La "Pescara" di Melchiorre Delfico
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di Gabriele Carletti
Introduzione a La "Pescara" di Melchiorre Delfico, Pescara,
Edizioni Tracce, 1999, pp. 5-22
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Ad una
nuova concezione della cultura e dell’intellettuale, la cui attività
sia, come diceva Genovesi, «più pratica che teoria» (1), si ispirano gli
scritti di Melchiorre Delfico (2).
Soprattutto durante il secondo soggiorno napoletano, iniziato nel 1778,
a dieci anni di distanza dalla fine del primo(3), nel corso del quale ha
modo di rinsaldare i legami con gli ambienti riformatori della capitale
e stringere rapporti con vari esponenti del movimento illuminista
meridionale, Delfico matura la convinzione che la provincia possa
imprimere un nuovo e maggiore impulso alla politica governativa. È il
momento in cui egli avverte la necessità di una ridefinizione del
rapporto tra capitale e province, tra i centri periferici più sani ed
attivi e quella Napoli corrotta ed inerte il cui governo sembra
disattendere le aspettative di quanti nella scelta di un deciso
programma di riforme confidano per un cambiamento dell’assetto sociale
esistente.
Un’esigenza, questa, che lo renderà «uno dei più veramente cosmopoliti»
e al tempo stesso «dei più autenticamente provinciali» (4) tra i
riformatori meridionali della seconda metà del Settecento.
Rappresentante di quell’ala della scuola genovesiana meno utopistica e
filosofica, ma ugualmente antifeudale e più legata a problemi concreti e
immediati del Regno napoletano, che affonda le sue radici nelle
province, Delfico sarà uno dei «primi scrittori meridionalisti» (5) per
avere, di fronte alla dicotomia tra centro e periferia, tra città e
campagna, difeso strenuamente gli interessi della provincia contro le
usurpazioni della capitale, gli interessi della società contro le
prerogative dello stato e del potere ecclesiastico, dando vita ad una
prima forma di autonomismo meridionale (6). Se da un lato infatti
l’illuminista teramano seguirà le idee filosofiche di Locke, di
Condillac e degli idéologues, fino a divenire «il rappresentante
più fedele in Italia dello spirito francese del secolo decimottavo» (7),
e con questo impianto empiro-sensistico egli affronterà i grandi temi
della politica e successivamente quelli della giurisprudenza, della
storia, della imitazione, della perfettibilità e del bello, dall’altro
manterrà viva la lezione genovesiana non perdendo mai l’interesse per i
problemi concreti e specifici della società civile.
Alle due
Memorie (8) giovanili, con le quali Delfico inaugura nel 1768 la
sua attività di scrittore, in difesa dei diritti del Regno di Napoli sui
territori di Benevento e di Ascoli Piceno contro le pretese
giurisdizionali del pontefice su quei possedimenti, segue un'intensa
stagione che vede l’illuminista teramano farsi promotore di numerose
riforme (9).
Del 1782
è il Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale (10),
dedicato all’amico Filangieri, in cui la questione militare acquista
rilevanza politica, avendo intuito l’Autore l’importanza che una buona
costituzione militare poteva assumere per la vita di uno Stato.
Criticando lo «spirito di corpo» dei militari, quel «sentimento
dissociale» che li porta a disprezzare la vita civile e che fa di loro
una classe di privilegiati distinta dal corpo sociale, egli mira a
riqualificare il ruolo del soldato all’interno della società, non
soltanto in tema di sicurezza, ma anche, soprattutto, di progresso
civile, riunendo, sull’esempio di Rousseau (11), la qualità di soldato a
quella di cittadino, così che i due termini diventino sinonimi fra loro
(12).
