Una delle
caratteristiche della partecipazione del Mezzogiorno al Risorgimento, è
la presenza attiva, fra i patrioti, di più persone della stessa
famiglia; in alcuni casi – appartenenti a generazioni diverse. Così i
Poerio e i Pepe, calabresi, uomini politici e militari, influenti in
Patria e all’Estero sui principali avvenimenti dei loro tempi; i Nitti
di Lucania, antenati di Francesco Saverio, dinastia di perseguitati; gli
Imbriani di S. Martino-Valle Caudina, nella provincia di Avellino,
combattenti di tutte le guerre d’Indipendenza; i Riso, palermitani, i
Settembrini, campani, e parecchi altri (1). Ma nessuna famiglia, tra le
meridionali, ha combattuto il dispotismo tanto a lungo quanto i Delfico,
vecchia stirpe del patriziato teramano, dominatore della Città per oltre
due secoli. Dal 1788, anno della fondazione in Teramo della Società
Patriottica, organismo propulsore del movimento progressista, al 1864,
vale a dire al termine della repressione del brigantaggio nel nostro
territorio, i Delfico non mancarono mai nella
cospirazione e nell’azione. Nessuno di loro si sottrasse alla lotta ai
tiranni. Perfino una donna del Casato cooperò con i figli, nei cimenti
del 1848-49 e degli anni successivi. Più notevole appare l’apporto alla
Causa della famiglia, ove si rifletta alle sue tre nobiltà (2), e al suo
dominio di vastissime tenute a Castagneto e a Montesilvano, appoderate e
rese fruttifere, tra le prime in Abruzzo. Il bel
palazzo
settecentesco,
nel quartiere di S. Giorgio, che due cavalcavia univano a splendidi
giardini pensili, dagli alberi secolari, ornata dimora di questa gente
di penna e di spada, fu, per un secolo, il centro morale ed
intellettuale della Provincia. Vi maturarono gli eventi salienti del
Capoluogo, alla fine del ‘700 e durante l’800, fin oltre l’Unità.
Intorno al 1750,
obbedienti alla volontà del padre Berardo, uomo amabile, ma austero, da
quel palazzo si trasferirono a Napoli, per seguire corsi di letteratura,
filosofia e giurisprudenza,
Giamberardino (1739-1814), Gianfilippo (1743-1792) e
Melchiorre (1744-1835). Allorché tornarono nella natia terra,
addottrinati, specie nella nuova scienza dell’economia, in cui avevano
avuto maestri il Genovesi, il Filangieri, il Galiani e altri sommi. Il
Teramano era il Cantone, il più remoto ed il più abbandonato del Reame.
Senza strade, senza scuole, senza igiene. Intere fertilissime plaghe non
erano state mai dissodate. Immense selve coprivano la contrada fin quasi
al lido del mare, mentre, dissennatamente, si disboscavano i monti. La
fascia costiera non poteva essere arata e seminata, perché adibita al
pascolo invernale delle greggi e degli armenti dei feudatari.
Il ceto rurale viveva
in condizioni trogloditiche. Gli abitanti dei borghi, raccolti attorno
alle Università, prive di potere, sopperivano alle esigenze primordiali
con gli usi civici (là dove era possibile). Arti e mestieri venivano
praticati con metodi di lavorazione primitivi. Dei commerci, ostacolati
anche dai pedaggi e dalle gabelle, si erano impadroniti pochissimi
risoluti che l’esercizio monopolistico aveva reso doviziosi. Epidemie
continue flagellavano le misere popolazioni. A Teramo, alcuni chierici e
curiali di muffita erudizione, costituivano l’elemento intellettuale.
Gli spettacoli teatrali erano considerati cagione di disordini.
L’annunzio della rappresentazione di una tragedia aveva determinato «li
zelanti della città» ad inoltrare una supplica al re, perché la
proibisse.
Il maggiore storico
aprutino, Nicola Palma afferma che il ritorno da Napoli dei Delfico fu
la premessa di quel rigoglio di cultura che valse a Teramo la lode dei
dotti («Atene del Regno» fu chiamata). Giamberardino, Gianfilippo e
Melchiorre raccolsero subito, intorno a loro, i più degni concittadini:
in primis Alessio Tullii, storico ed umanista, che era vissuto in
solitudine. Fecero venire dalla Capitale e dall’Estero tante casse di
libri, che, con le nozioni acquisite in vari rami dello scibile, posero
a disposizione degli amici-discepoli, coetanei o più giovani,
considerati collaboratori negli studi. Il loro spirito rifuggiva dalla
gravità e dalla pedanteria, tipiche dell’insegnamento, in quella età.
Sull’incontro e sulla
confidenza tra i Delfico e i loro sodali, oltre la testimonianza del
Palma, abbiamo la commossa narrazione del Pradowski, un misterioso
letterato, forse straniero, comparso a Teramo, parecchi anni prima
dell’invasione francese, nonché il carteggio di Melchiorre, Giovan
Battista Mezucelli e Alessio Tullii.
