De Filippis

 

De Filippis-Delfico

 

(Teramo, 1820)

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Stemma famiglia De Filippis-Delfico, Teramo, 1820

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Delfico

(Napoli, sec. XVIII)

(Teramo, sec. XV)

Stemma famiglia De Filippis, Napoli, sec.XVIII

Stemma famiglia Delfico, Teramo, sec.XV

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La "Pescara" di Melchiorre Delfico

di Gabriele Carletti

Introduzione a  La "Pescara" di Melchiorre Delfico, Pescara, Edizioni Tracce, 1999, pp. 5-22

Ad una nuova concezione della cultura e dell’intellettuale, la cui attività sia, come diceva Genovesi, «più pratica che teoria» (1), si ispirano gli scritti di Melchiorre Delfico (2).

Soprattutto durante il secondo soggiorno napoletano, iniziato nel 1778, a dieci anni di distanza dalla fine del primo(3), nel corso del quale ha modo di rinsaldare i legami con gli ambienti riformatori della capitale e stringere rapporti con vari esponenti del movimento illuminista meridionale, Delfico matura la convinzione che la provincia possa imprimere un nuovo e maggiore impulso alla politica governativa. È il momento in cui egli avverte la necessità di una ridefinizione del rapporto tra capitale e province, tra i centri periferici più sani ed attivi e quella Napoli corrotta ed inerte il cui governo sembra disattendere le aspettative di quanti nella scelta di un deciso programma di riforme confidano per un cambiamento dell’assetto sociale esistente.

Un’esigenza, questa, che lo renderà «uno dei più veramente cosmopoliti» e al tempo stesso «dei più autenticamente provinciali» (4) tra i riformatori meridionali della seconda metà del Settecento. Rappresentante di quell’ala della  scuola genovesiana meno utopistica e filosofica, ma ugualmente antifeudale e più legata a problemi concreti e immediati del Regno napoletano, che affonda le sue radici nelle province, Delfico sarà uno dei «primi scrittori meridionalisti» (5) per avere, di fronte alla dicotomia tra centro e periferia, tra città e campagna, difeso strenuamente gli interessi della provincia contro le usurpazioni della capitale, gli interessi della società contro le prerogative dello stato e del potere ecclesiastico, dando vita ad una prima forma di autonomismo meridionale (6). Se da un lato infatti l’illuminista teramano seguirà le idee filosofiche di Locke, di Condillac e degli idéologues, fino a divenire «il rappresentante più fedele in Italia dello spirito francese del secolo decimottavo» (7), e con questo impianto empiro-sensistico egli affronterà i grandi temi della politica e successivamente quelli della giurisprudenza, della storia, della imitazione, della perfettibilità e del bello, dall’altro manterrà viva la lezione genovesiana non perdendo mai l’interesse per i problemi concreti e specifici della società civile.

Alle due Memorie (8) giovanili, con le quali Delfico inaugura nel 1768 la sua attività di scrittore, in difesa dei diritti del Regno di Napoli sui territori di Benevento e di Ascoli Piceno contro le pretese giurisdizionali del pontefice su quei possedimenti, segue un'intensa stagione che vede l’illuminista teramano farsi promotore di numerose riforme (9).

Del 1782 è il Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale (10), dedicato all’amico Filangieri, in cui la questione militare acquista rilevanza politica, avendo intuito l’Autore l’importanza che una buona costituzione militare poteva assumere per la vita di uno Stato. Criticando lo «spirito di corpo» dei militari, quel «sentimento dissociale» che li porta a disprezzare la vita civile e che fa di loro una classe di privilegiati distinta dal corpo sociale, egli mira a riqualificare il ruolo del soldato all’interno della società, non soltanto in tema di sicurezza, ma anche, soprattutto, di progresso civile, riunendo, sull’esempio di Rousseau (11), la qualità di soldato a quella di cittadino, così che i due termini diventino sinonimi fra loro (12).

Nel 1788 Delfico pubblica il Discorso sul Tavoliere di Puglia (13) con il quale, condannando le concentrazioni latifondiste e il mantenimento delle rendite, rivendica la divisione di quelle terre in favore dei contadini e un diverso ruolo dell’agricoltura, non più limitata e subordinata alla pastorizia. Dello stesso anno è anche la Memoria per la vendita de’ beni dello Stato d’Atri (14), in cui egli esprime un secco rifiuto della giurisdizione feudale in nome dei principi roussoiani di indivisibilità e inalienabilità della sovranità fino a ritenere qualsiasi forma di alienazione o di usurpazione della sovranità stessa «non solo un atto nullo, ma anche ingiusto» (15). 

Si coglie in questi scritti non soltanto la totale adesione di Delfico al liberismo, ma anche la sua piena consapevolezza del ruolo che lo Stato è chiamato a svolgere in favore di un sistema economico imperniato sulla libertà di scambio. Un rapporto, quello tra Stato ed economia di mercato, che Delfico affronta anche nella Memoria sulla libertà di commercio (16), in cui esalta il principio del laissez-faire contro le regolamentazioni e le restrizioni del sistema mercantile. Il rifiuto di «ogni coazione economica» si fonda per lo scrittore teramano sulla convinzione che la libertà (di produzione, di consumo, di commercio, di concorrenza) favorisca un progresso e uno sviluppo economico tali da recare benefici sia ai privati cittadini che allo Stato stesso. È solo attraverso la rimozione di tutti i controlli governativi che ostacolano l’allargamento del mercato e impediscono che le attività economiche si svolgano nei modi loro naturali che la scienza economica riesce a far fronte al suo duplice compito di mantenimento dello Stato e di accrescimento della ricchezza e del benessere individuali.