Nel 1788
Delfico pubblica il Discorso sul Tavoliere di Puglia (13) con il
quale, condannando le concentrazioni latifondiste e il mantenimento
delle rendite, rivendica la divisione di quelle terre in favore dei
contadini e un diverso ruolo dell’agricoltura, non più limitata e
subordinata alla pastorizia. Dello stesso anno è anche la Memoria per
la vendita de’ beni dello Stato d’Atri (14), in cui egli esprime un
secco rifiuto della giurisdizione feudale in nome dei principi
roussoiani di indivisibilità e inalienabilità della sovranità fino a
ritenere qualsiasi forma di alienazione o di usurpazione della sovranità
stessa «non solo un atto nullo, ma anche ingiusto» (15).
Si coglie
in questi scritti non soltanto la totale adesione di Delfico al
liberismo, ma anche la sua piena consapevolezza del ruolo che lo Stato è
chiamato a svolgere in favore di un sistema economico imperniato sulla
libertà di scambio. Un rapporto, quello tra Stato ed economia di
mercato, che Delfico affronta anche nella Memoria sulla libertà di
commercio (16), in cui esalta il principio del laissez-faire
contro le regolamentazioni e le restrizioni del sistema mercantile. Il
rifiuto di «ogni coazione economica» si fonda per lo scrittore teramano
sulla convinzione che la libertà (di produzione, di consumo, di
commercio, di concorrenza) favorisca un progresso e uno sviluppo
economico tali da recare benefici sia ai privati cittadini che allo
Stato stesso. È solo attraverso la rimozione di tutti i controlli
governativi che ostacolano l’allargamento del mercato e impediscono che
le attività economiche si svolgano nei modi loro naturali che la scienza
economica riesce a far fronte al suo duplice compito di mantenimento
dello Stato e di accrescimento della ricchezza e del benessere
individuali.
Il
problema dello sviluppo economico si salda così, nelle riflessione
delficina, ad una più generale esigenza di trasformazione dell’assetto
politico-economico-giuridico della società civile, e l’interesse privato
coincide con quello pubblico, i bisogni del singolo si identificano con
quelli della collettività.
Lo
scoppio della rivoluzione francese e la fiducia che essa favorisca il
progetto riformatore e che possa portare finalmente a maturazione le
questioni da tanto tempo sollevate e discusse indurrà Delfico agli inizi
degli anni Novanta a condurre con maggior vigore la battaglia
antifeudale e l’attacco contro le strutture stesse del sistema e ad
esprimere una condanna più perentoria e radicale del regime feudale. Gli
eventi rivoluzionari d’oltralpe non fanno che rafforzare in lui la
convinzione della necessità di attuare un organico piano di riforme,
anche al fine di evitare l’estendersi dell’ondata rivoluzionaria agli
Stati italiani. La rivoluzione di Francia rappresenta dunque «un esempio
favorevole per i Principi savj» affinché non indugino più sulla strada
delle riforme.
Rianimato
da queste speranze, nel dicembre del 1789 Delfico si trasferisce nella
capitale partenopea (17), dove pubblica le Ricerche sul vero
carattere della giurisprudenza romana e de’ suoi cultori (18) che
rappresentano «la più forte manifestazione del pensiero illuministico
italiano nei confronti del diritto romano» (19), cui viene negato ogni
valore. Ad emergere è l’idea di un sistema legislativo nuovo, «uguale ed
uniforme per tutti gl’individui» (20), che a differenza di quello
vigente, troppo legato alla tradizione romana, risulti più inerente
«all’indole delle nazioni e dei governi presenti» (21).
Sull’esempio di quanto accadeva oltralpe, Delfico rivendica, accanto ad
una legislazione stabile e regolare, una legittima costituzione «che ne
sia il presupposto e ne costituisca il necessario fondamento» (22). Lo
stato che egli predilige è di tipo costituzionale e rappresentativo,
fondato sull’uguaglianza delle leggi, sulla divisione dei poteri, sul
conferimento dell’autorità legislativa al popolo, sulla rappresentanza
politica senza restrizioni di rango o di censo e sul decentramento
dell’amministrazione della giustizia attraverso lo stabilimento di
magistrature locali e provinciali.