Dice, appunto, il
Pradowski (3), che la diffusa cultura teramana dell’ultimo settecento fu
dovuta all’amicizia intellettuale dei Delfico con numerosi altri
studiosi. «E quasi tutto ciò, (la sapienza nelle lettere, nella fisica,
nelle scienze naturali ecc.) da loro s’è ottenuto, vicendevolmente
rinfrancandosi, soccorrendosi, prestando libri, non di rado supplendo
con incredibili fatiche al difetto di maestri e sempre mai proponendosi
il sapere per unico premio del sapere».
Se ne ha conferma da
una lettera del citato epistolario, datata da Teramo il 14 dicembre
1789, scritta da G. B. Mezucelli a Berardo Quartapelle: «Noi
continuamente godiamo della compagnia dell’illustre Melchiorre, e
profittiamo sempre dei suoi lumi. Si aspetta a momenti il baule grande
dei suoi libri, poiché l’altro è giunto. Egli si compiace darci
qualunque libro ci bisogna. Il dovere dunque porta che noi dobbiamo
corrispondere, coi nostri sforzi, alle sue ottime intenzioni».
Ferdinando IV aveva
demolito da poco il governo oligarchico cittadino delle quarantotto
famiglie patrizie, e ne era risultata più attiva l’amministrazione della
cosa pubblica locale, quando la gioventù borghese e quella parte del
vecchio patriziato che aveva accettato il nuovo ordine municipale, senza
isterilirsi in impossibili difese degli anacronistici privilegi. La
fondazione della Società Patriottica permise di constatare il grado
culturale elevato del cenacolo dei Delfico, soprattutto in riferimento
alle condizioni economiche e morali della Provincia, sottoposte ad
accurato esame critico, per poterne individuare e curare le piaghe!
Dall’orazione sulla conservazione dei boschi, pronunziata da Gianfilippo,
chiamato alla presidenza della istituzione; alla rivista «Il commercio
scientifico d’Europa con il Regno delle Due Sicilie», diretta da
Vincenzo Comi, medico e naturalista, il primo industriale dei luoghi;
dai saggi di Melchiorre sugli stucchi,
sulla coltivazione del
riso; sulle dogane, sulla vendita dei feudi; alle acute analisi sui vari
aspetti agricoli, commerciali, etici della comunità provinciale nel
penultimo e nell’ultimo decennio del Settecento, dovute al Thaulero, al
Nardi, al Michitelli; dagli stessi studi eruditi del Tullii a quelli di
pura scienza dell’Abate Quartapelle; appare, con la serietà e con la
preparazione degli Autori, la loro tendenza alle riforme miglioratrici.
Palese l’influsso degli
enciclopedisti francesi su tutta questa produzione, che, negli scritti
di Melchiorre Delfico, attinge pure ad altre fonti, come il sensismo di
Locke.
Una intensa
applicazione agli studi, seguita da prolungate osservazioni d’indole
pratica e da condanna della società d’un Paese o d’una Regione, non può
non condurre a pieno concorso nei fatti, diretti a mutare le attuali
strutture statali ed economiche. La partecipazione alla Repubblica
partenopea del ’99 dei Delfico e dei loro amici, non ha altra
spiegazione e, in proposito, non è nel giusto chi non sa darsi pace del
cambiamento di gente, apparentemente devota al Trono, di fronte
all’invasione. Non che l’ingresso dei francesi nel Reame significasse la
salute, difficile sempre a sperare e ad ottenere da armi straniere!
Permetteva, però, ad uomini colti ed onesti, come i patrioti di Teramo,
di confermare la già operata scelta tra i condannati metodi borbonici,
inaspriti per il timore della perdita della corona, ingenerato nella
famiglia regnante, e principî confacenti alla rivendicata dignità umana.
Occorre qui dire che,
prima degli sconvolgimenti bellici, sia i Delfico, sia gli altri
studiosi locali avevano posto ogni cura per far prevalere le loro
opinioni nell’arretratissimo ambiente provinciale. In qualche progetto
erano stai seguiti, come nella iniziata, ma purtroppo non compiuta
costruzione della strada del Pennino, nell’allargamento dell’ultimo
tratto del Trivio al Corso, nella creazione di una scuola pubblica «di
leggere, scrivere, e di aritmetica», nonché di una casa di educazione
della gioventù «per le arti liberali e per le scienze». (Purtroppo il
già deciso «stabilimento» di questi istituti d’istruzione, nel Convento
degli Agostiniani, non potette aver seguito per gli eventi del 1798-99 e
posteriori). Queste iniziative, così inconsuete, nascevano da
convinzioni e da propositi, ostili alla barbarie dominante. E deve
trarsene la conclusione che, nella classe intellettuale di Teramo, la
fedeltà ai Borbone era condizionata all’incivilimento del Paese, (se la
Monarchia sapesse e volesse promuoverlo). Difatti, Melchiorre Delfico
aveva sempre chiesto al Sovrano una «ragionevole libertà» per il
Pretuzio, lontano e trascurato.