Il problema dello sviluppo economico si salda così, nelle riflessione delficina, ad una più generale esigenza di trasformazione dell’assetto politico-economico-giuridico della società civile, e l’interesse privato coincide con quello pubblico, i bisogni del singolo si identificano con quelli della collettività.

Lo scoppio della rivoluzione francese e la fiducia che essa favorisca il progetto riformatore e che possa portare finalmente a maturazione le questioni da tanto tempo sollevate e discusse indurrà Delfico agli inizi degli anni Novanta a condurre con maggior vigore la battaglia antifeudale e l’attacco contro le strutture stesse del sistema e ad esprimere una condanna più perentoria e radicale del regime feudale. Gli eventi rivoluzionari d’oltralpe non fanno che rafforzare in lui la convinzione della necessità di attuare un organico piano di riforme, anche al fine di evitare l’estendersi dell’ondata rivoluzionaria agli Stati italiani. La rivoluzione di Francia rappresenta dunque «un esempio favorevole per i Principi savj» affinché non indugino più sulla strada delle riforme.

Rianimato da queste speranze, nel dicembre del 1789 Delfico si trasferisce nella capitale partenopea (17), dove pubblica le Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de’ suoi cultori (18) che rappresentano «la più forte manifestazione del pensiero illuministico italiano nei confronti del diritto romano» (19), cui viene negato ogni valore. Ad emergere è l’idea di un sistema legislativo nuovo, «uguale ed uniforme per tutti gl’individui» (20), che a differenza di quello vigente, troppo legato alla tradizione romana, risulti più inerente «all’indole delle nazioni e dei governi presenti» (21).

Sull’esempio di quanto accadeva oltralpe, Delfico rivendica, accanto ad una legislazione stabile e regolare, una legittima costituzione «che ne sia il presupposto e ne costituisca il necessario fondamento» (22). Lo stato che egli predilige è di tipo costituzionale e rappresentativo, fondato sull’uguaglianza delle leggi, sulla divisione dei poteri, sul conferimento dell’autorità legislativa al popolo, sulla rappresentanza politica senza restrizioni di rango o di censo e sul decentramento dell’amministrazione della giustizia attraverso lo stabilimento di magistrature locali e provinciali.

La determinazione di imprimere un nuovo impulso alla politica del governo napoletano non impedisce tuttavia a Delfico di attivarsi presso le Segreterie della capitale per sollecitare iniziative e soluzioni di problemi riguardanti la sua provincia. Non sempre però le sue istanze trovano il riscontro desiderato. Se, dopo varie insistenze, aveva ottenuto il ripristino a Teramo del «Tribunale collegiato» (23), in luogo dei magistrati unici, «più agevolmente  portati  all’abuso  del  potere» (24),  non altrettanta fortuna incontreranno invece le sue richieste di abolizione della servitù degli Stucchi (25) e di istituzione di una piccola Università a Teramo (26).

L’impegno riformatore in favore della sua terra porterà Delfico ad interessarsi anche di Pescara in due scritti, dal titolo Fiera franca in Pescara e Breve cenno sul progetto di un porto da costruirsi alla foce del fiume Pescara.

Della città adriatica l’illuminista teramano si era occupato la prima volta negli anni Ottanta del secolo XVIII nella pur breve ma incisiva ricognizione geografico-economica del tratto costiero «desolato» che va dal Fortore al Tronto (27). Riferendosi a Pescara («antico emporio di popoli liberi» e «principale baluardo della Corona e dello Stato» (28)) egli denunciava la persistenza di un forte «giogo baronale» che costringeva i sudditi a sottostare più all’arbitraria dipendenza dei signori che all’autorità del Sovrano. Di fronte a così grave alterazione «come si può sperare – commentava lo scrittore abruzzese -, che gli animi si elevino ai desideri d’una migliore esistenza e che sviluppino un vero spirito di Patriottismo; che si nobilitino d’un vero coraggio marziale; che ravvisino con chiarezza e precisione li normali doveri, se il fantasma d’una mostruosa ed irregolare Autorità abbaglia di continuo le loro menti e le tiene nella bassezza e nell’avvilimento» (29).

Con gli scritti su Pescara l’Autore si prefigge di «rilanciare le attività produttive in questa zona ancora emarginata del Regno» (30). La scarsa fertilità del suolo, le difficili comunicazioni commerciali e civili, la carenza di ricchezze naturali rendono più che mai necessario l’avvio di un processo economico in grado di «produrre nuovi beni» (31), nonché di migliorare le condizioni degli abitanti di quei luoghi.

Decisivo gli appare a tal proposito un rilancio del commercio, considerato «la sola sorgente inesausta della ricchezza e floridezza delle Provincie» (32), non senza però aver prima creato le condizioni e le strutture necessarie per facilitarlo. Una di queste potrebbe essere la realizzazione di un grande emporio o fiera franca, che non solo ridurrebbe sensibilmente le frodi e il contrabbando, ma assicurerebbe un notevole afflusso di merci, di provenienza anche straniera, senza l’imposizione di alcun dazio di importazione, che eviterebbe ai negozianti, ai mercanti e a molti proprietari abruzzesi di rivolgersi, non senza grave danno, ai mercati dello Stato pontificio di Fermo, di Ascoli o a quello più grande e lontano di Senigallia. Tutto ciò non farebbe che ripercuotersi favorevolmente sul commercio che potrebbe così finalmente «divenir attivo» (33) e moltiplicare i capitali e far nascere nuove attività economiche o migliorare e accrescere quelle esistenti.