La
determinazione di imprimere un nuovo impulso alla politica del governo
napoletano non impedisce tuttavia a Delfico di attivarsi presso le
Segreterie della capitale per sollecitare iniziative e soluzioni di
problemi riguardanti la sua provincia. Non sempre però le sue istanze
trovano il riscontro desiderato. Se, dopo varie insistenze, aveva
ottenuto il ripristino a Teramo del «Tribunale collegiato» (23), in
luogo dei magistrati unici, «più agevolmente portati all’abuso del
potere» (24), non altrettanta fortuna incontreranno invece le sue
richieste di abolizione della servitù degli Stucchi (25) e di
istituzione di una piccola Università a Teramo (26).
L’impegno
riformatore in favore della sua terra porterà Delfico ad interessarsi
anche di Pescara in due scritti, dal titolo Fiera franca in Pescara
e Breve cenno sul progetto di un porto da costruirsi alla foce del
fiume Pescara.
Della
città adriatica l’illuminista teramano si era occupato la prima volta
negli anni Ottanta del secolo XVIII nella pur breve ma incisiva
ricognizione geografico-economica del tratto costiero «desolato» che va
dal Fortore al Tronto (27). Riferendosi a Pescara («antico emporio di
popoli liberi» e «principale baluardo della Corona e dello Stato» (28))
egli denunciava la persistenza di un forte «giogo baronale» che
costringeva i sudditi a sottostare più all’arbitraria dipendenza dei
signori che all’autorità del Sovrano. Di fronte a così grave alterazione
«come si può sperare – commentava lo scrittore abruzzese -, che gli
animi si elevino ai desideri d’una migliore esistenza e che sviluppino
un vero spirito di Patriottismo; che si nobilitino d’un vero coraggio
marziale; che ravvisino con chiarezza e precisione li normali doveri, se
il fantasma d’una mostruosa ed irregolare Autorità abbaglia di continuo
le loro menti e le tiene nella bassezza e nell’avvilimento» (29).
Con gli
scritti su Pescara l’Autore si prefigge di «rilanciare le attività
produttive in questa zona ancora emarginata del Regno» (30). La scarsa
fertilità del suolo, le difficili comunicazioni commerciali e civili, la
carenza di ricchezze naturali rendono più che mai necessario l’avvio di
un processo economico in grado di «produrre nuovi beni» (31), nonché di
migliorare le condizioni degli abitanti di quei luoghi.
Decisivo
gli appare a tal proposito un rilancio del commercio, considerato «la
sola sorgente inesausta della ricchezza e floridezza delle Provincie»
(32), non senza però aver prima creato le condizioni e le strutture
necessarie per facilitarlo. Una di queste potrebbe essere la
realizzazione di un grande emporio o fiera franca, che non solo
ridurrebbe sensibilmente le frodi e il contrabbando, ma assicurerebbe un
notevole afflusso di merci, di provenienza anche straniera, senza
l’imposizione di alcun dazio di importazione, che eviterebbe ai
negozianti, ai mercanti e a molti proprietari abruzzesi di rivolgersi,
non senza grave danno, ai mercati dello Stato pontificio di Fermo, di
Ascoli o a quello più grande e lontano di Senigallia. Tutto ciò non
farebbe che ripercuotersi favorevolmente sul commercio che potrebbe così
finalmente «divenir attivo» (33) e moltiplicare i capitali e far nascere
nuove attività economiche o migliorare e accrescere quelle esistenti.
Né
Delfico teme che la realizzazione di una fiera franca a Pescara possa
alimentare rivalità e gelosie fra i popoli né trovare ostacoli di ordine
politico, militare o fisico poiché la scelta di Pescara, in passato
caduta su Giulianova, senza però «alcun effetto felice» (34), era
dettata dal fatto che la città adriatica, essendo fornita di fortezza
con stabile guarnigione, avrebbe più facilmente assicurato la custodia
delle merci, cosa importante sia per la sicurezza delle finanze che per
il mantenimento dell’ordine pubblico. Le difficoltà maggiori sarebbero
semmai venute dall’esistenza a Pescara soltanto di un «semplice canale»
piuttosto che di un «comodo porto» (35) in grado di accogliere le
imbarcazioni di stazza superiore.
