna Candida Ajelli e da loro nascono due
figlie di nome Elisabetta, che muoiono da piccole, Doralice che sposerà
il famoso medico omeopata Rocco Rubini di Cellino, Maria Eloisa, Maria
Giuseppa che sposerà il notaio Caio Tito Macozzi di Mosciano ed Ambrogio
che il 20 giugno 1849 sposerà Aurora De Filippis Delfico, figlia di
Gregorio De Filippis Delfico Conte di Longano e di Marina Delfico (1).
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Aurora De Filippis Delfico e
Ambrogio Rossi |
Il nome di Francescantonio, acceso
patriota e tenace nemico dell'assolutismo borbonico, è citato in
alcuni atti della Polizia Borbonica del 1828, in quanto accusato assieme
ad altre persone indagato e processato per "cospirazione ad oggetto
di cambiare l'attuale forma di Governo, con riunione armata in
campagna". Tali riunioni avvennero di notte tra il 6 e il 21
febbraio del predetto anno nella taverna dei Mezzopreti, sita nella
marina di Montepagano (2). Francescantonio
riuscì, però, a fuggire nelle vicine Marche, in Ascoli o in Offida ma,
tornato dal temporaneo asilo, fu arrestato. Mentre era detenuto, chiese
la restituzione di alcuni documenti che gli erano stati sequestrati
nella perquisizione della sua casa di Mosciano, ma la polizia ne
trattenne alcuni, tra i quali copie di deposizioni per cause politiche
ed una lettera "amichevole", proveniente da Napoli, datata 8
luglio 1820 e firmata "Paolo", in cui questi gli annunciava
con sommo entusiasmo la così detta "Costituzione proclamata"
con espressioni "temerarie e contrarie" al Ministro di Grazia
e Giustizia ed a quello delle Finanze. Tra le carte trattenute dalla
polizia, vi era la corrispondenza tenuta dal Rossi, nella sua qualità
di Capitano dei Militi, carica ricoperta durante il nonimestre
costituzionale (luglio 1820 - marzo 1821), missive varie ed una canzone
in lingua francese.
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Ritratto di Francescantonio Rossi (G. Arnaud, Livorno, 1859)
(per concessione del Comune di Mosciano S. Angelo) |
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Francescantonio Rossi (Archivio privato) (La data indicata sul verso
della foto risulta errata, Francescantonio Rossi muore a Livorno
nel 1853) |
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Sempre nelle carte della Polizia Borbonica è
conservata una sua lettera riservata trasmessa all'Intendente di
Teramo Nicola Lucenti datata "Mosciano li 8 del 5° mese, anno I
Era Costituzionale [ 8 dicembre 1820]" nella quale, informandolo
delle lamentele della popolazione per il pagamento della contribuzione a
favore della Cassa Generale e delle preoccupazioni avanzate dai deputati
al Parlamento di Napoli che "…fremono e sono ormai impazienti di
non vedersi alcun vantaggio dalla tanto sospirata Costituzione…",
gli scrive tra l'altro che si provvederà alla "vestizione dei
Legionarj" coll'acquistare a Chieti il panno necessario per le
uniformi ed aggiunge che "l'armamento è quasi al completo tra
focili di munizione e paesani (3)". Scarcerato e tornato in
Mosciano fu sottoposto alla più stretta e rigorosa sorveglianza "…
ma questa essendogli di enorme peso in un piccolo comune qual è la sua
patria, [scrive il giudice regio di Giulia] pensò sottrarsene, facendo
spesso dimora in cotesta Capitale [Giulia], in dove, a crearsi de'
riguardi, si rese appaltatore delle somministrazioni alle prigioni, pel
che rimeritò la benevolenza de' Procuratori Generali costà
destinati, e rimase sorvegliato fino al 1843, quando con Ufficio…
sottoscritto dal Segretario d'Intendenza D'Onofri, ne fu escluso…(4)".