Nel dicembre del 1798,
la maggioranza dei componenti della Società Patriottica, sciolta perché
«il suo predicato cominciava a divenire odioso, a causa dell’abuso che
del nome patria di là dai monti facevasi» (4), si prodigò per favorire
l’entrata in provincia, dalla vicina frontiera con lo Stato della
Chiesa, delle truppe francesi. Il che – beninteso – non volle dire
integrale accettazione delle istanze giacobine, ma significò l’inizio di
una attività risoluta, per la creazione nel Napoletano, di un ordine
nuovo, conforme alle lunghe speranze. E avvenne, dunque, l’incontro tra
i nostri patrioti e i soldati di quella Nazione che aveva spezzato le
stesse catene che legavano ancora il popolo delle Due Sicilie. Non
potette sottrarsi all’imperativo dell’ora, (intesa con i francesi),
Melchiorre Delfico che, in Italia, aveva fama di profondo innovatore,
come il Beccaria ed il Verri, (con la sola differenza che i suoi studi e
la sua azione si erano sviluppati, nello stato della Penisola più
arretrato e nella regione di questo, meno conosciuta e favorita).
I reparti napoletani,
fatti affluire al Tronto si sbandarono rapidamente, all’avvicinarsi
delle Armate che erano state mandate a combattere. Ma per il re e per la
religione presero le armi montanari e contadini, dando inizio ad una
lunga guerriglia, diretta da pochi ufficiali del Borbone. Furono le
prime formazioni di quelle «masse» sanfedisti che, in breve tempo,
avrebbero riconquistato a Ferdinando IV, rifugiatosi in Sicilia, il
Mezzogiorno Continentale.
La municipalità
Repubblicana, presieduta da Melchiorre Delfico, più tardi chiamato
all’Assemblea Legislativa ed al Governo di Napoli, dove, però, non
potette portarsi, ebbe vita assai agitata, per l’estrema insicurezza
della Città, difesa da scarsissime milizie, e quasi assediata dai
sanfedisti. Il primo ingresso dei Francesi avvenne senza spargimento di
sangue, ma l’occupazione di Teramo da parte dei fautori del Borbone,
insorti contro i deboli distaccamenti nemici e le abitazioni dei
«Giacobini», oggetto di saccheggio, sarebbe stata ragione di
rappresaglia per le truppe guidate dal Capo-battaglione Charlot, (contro
le quali fu sparato un solo colpo di cannone da alcuni popolani).
Soccorse, però, la mediazione di Giovan Bernardino Delfico nei confronti
delle «masse», convinte a lasciare la Città, prima dell’arrivo dei
Francesi e di questi trattenuti dall’attuare vendette.
Le vittorie in
Calabria, nelle Puglie e in Campania del Cardinale Ruffo, alla testa dei
Regi, si ripercossero nel Teramano, con la disposizione di tormenti
crudeli.. Giovan Bernardino fu incarcerato a Civitella del Tronto e a
Teramo, quindi assegnato a domicilio coatto nelle Puglie. L’unico suo
figlio Orazio (1769-1844) con lo zio Melchiorre, (Carlo Cauti), passò,
poi, a S. Marino, dove si trattenne a lungo, dettando la storia della
libera Repubblica. Giovan Filippo era morto nel 1792 e di lui il
ricordato Pradowski aveva letto l’elogio funebre, di cui ecco alcuni
felicissimi brani:
«Il suo temperamento
era quello dei grandi uomini, cioè il collerico; la corporatura era
scarna, la statura giusta, l’andamento diritto, nobile e disinvolto, la
carnagione delicata, la faccia lunga, bianco pallida, offesa ma non
difformata dal vajuolo, gli occhi azzurri ed ampia la fronte. Serio
d’aspetto e melanconico anzi che no, pur fra gli amici, senza correre
come altri suole., all’opposto estremo, riusciva ad uopo e tempo
amenissimo e gioviale. Non era di coloro che si arrogano il diritto di
dare il tono alle conversazioni: non cercava né sfuggiva i rincontri di
dotti trattenimenti; e senza vaghezza di essere né primo né ultimo a
parlare, sosteneva mirabilmente il suo carattere, del pari scostandosi e
da quelli che affettano saccenteria e da quelli che peccano di troppo
spirito»;…« ebbe talenti che anche senza tante virtù gli avrebbero
accattivato la comune ammirazione ed ebbe tante virtù che anche senza
tanti talenti gli avrebbero meritato il comune amore, se chi davvero ama
tutti, potesse mai da tutti essere amato».
Nel
decennio
franco-napoleonico, i Delfico che, come si è
detto, erano stati filo-giacobini, più per forza di fatti che per
opinione, dettero il loro consenso e la loro opera al nuovo sistema che,
se non fu di piena libertà, segnò, tuttavia, per il Napoletano, un
sensibile miglioramento sotto tutti gli aspetti. Giovan Bernardino,
reduce dal «confino», inflittogli dal capo massa Pronio, (che l’aveva
fatto escludere dall’indulto del 1800), volse le sue cure alla Società
Agraria, di cui fu Presidente dal 1810 alla morte, avvenuta nel 1814.