La
creazione di uno moderno scalo marittimo alla foce del fiume Pescara
costituisce l’oggetto della riflessione che Delfico conduce nel Breve
cenno. L’idea che il «mare anziché separare riavvicini le Nazioni
fra loro» (36) permettendo «infinite comunicazioni» tra i popoli,
costituisce la determinazione dalla quale lo scrittore teramano muove
per sostenere l’utilità che la creazione di un porto sicuro per i
naviganti rivestirebbe per l’incremento del commercio e per lo sviluppo
economico in generale. La scelta di Pescara quale centro di scalo
portuale trova giustificazione nel fatto di avere la cittadina adriatica
il fiume con la foce più ampia (37) e di essere «punto centrale nel
litorale degli Abruzzi» (38), crocevia delle tre principali strade,
l’una diretta verso Napoli, le altre, entrambe costiere, in direzione la
prima verso lo stato pontificio, la seconda verso le province
meridionali. Non solo, ma sarebbe anche l’unico porto ad avvalersi di
una «piazza forte» che renderebbe sicuro il trasporto e la conservazione
delle merci. Così il porto di Pescara potrebbe riacquistare quell’importanza
che aveva avuto un tempo quando era conosciuto con il nome di Ostia
Aterni e gli imperatori romani vi avevano fatto confluire le tre
strade, la Claudia, la Flaminia e la Frentana per agevolarne gli scambi
commerciali (39).
Nessun
ostacolo alla realizzazione dell’opera sembra a Delfico veramente
insormontabile. Di fronte alle difficoltà esistenti, legate alle
caratteristiche della costa adriatica priva di insenature naturali, egli
propone una serie di rimedi tecnici che vanno dalla formazione di due
banchine, da ambo i lati del fiume, che dal tronco inferiore della
piazza forte giunga fin dentro il mare, per aumentare la velocità delle
acque; alla creazione di una scogliera per proteggere la foce del fiume
dal vento impetuoso proveniente da nord-est; alla costruzione di un
sistema di chiuse che permetta sia di mantenere costante la profondità
delle acque sia, una volta aperte, di rendere la corrente più veloce.
Lo stesso irresponsabile disboscamento delle colline, a cui Delfico
assiste «con dolore» (40) per l’effetto deleterio che esso provoca sul
territorio in quanto accresce il pericolo di frane e di allagamenti,
risulterebbe invece essere addirittura vantaggioso nel caso di Pescara
poiché farebbe aumentare notevolmente la corrente e la profondità del
suo fiume.
Non vi è dubbio che la collaborazione di Delfico con i Francesi, per
quanto «pie-na e convinta» (47), vada vista come il tentativo di
reinserirsi nel giro di quella politica attiva (48), nella quale egli da
sempre confida. Non crediamo invece che tale partecipazione segni il
passaggio dello scrittore teramano dalla prospettiva
monarchico-riformistica a quella repubblicano-giacobina (49).
Tensioni ideali e finalità pratiche continuano ad essere, anche durante
la parentesi repubblicana, le stesse che lo hanno animato in tante
battaglie del passato. Anche il Piano di una amministrazione
provvisoria di giustizia pei Tribunali dei Dipartimenti e Giudici dei
Cantoni del 24 piovoso anno VII (12 febbraio 1799), l’atto
legislativo più rilevante del Consiglio Supremo col quale viene
introdotto un nuovo ordinamento giudiziario e in cui maggiore è
l’istanza egualitaria (50), non sembra discostarsi da certi suoi
principi e aspirazioni precedentemente espressi.