Il Rossi partecipò attivamente ai
moti di Napoli del 1848 accanto al compatriota Aurelio Saliceti,
decaduto Ministro di Grazia e Giustizia e poi triumviro della
Repubblica Romana, vantandosi pubblicamente di "…essere
stato attivo nelle barricate in Napoli, ed essere stato l'ultimo
ad uscire dall'azione (5)". Per quella occasione egli fece
confezionare una bandiera tricolore, con stemma sabaudo al centro
e con ricamato l'anno 1848 in ciascuna delle due cocche del
nastro azzurro, bandiera che, sfidando le rigorose perquisizioni
della polizia borbonica, riuscì a portare a casa. Quel drappo,
venne offerto dal nipote Francesco Rossi, figlio di Ambrogio, al
municipio di Mosciano quando dal 1895 al 1905 ricoprì,
ininterrottamente, la carica di sindaco (6). Attualmente è
esposta nella Sala della Giunta comunale (7).
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Bandiera
di Francescantonio Rossi del 1848
(per
concessione del Comune di Mosciano S. Angelo) |
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Bandiera
di Francescantonio Rossi del 1848 (particolare)
(per
concessione del Comune di Mosciano S. Angelo) |
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Didascalia
posta sotto la bandiera
(per
concessione del Comune di Mosciano S. Angelo) |
In seguito ai predetti eventi, il nostro trovò
riparo nel limitrofo Stato Pontificio dove, nel gennaio del 1849 era
stata proclamata la Repubblica Romana, ed in S. Benedetto, secondo
quanto scrive nel rapporto l' Ispettore di Polizia Raffaele Orsini,
"… fu a capo dei Repubblicani…né in quel comune vi era chi lo
primeggiava, egli per l'impegno, e per l'attaccamento a quell'ordine
di cose non la cedeva ad alcuno…Portava una lunga barba bianca ed una
penna nera sul cappello che gli venne donata chi dice dal Garibaldi
istesso chi da un uffiziale del Garibaldi. Ne' caffè giocava e
conversava con i più riscaldati ed è vero che zelante ed attivo
vegliava al servizio nel corso della notte…Cadeva in mille improperie
contro del Re Nostro Signore, ed il suo intercalare era il Macellaio
Borbone Bombardatore… Spesso percorreva per tutte le strade in S.
Benedetto su di un legno con la bandiera tricolore, gridando viva la
Repubblica, morte ai tiranni e ai preti…adunava gente… e la
catechizzava sforzandosi a mostrare i vantaggi del governo repubblicano
e …l'infamia dei tiranni…(8)".
Francescantonio Rossi morì nel 1858 a Livorno dove
aveva vissuto, in esilio, gli ultimi suoi anni.
Tra i figli di quest'ultimo Ambrogio, nato il 26
marzo 1819, fu quello che seguì le orme paterne, operando attivamente
contro il governo borbonico e per la causa dell'unità d'Italia con
il sostegno e la piena condivisione della moglie Aurora De Filippis
Delfico. Subì un primo procedimento assieme a Nicola Pompizi e Flaminio
Saliceti, con l'imputazione di "adunanza illecita nel marzo 1848,
con organizzazione di un Comitato popolare in Mosciano, il cui oggetto
era non solo di occuparsi degli affari pubblici senza permesso dell'autorità
pubblica, ma di demoralizzare pur anche lo spirito pubblico nonché
usurpare una parte dei poteri governativi." Ma da tale accusa fu
prosciolto dalla Gran Corte Speciale per non aver commesso il fatto con
sentenza del 3 settembre 1850, quando si celebrò anche il processo per
i fatti di Teramo dell'ottobre 1848 che lo avevano visto di nuovo
imputato (9).
Questa volta l'accusa per Ambrogio Rossi fu quella
di "provocazione diretta a cambiare la forma di Governo, eccitando
gli abitanti del Regno ad armarsi contro l'Autorità Reale" in
unione, questa volta, di nobili figure di patrioti quali Troiano De
Filippis Delfico, fratello della sua futura moglie Aurora, Francesco
Marozzi, Antonio Leognani, Francesco Martegiani, Emanuele Cancrini,
Raffaele Menei, Giovanni De Panicis, Nicola Pigliacelli ed altri.