Né Delfico teme che la realizzazione di una fiera franca a Pescara possa alimentare rivalità e gelosie fra i popoli né trovare ostacoli di ordine politico, militare o fisico poiché la scelta di Pescara, in passato caduta su Giulianova, senza però «alcun effetto felice» (34), era dettata dal fatto che la città adriatica, essendo fornita di fortezza con stabile guarnigione, avrebbe più facilmente assicurato la custodia delle merci, cosa importante sia per la sicurezza delle finanze che per il mantenimento dell’ordine pubblico. Le difficoltà maggiori sarebbero semmai venute dall’esistenza a Pescara soltanto di un «semplice canale» piuttosto che di un «comodo porto» (35) in grado di accogliere le imbarcazioni di stazza superiore.

La creazione di uno moderno scalo marittimo alla foce del fiume Pescara costituisce l’oggetto della riflessione che Delfico conduce nel Breve cenno. L’idea che il «mare anziché separare riavvicini le Nazioni fra loro» (36) permettendo «infinite comunicazioni» tra i popoli, costituisce la determinazione dalla quale lo scrittore teramano muove per sostenere l’utilità che la creazione di un porto sicuro per i naviganti rivestirebbe per l’incremento del commercio e per lo sviluppo economico in generale. La scelta di Pescara quale centro di scalo portuale trova giustificazione nel fatto di avere la cittadina adriatica il fiume con la foce più ampia (37) e di essere «punto centrale nel litorale degli Abruzzi» (38), crocevia delle tre principali strade, l’una diretta verso Napoli, le altre, entrambe costiere, in direzione la prima verso lo stato pontificio, la seconda verso le province meridionali. Non solo, ma sarebbe anche l’unico porto ad avvalersi di una «piazza forte» che renderebbe sicuro il trasporto e la conservazione delle merci. Così il porto di Pescara potrebbe riacquistare quell’importanza che aveva avuto un tempo quando era conosciuto con il nome di Ostia Aterni e gli imperatori romani vi avevano fatto confluire le tre strade, la Claudia, la Flaminia e la Frentana per agevolarne gli scambi commerciali (39).

Nessun ostacolo alla realizzazione dell’opera sembra a Delfico veramente insormontabile. Di fronte alle difficoltà esistenti, legate alle caratteristiche della costa adriatica priva di insenature naturali, egli propone una serie di rimedi tecnici che vanno dalla formazione di due banchine, da ambo i lati del fiume, che dal tronco inferiore della piazza forte giunga fin dentro il mare, per aumentare la velocità delle acque; alla creazione di una scogliera per proteggere la foce del fiume dal vento impetuoso proveniente da nord-est; alla costruzione di un sistema di chiuse che permetta sia di mantenere costante la profondità delle acque sia, una volta aperte, di rendere la corrente più veloce.

Lo stesso irresponsabile disboscamento delle colline, a cui Delfico assiste «con dolore» (40) per l’effetto deleterio che esso provoca sul territorio in quanto accresce il pericolo di frane e di allagamenti, risulterebbe invece essere addirittura vantaggioso nel caso di Pescara poiché farebbe aumentare notevolmente la corrente e la profondità del suo fiume.

Né deve destare preoccupazione l’entità della spesa che dovrà essere sostenuta poiché la creazione del porto rappresenta «il più sicuro mezzo - ribadisce Delfico - per arricchire, e popolare di nuovo queste contrade» (41), l’occasione più che mai unica per produrre la «ricchezza individuale» degli abitanti, non solo di Pescara ma anche dei paesi vicini, e al tempo stesso la «floridezza degli Abruzzi» (42). Anche in questa occasione dunque l’intellettuale teramano sembra non discostarsi da quella convinzione che aveva manifestato all’inizio della sua attività di scrittore quando aveva affermato: «Tanto è più grande un’idea quanto maggiori verità illumina e produce; tanto è più grande un bene, quanto è più facilmente fecondo di analoghi prodotti; e tanto è più meravigliosa un’operazione politica ed utile, quanti maggiori beneficj rispande dal centro a tutta la circonferenza sociale» (43).

Non è escluso che Delfico abbia assegnato a Pescara un ruolo centrale per il rilancio delle attività economiche in Abruzzo in considerazione anche di quella primazia  politica e militare che la città aveva avuto durante le vicende rivoluzionarie di fine Settecento.

Con il proclama del 28 dicembre 1798, il generale Duhesme, comandante delle truppe francesi operanti sull’Adriatico (44), aveva diviso il territorio regionale in due Dipartimenti, Alto e Basso Abruzzo, con capoluoghi rispettivamente Teramo e Chieti, ciascuno dei quali governato da un’Amministrazione Centrale, composta di tre membri, e articolato in cantoni, a loro volta retti da un Municipalità di cinque membri. Venne inoltre istituito un Consiglio Superiore, con sede a Pescara, che avrebbe dovuto fungere da raccordo tra il comando francese e i due nuovi organismi repubblicani. Ridenominato, il 12 gennaio 1799, "Supremo" e ridotti i suoi membri da cinque a tre dal nuovo comandante in capo, generale Coutard, il Consiglio, di cui fecero parte i lancianesi Carlo Filippo De Berardinis e Antonio Madonna ed alla cui presidenza venne chiamato Melchiorre Delfico, entrò in funzione subito dopo (45) e svolse la sua attività non oltre la fuga del suo presidente da Pescara avvenuta il 28 aprile successivo.

Il Consiglio Supremo era l’organo politico più importante esistente in Abruzzo, quello in cui risiedeva la «suprema potestà legislativa ed esecutrice del Governo politico ed economico» (46) dei due Dipartimenti.

Non vi è dubbio che la collaborazione di Delfico con i Francesi, per quanto «pie-na e convinta» (47), vada vista come il tentativo di reinserirsi nel giro di quella politica attiva (48), nella quale egli da sempre confida. Non crediamo invece che tale partecipazione  segni  il passaggio dello scrittore teramano dalla prospettiva monarchico-riformistica a quella repubblicano-giacobina (49).