Il Piano, che si inserisce fra i provvedimenti di riforma del
sistema giudiziario adottati dalla Repubblica napoletana(51), sanciva,
in nome delle idee di libertà e di eguaglianza, il decentramento
dell’autorità giudiziaria, prevedendo un giudice per ogni capoluogo di
cantone e un tribunale per ogni capoluogo di dipartimento;
l’amministrazione gratuita della giustizia e la corresponsione di uno
stipendio ai giudici e a tutti coloro che collaboravano all’attività
giudiziaria; l’assistenza gratuita ai poveri; la «prontezza» e
«l’imparzialità» dei giudici nell’applicazione delle norme; l’abolizione
della carcerazione per debiti, a meno che non venisse provata la «frode»
del debitore; il controllo dell’attività giudiziaria nonché la
possibilità di ricorrere in appello.
Erano questi i tratti salienti del provvedimento con il quale Delfico,
che ne era l’ispiratore, mirava a ristabilire quella «pubblica
tranquillità» e quella «sicurezza», necessarie per il raggiungimento
della «felicità dell’uomo sociale» (52), che costituiva l’oggetto
costante e principale dei suoi pensieri.
Assicurare «la condizione civile delle persone» era l’intento che
Delfico si prefiggeva anche nel Proclama sulla sicurezza pubblica
del 15 ventoso anno VII (5 marzo 1799), con il quale si stabiliva
l’obbligo per tutti di munirsi di un documento di identità e per i
militari del vecchio esercito borbonico di dichiarare al comando
francese i propri mezzi di sussistenza, mentre ai militari forestieri
era rivolto l’invito ad arruolarsi nell’esercito repubblicano. Tutti
coloro che avessero contravvenuto alle disposizioni, sarebbero stati
considerati «oziosi e vagabondi» (53).
Nel Proclama, come pure nel Piano, si fa riferimento ad
un precedente proclama del 15 piovoso anno VII (3 febbraio 1799)
riguardante la concessione dell’indulto per determinati reati. Il suo
contenuto resta tuttavia sconosciuto, essendo il testo tuttora
irreperito.
Il 23 gennaio 1799, il comandante in capo Championnet, occupata Napoli,
aveva nominato Delfico membro del Governo Provvisorio della Repubblica
partenopea assegnandolo al Comitato delle Finanze e il 14 aprile egli fu
scelto a far parte, assieme a Giuseppe Abbamonte, Giuseppe Albanese,
Ignazio Ciaja ed Ercole D’Agnese, della Commissione Esecutiva istituita
dal commissario del governo francese Abrial (54). Ma nella Capitale egli
non potrà recarsi mai a causa delle insorgenze antifrancesi. Di qui il
rammarico per non poter partecipare all’attività legislativa del Governo
Provvisorio (55) a cui muove l’accusa di aver non solo «abbandonato» ma
addirittura «obliato» le province abruzzesi, lasciando che ovunque si
verificassero «le più ferali tragedie» ad opera di briganti e di
scorribande antifrancesi (56).
Non è da escludere a questo punto che proprio durante il periodo
pescarese Delfico abbia elaborato, secondo una prassi piuttosto diffusa
in Italia nel triennio rivoluzionario, una Tavola dei Dritti e dei
Doveri dell’uomo e del Cittadino. Il testo, che si ispira alle
Dichiarazioni francesi dei diritti del 1789, del 1793 e del 1795,
proclama l’uguaglianza davanti alla legge; riconosce i diritti
inalienabili di libertà, sicurezza, proprietà, resistenza
all’oppressione e i doveri inviolabili di subordinazione, benevolenza,
giustizia e obbedienza alle leggi. Fa risiedere la sovranità nella
Nazione, cui spetta, attraverso i suoi rappresentanti, emanare le leggi,
stabilire le imposizioni, cambiare la costituzione e il governo. Ritiene
la legge l’espressione della volontà generale e afferma, in linea con
quanto sostenuto anche nel Piano di una amministrazione provvisoria
di giustizia, la responsabilità dei funzionari pubblici. Ammette la
possibilità di armarsi contro ogni forma di manifesta violenza e di
tirannia e non esclude il ricorso all’insurrezione, ma solo in casi
estremi, mentre condanna le rivolte e i perturbatori dell’ordine
pubblico, per odio forse delle sommosse che si stavano verificando agli
inizi del ’99 e di quanti sobillavano le masse contro le nuove
istituzioni.