Portò l’omaggio della Provincia a Re Gioacchino, che saliva al trono.
Si dedicò agli studi
storici, scrivendo sull’antica agricoltura dei Vestini e dei Pretuziani
e sui nostri monumenti romani e medioevali. Il figlio Orazio, autore di
una monografia sul Gran Sasso, della cui più alta vetta: Monte
Corno, fu il primo a misurare l’altezza in pollici di Parigi, e che era
stato capo dei militi cittadini nel 1799, tenne il comando della legione
provinciale, con il grado di Colonnello. Melchiorre, nominato
Consigliere di Stato, prese residenza a Napoli, dove scrisse quei
«Pensieri su la storia e su la incertezza ed inutilità della medesima»
che segnano il distacco netto tra la prima e le seconda fase della sua
vasta opera, e che suscitarono stupore e contrasto in quelli che più
l’avevano acclamato (5). Ma l’involuzione del filosofo, allineatosi con
gli intellettuali del passato nell’avversione alla ricerca ed alla
critica storica, (nella patria del Vico!!!), fortunatamente non attenuò
l’entusiasmo per la causa nazionale del reduce dall’esilio.
Nei preliminari del
Risorgimento, rimane, infatti, l’indirizzo, con l’allegato progetto di
statuto italiano, rimesso, con l’offerta dello scettro costituzionale,
nel 1815, a Napoleone, relegato all’Elba: espressione della corrente
nazionale-unitaria napoletana, dovuta, quasi per intero, alla penna del
celebre teramano. E al Delfico, il Parlamento delle Due Sicilie, prima
assemblea legislativa, liberamente eletta in Italia, volle affidata la
traduzione della Costituzione di Spagna, largita nel 1820 da Ferdinando
I. Ultimo atto della vita politica del «Nestore della cultura
napoletana».
I Delfico e i
superstiti del decennio, tutti fra massoni qualificati, si erano
iscritti alla Loggia Carbonaria di Teramo, che diresse, nella nostra
provincia, il movimento rivoluzionario del 1820-21.
Preminente ed
assorbente fu la loro azione in seno alla setta, cui partecipavano anche
popolani. Eletto deputato Melchiorre, che optò per un Collegio di
Napoli, dal quale aveva avuto vasto suffragio, e nominato Consigliere di
Stato Orazio, entrambi propugnarono le libertà fondamentali del
Cittadino, vigorosamente sostenute anche dagli altri parlamentari della
Provincia: il Comi, il Castagna e il Coletti, anch’essi Carbonari (6).
Caduto, sotto le armi
austriache, il breve reggimento costituzionale, subirono la reazione
borbonica, che non poteva loro perdonare di essere stati «la rovina
della Città e della Provincia di Teramo» (come s’era espresso il Preside
Rodio). Tenuti in sospetto e sorvegliati dalla Polizia, trovarono
conforto nei prediletti studi.
Orazio, che,
in giovinezza, aveva seguito corsi di scienze naturali nell’Università
di Pavia (dove era entrato in dimestichezza con lo Spallanzani, il
Galvani, il Volta ed Ippolito Pindemonte), alternò la ricerca geologica
con la cura delle piante del suo orto botanico, realizzato nei giardini
annessi al palazzo avito. Melchiorre lesse e scrisse fino agli ultimi
giorni della sua lunghissima esistenza.
Con la
morte nel
1842 di Orazio, l’antica famiglia Delfico si estinse, ma il
cognome ne fu aggiunto al proprio dal Conte di Longano,
Gregorio De
Filippis (1801-1847), marito di Marina, unica
figlia dello scomparso (7).
In quel tempo la
Provincia si trovava ad aver realizzato qualche progresso nel commercio,
più sensibile lungo la fascia litoranea, aperta ormai ai traffici,
serviti dalla importante strada degli Abruzzi, tra il Tronto e la
Pescara, e da trasporti marittimi facenti capo al lido di Giulianova,
sede di dogana di prima classe. Anche l’agricoltura non era più
«bambinella in fasce» come l’aveva definita venti e più anni prima
l’economista teramano Fulgenzio Lattanzi. Appoderamento, introduzione di
nuove colture, bonifiche, accrescimento del capitale bovino,
avvicendamento dei terreni, testimoniavano dell’intenso sforzo compiuto,
durante i primi decenni del secolo, da non pochi agricoltori.
Nell’industria si era consolidato il successo delle molteplici
iniziative di Vincenzo Comi, mancato nel 1830, le cui fabbriche, gestite
dai figli, funzionavano a Giulianova e a Teramo, nell’Aquilano, a
Popoli, e nelle Marche, a Grottammare. Altri pionieri avevano creato
piccoli e medi stabilimenti nel capoluogo ed in altri centri. Vi si
trasformavano i prodotti dei campi. Non mancavano, però, opifici adibiti
a scopi diversi dal trattamento dei frutti della terra, come una cereria
a Giulianova; concerie di cuoi a Teramo, a Penne, a Elice, a Montorio al
Vomano, a Notaresco, un cappellificio ad Atri, filande di seta a Teramo,
ecc.