Tensioni ideali e finalità pratiche continuano ad essere, anche durante la parentesi repubblicana, le stesse che lo hanno animato in tante battaglie del passato. Anche il Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia pei Tribunali  dei Dipartimenti e Giudici dei Cantoni del 24 piovoso anno VII (12 febbraio 1799), l’atto legislativo più rilevante del Consiglio Supremo col quale viene introdotto un nuovo ordinamento giudiziario e in cui maggiore è l’istanza egualitaria (50), non sembra discostarsi da certi suoi principi e aspirazioni precedentemente espressi.

Il Piano, che si inserisce fra i provvedimenti di riforma del sistema giudiziario adottati dalla Repubblica napoletana(51), sanciva, in nome delle idee di libertà e di eguaglianza, il decentramento dell’autorità giudiziaria, prevedendo un giudice per ogni capoluogo di cantone e un tribunale per ogni capoluogo di dipartimento; l’amministrazione  gratuita della giustizia e la corresponsione di uno stipendio ai giudici e a tutti coloro che collaboravano all’attività giudiziaria; l’assistenza gratuita ai poveri; la «prontezza» e «l’imparzialità» dei giudici nell’applicazione delle norme; l’abolizione della carcerazione per debiti, a meno che non venisse provata la «frode» del debitore; il controllo dell’attività giudiziaria nonché la possibilità di ricorrere in appello.

Erano questi i tratti salienti del provvedimento con il quale Delfico, che ne era l’ispiratore, mirava a ristabilire quella «pubblica tranquillità» e quella «sicurezza», necessarie per il raggiungimento della «felicità dell’uomo sociale» (52), che costituiva l’oggetto costante e principale dei suoi pensieri.

Assicurare «la condizione civile delle persone» era l’intento che Delfico si prefiggeva anche nel Proclama sulla sicurezza pubblica del 15 ventoso anno VII (5 marzo 1799), con il quale si stabiliva l’obbligo per tutti di munirsi di un documento di identità e per i militari del vecchio esercito borbonico di dichiarare al comando francese i propri mezzi di sussistenza, mentre ai militari forestieri era rivolto l’invito ad arruolarsi nell’esercito repubblicano. Tutti coloro che avessero contravvenuto alle disposizioni, sarebbero stati considerati «oziosi e vagabondi» (53).

Nel Proclama, come pure nel Piano, si fa riferimento ad un precedente proclama del 15 piovoso anno VII (3 febbraio 1799) riguardante la concessione dell’indulto per determinati reati. Il suo contenuto resta tuttavia sconosciuto, essendo il testo tuttora irreperito.

Il 23 gennaio 1799, il comandante in capo Championnet, occupata Napoli, aveva nominato Delfico membro del Governo Provvisorio della Repubblica partenopea assegnandolo al Comitato delle Finanze e il 14 aprile egli fu scelto a far parte, assieme a Giuseppe Abbamonte, Giuseppe Albanese, Ignazio Ciaja ed Ercole D’Agnese, della Commissione Esecutiva istituita dal commissario del governo francese Abrial (54). Ma nella Capitale egli non potrà recarsi mai a causa delle insorgenze antifrancesi. Di qui il rammarico per non poter partecipare all’attività legislativa del Governo Provvisorio (55) a cui muove l’accusa di aver non solo «abbandonato» ma addirittura «obliato» le province abruzzesi, lasciando che ovunque si verificassero «le più ferali tragedie» ad opera di briganti e di scorribande antifrancesi (56).

Non è da escludere a questo punto che proprio durante il periodo pescarese Delfico abbia elaborato, secondo una prassi piuttosto diffusa in Italia nel triennio rivoluzionario, una Tavola dei Dritti e dei Doveri dell’uomo e del Cittadino. Il testo, che si ispira alle Dichiarazioni francesi dei diritti del 1789, del 1793 e del 1795, proclama l’uguaglianza davanti alla legge; riconosce i diritti inalienabili di libertà, sicurezza, proprietà, resistenza all’oppressione e i doveri inviolabili di subordinazione, benevolenza, giustizia e obbedienza alle leggi. Fa risiedere la sovranità nella Nazione, cui spetta, attraverso i suoi rappresentanti, emanare le leggi, stabilire le imposizioni, cambiare la costituzione e il governo. Ritiene la legge l’espressione della volontà generale e afferma, in linea con quanto sostenuto anche nel Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia, la responsabilità dei funzionari pubblici. Ammette la possibilità di armarsi contro ogni forma di manifesta violenza e di tirannia e non esclude il ricorso all’insurrezione, ma solo in casi estremi, mentre condanna le rivolte e i perturbatori dell’ordine pubblico, per odio forse  delle sommosse che si stavano verificando agli inizi del ’99 e di quanti sobillavano le masse contro le nuove istituzioni.

Il 28 aprile 1799, di fronte al crescente stato di abbandono delle province abruzzesi e alla partenza dei Francesi da Teramo, Delfico preferisce, prima ancora della caduta della Repubblica napoletana, lasciare Pescara (57) e sotto il falso nome di Carlo Cauti riparare via mare nelle Marche, per poi raggiungere nel settembre successivo San Marino (58). Nella piccola Repubblica rimarrà fino al 1806, quando Giuseppe Bonaparte, divenuto re di Napoli, in giugno lo chiamerà al suo fianco con la carica di consigliere di Stato. Il decennio successivo segnerà l’apice della sua carriera politica (59), cui seguirà, a partire dal 1815, un graduale abbandono della vita politica, fino al definitivo allontanamento dagli ambienti governativi agli inizi degli anni Venti.