Il 28 aprile 1799, di fronte al crescente stato di abbandono delle
province abruzzesi e alla partenza dei Francesi da Teramo, Delfico
preferisce, prima ancora della caduta della Repubblica napoletana,
lasciare Pescara (57) e sotto il falso nome di Carlo Cauti riparare via
mare nelle Marche, per poi raggiungere nel settembre successivo San
Marino (58). Nella piccola Repubblica rimarrà fino al 1806, quando
Giuseppe Bonaparte, divenuto re di Napoli, in giugno lo chiamerà al suo
fianco con la carica di consigliere di Stato. Il decennio successivo
segnerà l’apice della sua carriera politica (59), cui seguirà, a partire
dal 1815, un graduale abbandono della vita politica, fino al definitivo
allontanamento dagli ambienti governativi agli inizi degli anni Venti.
Il periodo che segue vede Delfico impegnato sul piano intellettuale a
contrastare la politica restauratrice a cui la ricomposizione della
vecchia alleanza tra trono e altare stava dando vita, soprattutto nel
Regno napoletano, con il pericolo di renderlo «stazionario» se non
addirittura di farlo regredire, vanificando così quel processo di
sviluppo economico e di trasformazione sociale che lentamente, aveva
scritto (60), stava facendo «risorgere» il Paese.
È in questo clima culturale che si collocano i due scritti su Pescara,
la cui importanza non è soltanto nell’idea che Delfico ha della
creazione di un grande polo commerciale e di un altrettanto importante
scalo marittimo, ma anche e soprattutto nella necessità di continuare ad
assicurare al genere umano quel progressivo avanzamento verso «l’umana
perfettibilità» cui sembra essere destinato. E questo tanto più ora che,
diversamente dal passato, la realizzazione di forme e di condizioni di
vita civile più elevate sembra dipendere, per lo scrittore teramano,
assai più che dal favore delle circostanze o dalla «bontà» di un
principe illuminato, dalla convinzione che i cittadini possano e debbano
essere loro stessi gli artefici del miglioramento del proprio «ben
essere» e di quello della propria esistenza.
Avvertenza per i lettori
In riferimento a quanto riportato in nota (*) gli scritti di
Melchiorre Delfico saranno pubblicati a breve su questo sito. |
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(3)
Tra la fine del 1777 e l’inizio
del 1778 Delfico incorre in uno spiacevole episodio con le
autorità provinciali. Soprattutto a causa del vescovo Luigi
Pirelli e dell’assessore Giacinto Dragonetti, con cui pure aveva
avuto rapporti di amicizia, è ingiustamente inquisito e
condannato per la fuga di certe monache dal monastero di S.
Matteo di Teramo. L’exequatur del Tribunale del capoluogo
abruzzese (5 febbraio 1778) con il conseguente ordine di
carcerazione, emesso nei confronti suoi e di altri «lajci
seduttori», presunti responsabili dell’insubordinazione, lo
costringono ad allontanarsi dalla città e a recarsi a Napoli,
dove rimarrà circa tre anni, fino alla conclusione della vicenda
giudiziaria, giunta con l’indulto regio del 17 giugno 1780. A
Napoli Delfico si era recato la prima volta nel 1758, assieme ai
fratelli maggiori Giamberardino e Gianfilippo, per completare
gli studi. Dal capoluogo partenopeo, dove aveva avuto modo di seguire le lezioni di Antonio
Genovesi, era andato via, per far ritorno a Teramo, nel 1768
perché malato di emottisi.