Il miglioramento nei
vari settori economici era derivato anche dalla stretta intesa tra gli
intraprendenti operatori e la benemerita Società Economica,
continuatrice, in senso tecnico, dell’opera della Patriottica e
dell’Agraria, e punto d’incontro degli insofferenti della tirannide. La
disoccupazione e la sottoccupazione, però, di larghi strati del popolo
si mantenevano considerevoli. Le epidemie continuavano a mietere
numerose vittime.
La scuola aveva esteso
l’insegnamento primario e introdotto quello secondario, con la
fondazione a Teramo di un
Convitto-Liceo Ginnasio,
cui
Melchiorre Delfico, dando prova anche in questo del suo spirito
liberale, aveva donato una
biblioteca.
Il ceto intellettuale, numericamente accresciuto, non aveva, però,
avanzato in cultura e in idee, rispetto ai novatori dell’ultimo
settecento, (malgrado che le recite teatrali non facessero più paura a
nessuno e si tenessero, anzi, nell’angusto
teatro,
tutto in legno, «Corradi e Gatti», nel quartiere di S. Spirito).
Regresso negli studi di
economia e di politica, che erano stati passione e benemerenza di
Melchiorre Delfico e dei suoi prossimi, le indagini sulle relazioni
sociali e sui mezzi e i metodi di produzione che i patrioti della prima
generazione avevano compiuto in vista di una generale riforma del
sistema di Governo e di amministrazione, erano, ora, meno approfondite,
condotte con cautela e studio di farne coincidere i risultati con le
tesi ufficiali.
L’erudizione era
diventata monumento nei cinque volumi della Storia del Pretuzio di
Nicola Palma.
Massoneria e Società
Segrete raccoglievano: la prima quasi tutti i professionisti e gli
abbienti; le seconde pochissimi e coraggiosi adepti.
Tollerante nei
confronti della Massoneria, il Governo (e per esso l’Intendenza e la
locale Polizia) esercitava controllo costante e duro sugli
«attendibili», come venivano chiamati gli indiziati di appartenenza alle
«sette». «La Giovane Italia» del Mazzini aveva avuto, per qualche tempo,
emissario a Teramo il Saliceti. Non è da escludere che i moti di Penne
del 1837, sanguinosamente conclusi alla Cittadella, con la fucilazione
di alcuni dei capi, fossero diretti da cospiratori mazziniani.
Negli anni formativi
dell’ingegno e del carattere dei figli di Marina Delfico (8), Teramo era
ancora circondata, da ogni lato, di mura fortificate. La sua edilizia
irregolare e non piacevole, come notò il Savini (9), formava la
preoccupazione del Municipio. Il Decurionato si sforzava di migliorare
le vie interne ed esterne e gli edifici pubblici, imitato dai privati
che, o costruivano ab imis o modificavano, ampliandoli ed
abbellendoli, i loro fabbricati.
Le classi cittadine
comprendevano: i dominatori borghesi che avevano del tutto assorbito
l’antico patriziato, affiancati dai funzionari regi, militari e civili e
dal Clero; un medio ceto di imprenditori e mercanti; una piccola
borghesia, traente i mezzi di sussistenza da infime proprietà terriere o
da piccoli negozi, o dall’artigianato, notevole nella lavorazione del
legno e del ferro, e – più numerosa – la plebe, cioè i mendici e i
manovali, (i generici di oggi). Vita senza sfarzo, quella degli agiati,
tenaci risparmiatori, che, nei tardi pomeriggi della buona stagione,
quasi quotidianamente, si riunivano sulla scalinata del Duomo, e, seduti
su quei gradini, loro riservati, conversavano degli affari pubblici e
propri. Sacrificio senza adeguato compenso, o nera miseria,
caratterizzavano la vita delle altre classi.
La formazione del
movimento liberale moderato, sapiente nell’indirizzare il malcontento
contro lo straniero accampato in Italia e contro la Polizia borbonica,
le necessità impellenti dell’ora, distolsero
Troiano (1821-1908)
e Filippo De
Filippis Delfico (1827-1906) e i loro coetanei, aderenti alla Massoneria, «more
maiorum», e decisi anti-clericali, dalla ricerca delle cause effettive
della crisi di regime in atto.
Sugli esempi famigliari
e con il conforto del consenso materno, la quarta generazione dei
Delfico sentì il «romantico richiamo della patria», prese le armi,
conobbe l’esilio, tornò a combattere per lo sterminio del brigantaggio.
Pronto a marciare contro «le tigri austriache», si dichiarava
Troiano, nella primavera del 1848, nel
Manifesto-invito dello Spettatore dei Destini italiani, e accorreva in
Lombardia, volontario della prima guerra d’indipendenza.