Il periodo che segue vede Delfico impegnato sul piano intellettuale a contrastare la politica restauratrice a cui la ricomposizione della vecchia alleanza tra trono e altare stava dando vita, soprattutto nel Regno napoletano, con il pericolo di renderlo «stazionario» se non addirittura di farlo regredire, vanificando così quel processo di sviluppo economico e di trasformazione sociale che lentamente, aveva scritto (60), stava facendo «risorgere» il Paese.

È in questo clima culturale che si collocano i due scritti su Pescara, la cui importanza non è soltanto nell’idea che Delfico ha della creazione di un grande polo commerciale e di un altrettanto importante scalo marittimo, ma anche e soprattutto nella necessità di continuare ad assicurare al genere umano quel progressivo avanzamento verso «l’umana perfettibilità» cui sembra essere destinato. E questo tanto più ora che, diversamente dal passato, la realizzazione di forme e di condizioni di vita civile più elevate sembra dipendere, per lo scrittore teramano, assai più che dal favore delle circostanze o dalla «bontà» di un principe illuminato, dalla convinzione che i cittadini possano e debbano essere loro stessi gli artefici del miglioramento del proprio «ben essere»  e di quello della propria esistenza.

 

Avvertenza per i lettori

In riferimento a quanto riportato in nota (*) gli scritti di Melchiorre Delfico saranno pubblicati a breve su questo sito.

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(*) Di seguito alla Introduzione vengono riproposti i due scritti di Melchiorre Delfico su Pescara, dal titolo Fiera franca in Pescara del 1823 e Breve cenno sul progetto di un porto da costruirsi alla foce del fiume Pescara del 27 aprile 1825, pubblicati nelle Opere complete, 4 voll., Teramo, Fabbri, 1901-1904, a cura di G. Pannella e L. Savorini, rispettivamente, vol. IV, pp. 293-305 e vol. III, pp. 631-44. Gli scritti appartengono all’ultimo periodo di Delfico, quello in cui, dopo aver abbandonato nella primavera del 1823 Napoli per non farvi più ritorno, si trasferisce ormai ottuagenario a Teramo, dove trascorre il resto della vita, continuando a scrivere e a studiare.

Vengono inoltre ripubblicati i due documenti appartenenti al soggiorno di Delfico a Pescara durante gli eventi rivoluzionari del 1799, Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia pei Tribunali  dei Dipartimenti e Giudici dei Cantoni del 24 piovoso anno VII (12 febbraio 1799) e il Proclama sulla sicurezza pubblica del 15 ventoso anno VII (5 marzo 1799), pubblicati da R. Persiani, Alcuni ricordi politici nella massima parte abruzzesi al cadere del XVIII e principio del XIX secolo con documenti e note, in «Rivista abruzzese di scienze, lettere ed arti», a. XVII (1902), fasc. VII-VIII, pp. 435-9 e 441-2.

Infine viene riprodotta la Tavola dei Dritti e dei Doveri dell’uomo e del Cittadino, la cui stesura risale molto probabilmente al periodo pescarese di Delfico, rimasta a lungo inedita e pubblicata da G. Carletti, Melchiorre Delfico. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale, Pisa, ETS, 1996, pp. 138-9.

(1) A. Genovesi, Lettere accademiche su la questione se sieno più felici gl’ignoranti che gli scienziati (Napoli 1764), Lettera XI, in Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G. Savarese, Milano, Feltrinelli, 1962, p. 497. Improntato ad una «filosofia tutta reale», «tutta di cose» è anche l’altro scritto genovesiano, considerato il manifesto dell’illuminismo napoletano, Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, pubblicato a Napoli nel 1753.

(2) Cfr. M. Delfico, Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, Napoli, presso Vincenzo Orsino, 1784, ora in Opere complete, cit., vol. III, p. 244, in cui rivendica il carattere pragmatico della cultura e l’impegno dell’intellettuale di addentrarsi nei problemi concreti della società civile.

(3) Tra la fine del 1777 e l’inizio del 1778 Delfico incorre in uno spiacevole episodio con le autorità provinciali. Soprattutto a causa del vescovo Luigi Pirelli e dell’assessore Giacinto Dragonetti, con cui pure aveva avuto rapporti di amicizia, è ingiustamente inquisito e condannato per la fuga di certe monache dal monastero di S. Matteo di Teramo. L’exequatur del Tribunale del capoluogo abruzzese (5 febbraio 1778) con il conseguente ordine di carcerazione, emesso nei confronti suoi e di altri «lajci seduttori», presunti responsabili dell’insubordinazione, lo costringono ad allontanarsi dalla città e a recarsi a Napoli, dove rimarrà circa tre anni, fino alla conclusione della vicenda giudiziaria, giunta con l’indulto regio del 17 giugno 1780. A Napoli Delfico si era recato la prima volta nel 1758, assieme ai fratelli maggiori Giamberardino e Gianfilippo, per completare gli studi. Dal capoluogo partenopeo, dove aveva avuto modo di seguire le lezioni di Antonio Genovesi, era andato via, per far ritorno a Teramo, nel 1768 perché malato di emottisi.

(4) F. Venturi, Nota introduttiva (a M. Delfico), in Riformatori napoletani, t. V degli Illuministi italiani, Milano-Napoli, Ricciardi, 1962, p. 1161.

(5) Cfr. A. Garosci, San Marino. Mito e storiografia tra i libertini e il Carducci, Milano, Comunità, 1967, p. 171.

(6) Per una ricognizione critica degli studi delficini, cfr. G. Carletti, Recuperi, oblii e prospettive. Per una storica critica della storiografia delficina, in «Trimestre», a. XX (1987), nn. 1-2, pp. 5-40.