Negli atti processuali si legge: " Dopo che la
truppa del Re N. S. comandata dal gen. Landi, occupò Teramo per il
trambusto avvenuto il 15 ottobre 1848 (10), i principali compromessi,
per tema di cadere nei lacci della giustizia, sloggiarono da questa
città e si condussero in Tossicia armati di schioppo, accolti in casa
di D. Giuseppe Fasciani, di cui avevano maggior fiducia, onde provocare
quel Circondario alla rivolta… Il Fasciani armò anche la sua gente,
la quale unitasi ai tre soggetti sopraggiunti D. Francesco Marozzi, D.
Ambrogio Rossi, D. Troiano De Filippis Delfico, si avviarono per Fano
Adriano…" Da questo luogo, i predetti, si portarono in luoghi
montuosi, tutti armati di schioppo e, simulando di andare a caccia, in
realtà concertavano nelle boscaglie i loro piani di rivolta. Dopo aver
cacciato per qualche tempo, la comitiva si divise in due gruppi: il
Delfico, il Marozzi ed il Rossi tornarono a Fano in casa del
"famigerato repubblicano" Leognani, gli altri girovagarono
ancora per la montagna.
Usciti poi in piazza e vista la Guardia di Pubblica
Sicurezza tal Giuseppe De Luca e il soldato Iezzi, cominciarono ad
inveire contro le truppe del Real Governo, cantando versi della
"Marsigliese" e "maledetto quel soldato ch'è avverso
al liberalismo", ed eccitandosi ancora impresero a gridare
"Viva la Repubblica! Morte al Governo". Le invettive
continuarono per tutta la notte al grido di " Andiamo fratelli,
andiamo fratelli, col sangue del Re bagneremo la terra". I più
accesi erano Troiano Delfico ed il Leognani il quale, tra l'altro ci
tenne a mostrare un busto di gesso del Re Ferdinando II, esistente nella
Cancelleria comunale, col capo sfregiato.
Ma dai verbali di pubblica discussione non emerge
che, in questi eventi, il Rossi, difeso dall'avvocato Camillo Giosia,
avesse avuto un ruolo di primo piano. Negli interrogatori dichiarò
esser reale l'aver preso parte alla battuta di caccia dopo il casuale
incontro con i compagni e che poi, durante la cena in casa Leognani,
invitato aveva cantato la canzone della così detta "papuscia"
e della "Guardia Nazionale" e di non aver proferito parole
contro il Re ed il Governo, affermazioni tutte confermate dalle
testimonianze (11). Difatti, la sentenza emessa dalla Gran Corte
Speciale il 3 settembre 1850 mentre condannò i cospiratori Antonio
Leognani a 25 anni di ferri, Francesco Martegiani, Emanuele Cancrini,
Raffaele Menei, Giovanni De Panicis a 19 anni di ferri ciascuno, Nicola
Pigliacelli a 5 anni di prigione, inflisse ad Ambrogio Rossi solo 25
mesi di confino da scontarsi in Montesilvano (12). La pena abbastanza
mite, si ebbe anche per il benefico effetto dei "certificati di
condotta irreprensibile" richiesti dallo stesso Rossi e inviati
dalle autorità militari che lo avevano avuto alle loro dipendenze
quando era Guardia d'Onore (13) e propriamente da Reggio il Generale
Comandante le Armi Nicolò Flugi, da Napoli il Maresciallo di Campo
Giuseppe Ruffo ed il Capo Plotone il Duca d'Atri. Il Rossi era stato
proposto dal predetto Ruffo alla Real segreteria di Stato della Guerra e
Marina, approvato e nominato Guardia d'Onore dello Squadrone della
provincia di Abruzzo Ultra Primo con nota del Comando superiore di
Napoli del 16 novembre 1840 e successivamente promosso Caporale, con
risoluzione sovrana da Palermo, il 29 ottobre 1845 (14).