I due fratelli, con
Valerio Forti ed Antonio Tripoti, organizzarono la sedizione, detta di
S. Angelo, dal nome di una piccola Chiesa di campagna sul Pennino, dove
il 2 ottobre 1848, in occasione della festa patronale erano convenuti
numerosi patrioti che si infiammarono alla notizia, appresa dal
«Contemporaneo» di Genova, della sollevazione di Vienna e manifestarono
rumorosamente la loro solidarietà agli insorti e a loro fede
liberale-statutaria. Il « moto» destò lo spavento del Comandante
borbonico Fluscy (sic ma Flugj), il quale, in un rapporto al
generale Landi, espresse questo avviso: «La tranquillità a Teramo non si
ristabilirà senza forti salassi e sciabolate». Eppure s’era trattato
solo della lettura d’un giornale, del canto di inni patriottici e d’una
dimostrazione per il rispetto della Carta Costituzionale, giurata dal
Sovrano e tuttora vigente. Dovevano conseguirne patimenti di carcere
duro e di esilio gramo. Nel processo, celebrato molto dopo i fatti
suddetti, non mancò nemmeno l’accusa specifica di formazione di un
Governo provvisorio, in riferimento ad un episodio del Giovedì Santo
1848. (Quel giorno a Teramo si era diffusa la notizia dell’imminente
discesa di montanari armati, sostenitori dell’assolutismo. I
responsabili del Comune e i patrioti più autorevoli avevano nominato un
Capo provvisorio della Guardia Nazionale, con il compito di sciogliere
«attruppamenti sovversivi all’ordine e alle franchigie» e di far
rispettare le ordinanze governative). Addebito che, con gli altri di
aver fatto celebrare una Messa di requiem per le vittime napoletane del
15 maggio 1848 e di aver suscitato disordine nella ricorrenza della
festa di S. Angelo, bastò al Procuratore Generale D’Agostino per
domandare la pena di morte nei confronti di trenta cittadini, tra i
quali Troiano e Filippo De Filippis Delfico, il Tripoti, i Forti,
Antonio Camillotti, veterano della cospirazione in Provincia, uno degli
scampati alle fucilazioni, seguite alla repressione dei moti di Penne
del 1837 ed il giuliese avvocato penalista Michele Cavarocchi. Ma, in
secondo tempo, un altro Procuratore Generale, il Nicoletti, mitigò la
requisitoria, onde la Gran Corte Criminale finì con l’infliggere ai
prevenuti la pena dei ferri, variante tra gli otto e i venti anni.
Parecchi dei condannati
conobbero l’orrore delle segrete del Bagno penale di Pescara, con la
palla al piede. Ma i Delfico, come il Tripoti e Valerio Forti,
riuscirono ad esulare,
Troiano a Patrasso e Filippo a Marsiglia.
Un fratello degli
esuli, Melchiorre jr. (1825-1895), s’era affermato a
Napoli come caricaturista. Anch’esso noto «settario», frequentava i
circoli culturali, dove non era difficile prendere contatto con i capi
della «rivoluzione». Amico di Verdi, gli fu vicino durante il suo terzo
soggiorno napoletano, nel 1857. Colse in caricatura gli episodi di detto
soggiorno, fece sfilare, in comica rassegna, gli amici di Verdi e i suoi
disturbatori, e poi, «in tutti gli atteggiamenti, in tutte le pose, da
quelle tragiche dell’ira a quella drammatiche della commozione, con una
gran chioma, con un immenso testone, il Maestro: assediato dai
seccatori, importunato dai musicomani, inseguito dagli ammiratori e
collezionisti di autografi, nel culmine dell’ispirazione o all’apice
della noia». «Né il Verdi si adontò o si infastidì mai del Delfico, il
cui inesorabile e signorile spirito artistico lo divertiva e gli
eccitava il rarissimo riso. Ebbe per lui una costante ed affettuosa
amicizia e le ultime lettere scrittegli sono del 1891 (10)».
Melchiorre Delfico jr.
descrisse, in un album di caricature, personaggi ed avvenimenti del
trapasso politico dalla Monarchia dei Borbone a quella dei Savoia;
prezioso documento del costume dell’epoca, soprattutto per quanto
riguarda l’improvvisa conversione dei più accesi seguaci di Francesco II.
Fino alla morte, Marina
Delfico tenne unita la sua numerosa famiglia. Nell’Archivio Provinciale
di Stato di Teramo è conservato il fitto epistolario della madre con
i figli esuli, dal quale, pubblicato in parte, nel 1950, da Alberto Scarselli, si apprende quanto di consiglio, di conforto e di denaro
l’ammirevole donna dette ai suoi, in quei non pochi anni difficili, e
quali furono i sacrifici di Troiano e di Filippo, rispettivamente in
Grecia ed in Francia. Il primo si era allontanato da Teramo, al ritorno
in città delle truppe del Landi, e aveva assistito a questo tristissimo
spettacolo dal Pennino. Rifugiato ad Ascoli Piceno, poi a S. Benedetto
del Tronto, infine ad Ancona, di qui s’era imbarcato per la Grecia.
Quando non riceveva soccorso da casa, traeva i mezzi di sostentamento
per sé e per i suoi compagni di esilio (tra i quali il conterraneo Del
Cucco) dalla caccia, in cui era provetto, e dalla vendita di quadri, che
dipingeva con buona tecnica.