(7) G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi, Napoli, Edizioni della «Critica», 1903, p. 34. Sull’influenza che l’idéologie française esercita sul Teramano, cfr. anche E. Rota, Razionalismo e storicismo. (Rapporti di pensiero tra Italia e Francia avanti e dopo la Rivoluzione francese), in «Nuova rivista storica», a. I (1917), fasc. II, pp. 301-3; G. Capone Braga, La filosofia francese e italiana del Settecento, Arezzo, Edizioni delle «Pagine critiche», 1920, vol. II, soprattutto il paragrafo Il Delfico e gl’ideologi, pp. 184-203; M.F. Sciacca, La filosofia nell’età del Risorgimento, Milano, Vallardi, 1948, pp. 152-61.

(8) M. Delfico, Intorno a’ dritti sovrani di Napoli sulla città di Benevento (tuttora inedita, esiste una copia autografa presso l’Archivio di Stato di Teramo, «Fondo Delfico», b. 16, fasc. 178, dal titolo Del territorio beneventano) e Saggio storico delle ragioni dei Sovrani di Napoli sopra la città d’Ascoli d’Abruzzo oggi nella Marca, ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 9-80.

(9) Sul riformismo delficino, cfr. V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano (1777-1798). L’attività di Melchiorre Delfico presso il Consiglio delle Finanze, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1981.

(10) Teramo 1782, ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 151-75.

(11) Cfr. J.-J. Rousseau, Considérations sur le gouvernement de Pologne et sur sa réformation projettée (1771), in Oeuvres complètes, vol. III, Paris, Gallimard, 1964, p. 1014.

(12) Nell’anno successivo Delfico pubblica la Memoria sulla coltivazione del riso nella provincia di Teramo, Napoli, Porcelli, 1783 (ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 183-217), certamente tra gli scritti economici più interessanti di quegli anni, a cui segue la Memoria sul Tribunale della Grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti del Regno, Napoli, Porcelli, 1785 (ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 265-323), considerata, assieme a pochi altri testi, «il vangelo» del liberismo napoletano dell’epoca. Due anni dopo vede la luce la Memoria sulla necessità di rendere uniformi i pesi, e le misure del Regno, Napoli, Porcelli, 1787 (ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 331-53).

(13) M. Delfico, Discorso sul Tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma, Napoli 1788, ora in Opere complete, cit., vol. III, pp. 359-96.

(14) La Memoria è pubblicata in appendice al volume di a. M. Rao, L’«amaro della feudalità». La devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli alla fine del ’700, Napoli, Guida, 1984, pp. 349-67.

(15) M. Delfico, Memoria per la vendita de’ beni dello Stato d’Atri, cit., p. 354.

(16) Scritta tra il 1789 e il 1790, su invito dell’Accademia di Padova agli scrittori italiani di occuparsi del problema della libertà di commercio, la Memoria fu stampata la prima volta nel 1805 a Milano, presso Destefanis, nel t. XXXIX della raccolta Scrittori classici italiani di economia politica, a cura di P. Custodi. L’opuscolo è stato recentemente riedito (Teramo, De Petris, 1985) con un’introduzione di M. Finoia. Sul problema Delfico tornerà alcuni anni dopo con il Ragionamento su le carestie, composto, affermerà, «solo per dare qualche eccezione agli eccessivi principii di libertà in economia» (lettera a Luigi Dragonetti del 10 luglio 1826, in Spigolature nel carteggio letterario e politico del march. Luigi Dragonetti, a cura del marchese G. Dragonetti suo figlio, Firenze, Uffizio della Rassegna Nazionale, 1886, p. 121). Il testo, letto il 1° dicembre 1818 nella Reale Accademia delle Scienze di Napoli e pubblicato nel 1825 negli Atti dell’Accademia stessa (vol. II, parte I, pp. 3-43) è stato riedito a Teramo nel 1985 assieme alla Memoria sulla libertà del commercio. Di fronte al «terribile flagello» della carestia che ricompare «sovente inaspettato, furibondo, irreparabile» (ivi, p. 47), lo scrittore abruzzese apporta alcune «modificazioni e moderazioni» al principio della libertà assoluta e illimitata di commercio, auspicando nel mercato l’intervento diretto dello Stato, cui riconosce il compito di prevenire in futuro il ritorno di simili avvenimenti.

(17) Delfico aveva lasciato Napoli nel giugno del 1788 e nel novembre successivo era partito alla volta di Pavia per accompagnare il nipote Orazio all’Università. In Lombardia si trattenne fino a giugno dell’anno successivo per poi trasferirsi prima a Verona, dove rimase due mesi, e in seguito a Vicenza, Padova, Venezia e Ferrara, finché nel novembre del 1789 fece ritorno nella città natale. Su questo viaggio e sui legami di amicizia che ebbe modo di stringere e di rinsaldare, cfr. G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di Melchiorre Delfico. Libri due, Teramo, Angeletti, 1836, p. 25 sgg.

(18) L’opera, che provocò subito «molto chiasso», sia per le reazioni della classe togata, sia per gli elogi che ricevette da più parti, fu pubblicata a Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli, nel 1791 e fu ristampata a Firenze nel 1796 e una terza volta di nuovo a Napoli nel 1815.

(19) C. Ghisalberti, La giurisprudenza romana nel pensiero di Melchiorre Delfico, in «Rivista italiana per le scienze giuridiche», a. VIII (1954), vol. VII, parte II,  p. 432. Sullo sviluppo in Italia nella seconda metà del Settecento di una letteratura critica della legislazione romana, cfr. R. Bonini, Crisi del diritto romano, consolidazioni e codificazioni nel Settecento europeo, Bologna, Pàtron, 1988, in cui viene analizzata anche la posizione  di Delfico (pp. 145-67).

(20) M. Delfico, Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana, in Opere complete, cit., vol. I, p. 225.

(21) Ivi, p. 105.