L'atteggiamento patriottico del Rossi, da quanto
detto, sembrerebbe contraddittorio, ma per vivere forse qualche
compromesso era necessario! Sicuramente non manifestò il carattere
acceso del padre Francescantonio che, per motivi politici non potè
essere a Teramo il 20 giugno del 1849, affidando il suo consenso al
matrimonio di Ambrogio con Aurora De Filippis Delfico ad un atto del
notaio Antonio Barnabei di Colonnella.
Aurora, educata e cresciuta in quella famiglia che,
da anni e in diverse circostanze, aveva tenacemente dato ampie prove di
patriottismo e di notevole impegno civile e che, proprio in quel
periodo, aveva visto l'esilio dei fratelli Troiano e Filippo, era
dotata di forte temperamento e di grande fede nell'unità nazionale,
ereditati dalla madre Marina che, sebbene precocemente vedova,
continuando una avita tradizione, fece della sua casa il luogo di
incontro delle maggiori personalità della vita culturale e politica
teramana.
Intanto stavano maturando i tempi per la sospirata
Italia unita. Ambrogio, nel luglio del 1860, dopo essere stato proposto
in una terna con Nicola Pompizi e Fulgenzio Lucci dal Decurionato di
Mosciano a Capo di compagnia della Guardia Nazionale con la quale aveva
partecipato, nel marzo del 1861, alla resa della fortezza di Civitella
del Tronto, ultimo baluardo borbonico, venne nominato Capitano della
stessa nella elezione tenutasi il successivo 30 maggio (15).
Anche Aurora, dal canto suo, non rimase inattiva.
Infatti, poiché il Partito d'Azione, nel quale operava attivamente il
fratello Troiano De Filippis Delfico, aveva promosso delle collette, due
delle quali sotto gli auspici di una Società Patriottica Femminile per
la raccolta di denaro o dono di un anello a favore di Garibaldi, con l'intento
di procurare i mezzi necessari per effettuare la liberazione di Roma e
di Venezia (16), essa vi aderì divenendo presidente di un Comitato
femminile abruzzese. La sua opera fu molto apprezzata tanto che lo
stesso Garibaldi, da Salò il 5 agosto 1866 le inviò una
lettera per
manifestare la propria riconoscenza, che iniziava con la seguente
espressione "Gentile Signora, Del dono e dell'Eroico ricordo io
vi son grato, o fortissime donne dell'Abruzzo…(17)".
Anche
Ambrogio ebbe un riconoscimento onorifico per il suo impegno
patriottico. Infatti, una nota del Ministero dell’Interno, datata Torino
5 giugno 1863, accompagna l’invio al Prefetto di Teramo del diploma col
quale venne insignito del titolo di Cavaliere dell’Ordine dei Santi
Maurizio e Lazzaro (18).
Concludo, infine, con una nota singolare relativa ad
Ambrogio il quale, alle sue molteplici attività ordinarie, familiari,
militari e di impegno politico, unì l'amore per il canto.
Precedentemente citato quale interprete di inni patriottici negli eventi
del 1848, si era fatto già apprezzare con successo, in qualità di
basso, con un contralto ed un tenore della Marca anconetana nell'esecuzione
di un sacro Oratorio La Giuditta, su versi di Stefano De Martinis
posti in musica da Camillo Bruschelli, composto in occasione della festa
della Madonna della Consolazione e Soccorso celebrata a Teramo dalla
Arciconfraternita dei Cinturati dal 22 al 25 settembre 1843 (19).
Fece poi parte tra il 1855 e il 1856
della Deputazione per la Musica quando si celebrò la grandiosa festa in
onore della Madonna delle Grazie e di S. Berardo con la
rappresentazione, dell'oratorio Barac, musicato da Melchiorre
De Filippis Delfico, fratello di Aurora, su libretto di Domenico
Bolognese. Alcune lettere interlocutorie tra lui e il cognato Melchiorre
che risiedeva a Napoli, testimoniano gli accordi per la messa a punto
dell'orchestra e del coro necessari all'esecuzione dell'azione
sacra (20).
Da Ambrogio ed Aurora discenderanno ben
dodici
figli.
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Stemma
famiglia Rossi
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