L’altro, scampato alla
cattura, mercé un imbarco clandestino per la Francia, nelle eguali
frequenti contingenze sfavorevoli,
commerciava in mobilio. Le
sofferenze di Filippo erano accresciute dalla lontananza dalla giovane
sposa Cleomene Rossi (sic ma Fallocco) e dalla
preoccupazione che i suoi beni fossero realmente sequestrati, come
ordinato dalla Gran Corte Criminale, nella sentenza di condanna. Tale
iattura potè essere evitata per il risoluto intervento della madre che
impedì l’esecuzione delle disposizioni patrimoniali della efferata
pronunzia, eccependo validamente che, nei capitoli matrimoniali, era
stato stabilito «un forte assegnamento», pari alla rendita complessiva
dei beni alla moglie del condannato.
I due fratelli si
riabbracciarono a Teramo nel 1860, dopo vari spostamenti di residenza,
di Troiano da Corfù ad Atene, a Patrasso, in Piemonte, di nuovo ad
Atene; di Filippo da Marsiglia, a Parigi, a Nizza (nelle quali città
aveva avuto la compagnia, nel duolo e nella speranza, di Antonio Tripoti
e di Giuseppe De Vincenzi). Marina Delfico, durante l’assenza dei figli,
dedicò molto del suo tempo agli interessi domestici. Le sue lettere
dicono di «fortificazioni» sul torrente Salino, nei pressi di
Montesilvano, di qualche preoccupazione per la crisi dell’agricoltura,
iniziata intorno al 1850, ma bene superata dalle grandi aziende, e del
completamento della comoda, ampia scala, da cui si accede al piano
nobile della casa di Teramo. Ma non smise la consuetudine, (che durava
dai tempi del padre) dei periodici ricevimenti, nel suo salotto di
conversazione, dei notabili, avversi al Borbone (11). Come ricorda il De
Cesare (12), tra gli assidui di queste, apparentemente innocue adunanze,
che infastidivano la polizia, furono l’Irelli, i fratelli Costantini, i
fratelli Bonolis, G.A. Crocetti, Stefano De Marinis (protettore della
poetessa estemporanea Giannina Milli), Nicola Forti, Giovanni De
Benedictis ed altri patrioti.
Quali che fossero le
aspirazioni dei Delfico nell’esilio (ed una il carteggio ne rivela,
profondamente sentita e costante: la riduzione degli abusi del Clero),
la loro condotta, nei mesi successivi al loro ritorno a Teramo, avvenuto
dopo lo sbarco dei Mille a Marsala, fu in tutto conforme all’indirizzo
del partito moderato, anche se obbedendo alle istruzioni del Comitato
d’Azione di Napoli e di quello locale, di cui era «magna pars» il
Tripoti, Troiano accettò la nomina a triumviro del Governo
Prodittatoriale di Teramo che ebbe vita per soli tre giorni (8-11
settembre 1860). Del resto questa investitura fu annunziata al popolo
«in nome di Vittorio Emanuele, re d’Italia e del Generale Garibaldi,
Dittatore delle Due Sicilie»: segno che il programma del Partito
d’Azione non era, poi, così rivoluzionario, come si doveva dare ad
intendere, per offrire a Cavour una giustificazione plausibile per
l’ingresso dei piemontesi nel Napoletano. (In precedenza il Delfico
aveva sottoscritto, come esponente del Comitato teramano del Partito
d’Azione, le convenzioni del moto insurrezionale fra le tre provincie
degli Abruzzi, nella riunione in Salino, vale a dire nella sua villa di
Montesilvano. Questo patto di «rivolta» non reca clausole men che
legalitarie. Basta leggerne l’art. 4 «…sarà proclamato il Governo
provvisorio a nome di Vittorio Emanuele Re d’Italia e Dittatura di
Garibaldi»: previsione pienamente avveratasi, come si è visto!).
Le vicende provinciali
posteriori al passaggio dell’esercito sardo (15 ottobre) e al Plebiscito
(21 ottobre) trovarono
Troiano Delfico Maggiore Comandante la Guardia
Nazionale di Teramo, nel quale incarico aveva sostituito
il Tripoti, quando questi era partito, con i suoi Cacciatori del Gran
Sasso per l’altipiano delle Cinque Miglia e per il Matese, infestati dai
briganti e dai reazionari. Prima del concentramento, intorno a Civitella
del Tronto, di importanti Unità dell’Esercito piemontese, ormai
italiano, ciò che accadde alla fine del 1860, principio del 1861, la
Guardia Nazionale di Teramo, si trovò, unica forza armata del nuovo
potere, a fronteggiare una situazione assai difficile. Difatti, dalla
fortezza borbonica, presidiata da tutti i gendarmi della provincia, ivi
affluiti ai primi di settembre, e non ancora cinta di regolare assedio,
veniva diretto ed alimentato un esteso e temibile brigantaggio. La
storia dei combattimenti e degli atti di valore della Guardia Nazionale
di Teramo è tutta da scrivere. Chi affronterà tale meritoria fatica,
dall’esame dello stato economico e sociale del territorio, nel 1860 e
nel periodo posteriore, sarà tratto a concludere che il brigantaggio
ebbe origine dalla più nera miseria, congiunta alla più completa
ignoranza. (Il che nulla toglie alla gratitudine dovuta a uomini, come
il Delfico, che stroncarono, per sempre, questo endemico male della
Regione). Infaticabile, il Delfico, percorse, per anni, con i suoi
coraggiosi volontari, mal remunerati, le montagne e le colline della
Provincia. Ebbe ai suoi ordini immediati un gruppo di ufficiali
eccellenti. Fu suo Aiutante maggiore quell’Antonio Caretti, milanese,
uno dei Mille, che sarebbe caduto nel 1867, a Mentana.