(7)
G. Gentile,
Dal Genovesi al Galluppi, Napoli, Edizioni della
«Critica», 1903, p. 34. Sull’influenza che l’idéologie
française esercita sul Teramano, cfr. anche
E. Rota,
Razionalismo e storicismo. (Rapporti di pensiero tra Italia e
Francia avanti e dopo la Rivoluzione francese), in «Nuova
rivista storica», a. I (1917), fasc. II, pp. 301-3;
G. Capone Braga,
La filosofia francese e italiana del Settecento, Arezzo,
Edizioni delle «Pagine critiche», 1920, vol. II, soprattutto il
paragrafo Il Delfico e gl’ideologi, pp. 184-203;
M.F. Sciacca, La
filosofia nell’età del Risorgimento, Milano, Vallardi, 1948,
pp. 152-61.
(15)
M.
Delfico, Memoria per la vendita de’ beni dello Stato
d’Atri, cit., p. 354.
(16)
Scritta
tra il 1789 e il 1790, su invito dell’Accademia di Padova agli
scrittori italiani di occuparsi del problema della libertà di
commercio, la Memoria fu stampata la prima volta nel 1805
a Milano, presso Destefanis, nel t. XXXIX della raccolta
Scrittori classici italiani di economia politica, a cura di
P. Custodi. L’opuscolo è stato recentemente riedito (Teramo, De
Petris, 1985) con un’introduzione di M. Finoia. Sul problema
Delfico tornerà alcuni anni dopo con il Ragionamento su le
carestie, composto, affermerà, «solo per dare qualche
eccezione agli eccessivi principii di libertà in economia»
(lettera a Luigi Dragonetti del 10 luglio 1826, in
Spigolature nel carteggio letterario e politico del march. Luigi
Dragonetti, a cura del marchese G. Dragonetti suo figlio,
Firenze, Uffizio della Rassegna Nazionale, 1886, p. 121). Il
testo, letto il 1° dicembre 1818 nella Reale Accademia delle
Scienze di Napoli e pubblicato nel 1825 negli Atti
dell’Accademia stessa (vol. II, parte I, pp. 3-43) è stato
riedito a Teramo nel 1985 assieme alla Memoria sulla libertà
del commercio. Di fronte al «terribile flagello» della
carestia che ricompare «sovente inaspettato, furibondo,
irreparabile» (ivi, p. 47), lo scrittore abruzzese
apporta alcune «modificazioni e moderazioni» al principio della
libertà assoluta e illimitata di commercio, auspicando nel
mercato l’intervento diretto dello Stato, cui riconosce il
compito di prevenire in futuro il ritorno di simili avvenimenti.
(19)
C. Ghisalberti,
La giurisprudenza romana nel pensiero di Melchiorre Delfico,
in «Rivista italiana per
le scienze giuridiche», a. VIII (1954), vol. VII, parte II, p.
432. Sullo sviluppo in Italia nella seconda metà del Settecento
di una letteratura critica della legislazione romana, cfr.
R. Bonini, Crisi
del diritto romano, consolidazioni e codificazioni nel
Settecento europeo, Bologna, Pàtron, 1988, in cui viene
analizzata anche la posizione di Delfico (pp. 145-67).
(20)
M. Delfico,
Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana, in
Opere complete, cit., vol. I, p. 225.
(25)
Ciò che
Delfico chiedeva, sin dal 1786, era l’abolizione del «diritto
del pascolo invernale» nei paesi costieri dell’Abruzzo, a causa
del quale i proprietari erano costretti a tenere i loro terreni
esclusivamente a pascolo per un periodo molto lungo dell’anno,
dal 29 settembre all’8 maggio, con grave pregiudizio per
l’agricoltura. Del problema si occuperà anche negli anni
successivi, ma solo alla fine del ’93 otterrà qualche riscontro
presso le autorità locali. Cfr.
R. Di Antonio,
Stucchi e Doganelle nel teramano, Teramo, Libera Università
Abruzzese degli Studi «G. D’Annunzio», Facoltà di Scienze
Politiche, 1978, la quale pubblica in appendice alcuni inediti
delficini, la Memoria sugli Stucchi e le Memorie su di
un nuovo sistema per le Doganelle.