(22) C. Ghisalberti, Le costituzioni «giacobine» (1796-1799), Milano, Giuffrè, 1957, p. 43. Per lo scrittore teramano le costituzioni rappresentano «le condizioni necessarie per la buona esistenza delle civili società», poiché impediscono gli abusi di potere e assicurano i diritti individuali e la tutela dei cittadini e dei loro beni. Cfr., in proposito, alcuni appunti delficini, dal titolo redazionale Idee per una costituzione, pubblicati da A. Marino, Scritti inediti di Melchiorre Delfico, Chieti, Solfanelli, 1986, pp. 126-30.

(23) Si veda a questo proposito la lettera di Delfico a Fortis del 30 novembre 1787, da Caserta, in M.G. Riccobono, Contributo per l’epistolario di Melchiorre Delfico, in «Rassegna della letteratura italiana», a. 87 (1983), serie VIII, n. 3, pp. 405-6. La richiesta di ripristino del Tribunale, presentata nel 1786, fu esaudita soltanto all’inizio del 1788.

(24) M. Delfico, Memoria per il ristabilimento del Tribunale Collegiato nella Provincia di Teramo (1786), pubblicata da V. Clemente, Rinascenza teramana, cit., pp. 255-7. La citazione è a p. 255.

(25) Ciò che Delfico chiedeva, sin dal 1786, era l’abolizione del «diritto del pascolo invernale» nei paesi costieri dell’Abruzzo, a causa del quale i proprietari erano costretti a tenere i loro terreni esclusivamente a pascolo per un periodo molto lungo dell’anno, dal 29 settembre all’8 maggio, con grave pregiudizio per l’agricoltura. Del problema si occuperà anche negli anni successivi, ma solo alla fine del ’93 otterrà qualche riscontro presso le autorità locali. Cfr. R. Di Antonio, Stucchi e Doganelle nel teramano, Teramo, Libera Università Abruzzese degli Studi «G. D’Annunzio», Facoltà di Scienze Politiche, 1978, la quale pubblica in appendice alcuni inediti delficini, la Memoria sugli Stucchi e le Memorie su di un nuovo sistema per le Doganelle.

(26) La richiesta al Sovrano di una Università di Studi venne avanzata da Delfico agli inizi di maggio del 1788 con la Memoria per lo stabilimento di una Università in Teramo, tuttora irreperita. Accolta favorevolmente la proposta, il re chiese il parere alla Real Camera che, a sua volta, decise di interpellare il Tribunale di Teramo, sentito il vescovo. Alla Consulta negativa della Real Camera, cui si conformò successivamente lo stesso Sovrano, Delfico replicò invano. Sul progetto si tornerà soltanto nel 1808 quando, soppressi i conventi della città, sarà proposto di fondare una Università nel monastero di S. Matteo e una Accademia di Scienze nel convento dei cappuccini. Nascerà allora il «Real Collegio», inaugurato il 23 gennaio 1814, nel quale verrà istituito nel 1817 una «Cattedra di Giurisprudenza». Cfr., in proposito, G. Carletti, Introduzione a M. Delfico, Una "piccola" Università a Teramo, Teramo, Quaderni dell’Università di Teramo, 1999, n. 6, pp. 3-7.

(27) Il testo è stato pubblicato da L. Tossini, Una lettera inedita di Melchiorre Delfico a Michele Torcia, in «Nord e Sud», a. XXIV (1977), terza serie, n. 31-32, pp. 191-9. La lettera è datata Teramo, 7 ottobre 1784.

(28) Ivi, p. 196.

(29) Ivi, pp. 196-7.

(30) F. Masciangioli, Melchiorre Delfico e Pescara. Per una storia del rapporto tra intellettuali ed esperienze giacobine in Abruzzo, in «Trimestre», a. XX (1987), nn. 1-2, p. 68.

(31) M. Delfico, Fiera franca di Pescara, cit., p. 305.

(32) M. Delfico, Breve cenno, cit., p. 633.

(33) M. Delfico, Fiera franca di Pescara, cit., p. 302.

(34) Ivi, p. 296.

(35) Ivi, pp. 296 e 299.

(36) M. Delfico, Breve cenno, cit., p. 634.

(37) Cfr. ivi, p. 636.

(38) Ivi, p. 642.

(39) Cfr. ivi, pp. 642-4.

(40) Ivi, p. 639.

(41) Ivi, p. 644.

(42) Ivi, p. 642.

(43) M. Delfico, Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, cit., p. 154.

(44) I Francesi, al comando del generale Rusca, erano entrati in Abruzzo il 6 dicembre 1798. L’11 dicembre erano arrivati a Teramo dove avevano liberato Melchiorre Delfico che, accusato di cospirazione antimonarchica, si trovava in arresto nel proprio palazzo assieme a tutta la famiglia dal 27 settembre, e lo avevano posto a capo della Municipalità cittadina. Messi in fuga dai rivoltosi, le truppe francesi avevano riconquistato la città il 23 dicembre, per poi occupare Pescara, Sulmona e Penne il 24 e Chieti il 25. Per una ricostruzione di queste vicende, fondamentale resta l’opera di L. Coppa-Zuccari, L’invasione francese negli Abruzzi (1798-1810), voll. I e II, L’Aquila, Vecchioni, 1928, voll. III e IV, Roma, Tip. Consorzio Nazionale, 1939.

(45) Cfr., in proposito, M. Battaglini, Abruzzo 1798-1799. Una repubblica giacobina, in «Rassegna storica del Risorgimento», a. LXXV (1988), fasc. I, pp. 11-2, ora in La Repubblica napoletana. Origini, nascita, struttura, Roma, Bonacci, 1992, pp. 188-9.