Nella notte tra il 23
ed il 24 ottobre 1860, «trentasette militi della Guardia Nazionale»,
comandata dal Delfico, debellarono «presso Bellante, duecentoquarantasei
briganti e reazionari». Al combattimento, asprissimo, prese parte a
fianco del Comandante e del capitano Ortiz, il subalterno Berardo
Costantini che, per l’eroismo di cui dette prova, fu decorato di
medaglia d’argento al Valor Civile. Nella stessa notte, altro esiguo
distaccamento dello stesso Corpo, guidato dal tenente Bucciarelli, ed in
cui militava Settimio Costantini, futuro Sindaco, Deputato di Teramo e
Sottosegretario all’Istruzione, volse in fuga cinque-seicento briganti e
reazionari.
Scaramucce, imboscate,
marce in zone impervie, privazioni, furono la vita del Battaglione, fino
a quando nel 1864, il territorio provinciale potette dirsi pacificato;
manifestazioni di brigantaggio perdurando solo in alta montagna. Il
prolungarsi del banditismo fu attribuito alla condotta debole ed incerta
del Governo, contro la quale il Maggiore Comandante la Guardia Nazionale
di Teramo insorse, in una lettera aperta, indirizzata a Settimio
Costantini, in occasione delle elezioni politiche del 1865: documento
che segna il distacco del Delfico dalla corrente moderata, ossia dalla
maggioranza parlamentare accusata di sostanziale illibertà, soprattutto
per la pressione fiscale sulle classi povere e per la politica estera di
servilismo verso Napoleone III e di umiliazione verso al Corte
Pontificia, «un cadavere galvanizzato»!
L’atteggiamento critico
del Delfico contro la Destra si accentuò negli anni seguenti. Nel ’67
pubblicò – infatti – un saggio politico: «Dei partiti in Italia», in cui
sostenne la libertà delle opinioni e la necessità dell’istruzione
pubblica, ai fini del suffragio universale e dell’effettiva unità
italiana, rimproverando al Governo la mancanza di iniziative
democratiche.
Nello stesso tempo
Filippo si trovava ad aver percorso alti gradi nella Loggia Massonica di
Teramo, di cui sarebbe divenuto «Venerabile». Intanto, manteneva stretti
contatti con Garibaldi e i suoi intimi che avrebbe sostenuto, con ogni
mezzo, nell’impresa di Mentana. Anche per lui, urgeva porre fine al
potere temporale del Papa a fare di Roma la capitale dell’Italia Unita.
L’altro fratello, il
geniale artista, amico di Verdi, si era definitivamente stabilito a
Napoli.
Nella piena maturità,
conquistata sui campi di battaglia e nell’esilio, Troiano Delfico,
incapace di ozio, si applicò sempre più agli studi economici. Il
risultato fu un libro:«Sulla questione sociale - Considerazioni» edito
dalla Tipografia Romana nel 1878.
L’autore non mostra
conoscenza esatta dell’argomento trattato, nel senso che ignora intere
sezioni della dottrina economica, come, ad esempio, l’opera del Marx,
peraltro allora, pochissimo diffusa, specie in Abruzzo. Ma i suoi
apprezzamenti e rilievi su vari aspetti del problema (contro la
schiavitù, contro la concentrazione della proprietà in poche mani;
contro gli abusi della pubblica amministrazione nei confronti dei
cittadini), oltre che specchio di una retta coscienza, sono indicativi
del rapido mutare dei tempi. Difatti, la Destra Storica aveva compiuto
il suo ciclo. Da due anni la Sinistra governava il Paese. I fratelli
Delfico, con il Senatore Irelli erano stati ed erano, con altri vecchi
«reduci», i capi della Sinistra provinciale. Avevano intuito che le
questioni di fondo possono essere rinviate per specialissime
contingenze, ma sono nodi che, prima o poi, vengono al pettine.
La questione sociale!
E’ assai significativo che di questo argomento, destinato a tenere il
campo nei dibattiti, abbia parlato per primo a Teramo – e nel 1878
l’ottimate più autorevole, prossimo Senatore, per «censo», l’esule
intemerato, discendente di una grande famiglia italiana. |