(26)
La
richiesta al Sovrano di una Università di Studi venne avanzata
da Delfico agli inizi di maggio del 1788 con la Memoria per
lo stabilimento di una Università in Teramo, tuttora
irreperita. Accolta favorevolmente la proposta, il re chiese il
parere alla Real Camera che, a sua volta, decise di interpellare
il Tribunale di Teramo, sentito il vescovo. Alla Consulta
negativa della Real Camera, cui si conformò successivamente lo
stesso Sovrano, Delfico replicò invano. Sul progetto si tornerà
soltanto nel 1808 quando, soppressi i conventi della città, sarà
proposto di fondare una Università nel monastero di S. Matteo e
una Accademia di Scienze nel convento dei cappuccini. Nascerà
allora il «Real Collegio», inaugurato il 23 gennaio 1814, nel
quale verrà istituito nel 1817 una «Cattedra di Giurisprudenza».
Cfr., in proposito, G.
Carletti, Introduzione a
M. Delfico, Una
"piccola" Università a Teramo, Teramo, Quaderni
dell’Università di Teramo, 1999, n. 6, pp. 3-7.
(27)
Il testo è
stato pubblicato da L.
Tossini, Una lettera inedita di Melchiorre Delfico a
Michele Torcia, in «Nord e Sud», a. XXIV (1977), terza
serie, n. 31-32, pp. 191-9. La lettera è datata Teramo, 7
ottobre 1784.
(49)
Sullo
spirito di moderazione di Delfico, interessato a trovare una
mediazione tra eccessi rivoluzionari e intemperanze reazionarie,
cfr. G. Carletti,
Melchiorre Delfico. Riforme politiche e riflessione teorica
di un moderato meridionale, cit., p. 135 sgg.
(50)
Si veda,
in proposito, F. Masciangioli, Melchiorre Delfico e Pescara, cit. p.
51 sgg.
(54)
Cfr. Il
Monitore Napoletano 1799, a cura
di M. Battaglini, Napoli, Guida, 1974, p. XXXI sgg.
(55)
Sul
dibattito che si sviluppa a Napoli sull’eversione della
feudalità e sul tipo di Costituzione da dare alla nuova
Repubblica, cfr. G.
Galasso, La legge feudale napoletana del 1799,
in «Rivista storica italiana», a. LXXVI (1964), fasc. II, pp.
507-29, ora in La filosofia in soccorso de’ governi. La
cultura napoletana del Settecento, Napoli, Guida, 1989, pp.
633-60. Sulla fiducia che il triennio giacobino potesse generare
un momento di grande partecipazione politica, cfr.
E. Pii, La
ricerca di un modello politico durante il triennio
rivoluzionario (1796-99), in Modelli nella storia del
pensiero politico, vol. II, La rivoluzione francese e i
modelli politici, a cura di V.I. Comparato, Firenze, Olschki,
1989, p. 279 sgg.
(56)
Cfr. la lettera di Delfico
al Governo Provvisorio, da Pescara, datata 7 germile an. 7 Rep.
(27 marzo 1799), in Il Monitore Napoletano 1799, cit.,
pp. 695-6. Sulle insorgenze nella regione, cfr.
R. Colapietra, Le insorgenze di massa nell’Abruzzo in
età moderna, in «Storia e politica», a. XX (1981), fasc. 1,
pp. 1-46. Per una diversa valutazione dell’atteggiamento di
Delfico durante l’invasione francese, cfr.
L. Polacchi, Da
Melchiorre Delfico a Clemente De Caesaris. Storia politica e
letteraria del Risorgimento in Abruzzo sulla base della fortezza
di Pescara 1798-1860, Urbino, Tip. Stea, 1960, p. 44;
G. Incarnato, Le
«illusioni del progresso» nella società Napoletana di fine
Settecento, vol. II, Tra rigori modernizzatori e
aspettative di assistenza, Napoli, Loffredo, 1993, pp.
196-7.
(58)
Sulla
permanenza del Teramano nella Repubblica sammarinese, cfr.
F. Balsimelli,
Melchiorre Delfico e la Repubblica di San Marino, San
Marino, Arti Grafiche Della Balda, 1935.
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