(46) M. Battaglini, Atti, leggi, proclami ed altre carte della Repubblica napoletana 1798-1799, Napoli, Società Editrice Meridionale, 1983, II, p. 1363.

(47) C. Petraccone, Rivoluzione e proprietà: i repubblicani abruzzesi e molisani nel 1799, in «Archivio storico per le province napoletane», terza serie, a. XXI (1982), p. 205.

(48) L’atteggiamento di chiusura della corte napoletana di fronte agli eventi rivoluzionari francesi aveva convinto Delfico, alla fine del 1793, che la grande stagione riformistica era definitivamente conclusa. Esso segnava l’inizio di una lunga interruzione della sua attività di scrittore, a conferma di come egli ritenesse allora non solo vano ma addirittura pericoloso farsi sostenitore di una politica di rinnovamento del Regno napoletano. La sfiducia del Teramano divenne pressoché totale durante il soggiorno nella capitale partenopea tra la primavera e l’autunno 1794, quando venne scoperta la congiura giacobina che portò all’arresto e alla condanna di numerosi patrioti ed esponenti repubblicani, fra cui l’amico e concittadino Troiano Odazi. Crebbe l’insofferenza per la capitale, che si tradusse anche in un abbandono degli interessi intellettuali, ed egli capì che non era più tempo di «restare con chi ha assunto un dispotismo assoluto». (Cfr. Lettera da Napoli al fratello Giamberardino del 2 agosto 1794, in Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo «Manoscritti Delfico», Misc. 4, n. 934).

(49) Sullo spirito di moderazione di Delfico, interessato a trovare una mediazione tra eccessi rivoluzionari e intemperanze reazionarie, cfr. G. Carletti, Melchiorre Delfico. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale, cit., p. 135 sgg.

(50) Si veda, in proposito, F. Masciangioli, Melchiorre Delfico e Pescara, cit. p. 51 sgg.

(51) Per una ricostruzione dell’organizzazione giudiziaria napoletana cfr. a. M. Rao, L’ordinamento e l’attività della Repubblica napoletana del 1799, in «Archivio storico per le province napoletane», s. III, a. XII (1974), pp. 73-145; M. Battaglini, L’amministrazione della giustizia nella Repubblica napoletana, in «Rassegna storica del Risorgimento», a. LXXII (1985), fasc. II, pp. 147-70, ora, con alcune integrazioni, in Napoli tra monarchia e repubblica, Roma, Edizioni AMAL, 1996, pp. 150-78.

(52) M. Delfico, Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia, cit., p. 435.

(53) M. Delfico, Proclama, cit., p. 442.

(54) Cfr. Il Monitore Napoletano 1799, a cura di M. Battaglini, Napoli, Guida, 1974, p. XXXI sgg.

(55) Sul dibattito che si sviluppa a Napoli sull’eversione della feudalità e sul tipo di Costituzione da dare alla nuova Repubblica, cfr. G. Galasso, La legge feudale napoletana del 1799, in «Rivista storica italiana», a. LXXVI (1964), fasc. II, pp. 507-29, ora in La filosofia in soccorso de’ governi. La cultura napoletana del Settecento, Napoli, Guida, 1989, pp. 633-60. Sulla fiducia che il triennio giacobino potesse generare un momento di grande partecipazione politica, cfr. E. Pii, La ricerca di un modello politico durante il triennio rivoluzionario (1796-99), in Modelli nella storia del pensiero politico, vol. II, La rivoluzione francese e i modelli politici, a cura di V.I. Comparato, Firenze, Olschki, 1989, p. 279 sgg.

(56) Cfr. la lettera di Delfico al Governo Provvisorio, da Pescara, datata 7 germile an. 7 Rep. (27 marzo 1799), in Il Monitore Napoletano 1799, cit., pp. 695-6. Sulle insorgenze nella regione, cfr. R. Colapietra, Le insorgenze di massa nell’Abruzzo in età moderna, in «Storia e politica», a. XX (1981), fasc. 1, pp. 1-46. Per una diversa valutazione dell’atteggiamento di Delfico durante l’invasione francese, cfr. L. Polacchi, Da Melchiorre Delfico a Clemente De Caesaris. Storia politica e letteraria del Risorgimento in Abruzzo sulla base della fortezza di Pescara 1798-1860, Urbino, Tip. Stea, 1960, p. 44; G. Incarnato, Le «illusioni del progresso» nella società Napoletana di fine Settecento, vol. II, Tra rigori modernizzatori e aspettative di assistenza, Napoli, Loffredo, 1993, pp. 196-7.

(57) Per il giudizio di Delfico sul 1799, cfr. M. Agrimi, La vicenda rivoluzionaria e le riflessioni sulla storia: Melchiorre Delfico, in «Itinerari», a. XXIII (1984), n. 3, p. 93 sgg.

(58) Sulla permanenza del Teramano nella Repubblica sammarinese, cfr. F. Balsimelli, Melchiorre Delfico e la Repubblica di San Marino, San Marino, Arti Grafiche Della Balda, 1935.

(59) Sull’attività di Delfico nell’amministrazione francese, cfr. G. Palmieri, Melchiorre Delfico e il decennio francese (1806-1815), L’Aquila, Edizioni del Gallo Cedrone, 1986, il quale riproduce in appendice alcuni scritti delficini del periodo; R. Feola, La monarchia amministrativa. Il sistema del contenzioso nelle Sicilie, Napoli, Jovene, 1985, pp. 125-35.

(60) Cfr. la lettera di Delfico a  Münter del 16 febbraio 1810, in A. Di Nardo, Storia e scienza in Melchiorre Delfico. (Studi e ricerche), Chieti, Libera Università Abruzzese degli Studi «G. D’Annunzio», Facoltà di Lettere e Filosofia, 1978, pp. 148-9.