De Filippis

 

De Filippis-Delfico

 

(Teramo, 1820)

biblioteca - archivio virtuale

Stemma famiglia De Filippis-Delfico, Teramo, 1820

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Delfico

(Napoli, sec. XVIII)

(Teramo, sec. XV)

Stemma famiglia De Filippis, Napoli, sec.XVIII

Stemma famiglia Delfico, Teramo, sec.XV

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La famiglia Delfico nel Risorgimento

di Riccardo Cerulli

In "La Regione – Rassegna di vita abruzzese", a. I, n. 1, ottobre 1964

(Per le notizie biografiche di Riccardo Cerulli cfr. Sandro Galantini,  Gente d’Abruzzo – Dizionario biografico, Castelli (Te), Andromeda Editrice, 2006, vol. 2, pp. 317-320.)

Una delle caratteristiche della partecipazione del Mezzogiorno al Risorgimento, è la presenza attiva, fra i patrioti, di più persone della stessa famiglia; in alcuni casi – appartenenti a generazioni diverse. Così i Poerio e i Pepe, calabresi, uomini politici e militari, influenti in Patria e all’Estero sui principali avvenimenti dei loro tempi; i Nitti di Lucania, antenati di Francesco Saverio, dinastia di perseguitati; gli Imbriani di S. Martino-Valle Caudina, nella provincia di Avellino, combattenti di tutte le guerre d’Indipendenza; i Riso, palermitani, i Settembrini, campani, e parecchi altri (1). Ma nessuna famiglia, tra le meridionali, ha combattuto il dispotismo tanto a lungo quanto i Delfico, vecchia stirpe del patriziato teramano, dominatore della Città per oltre due secoli. Dal 1788, anno della fondazione in Teramo della Società Patriottica, organismo propulsore del movimento progressista, al 1864, vale a dire al termine della repressione del brigantaggio nel nostro territorio, i Delfico non mancarono mai nella cospirazione e nell’azione. Nessuno di loro si sottrasse alla lotta ai tiranni. Perfino una donna del Casato cooperò con i figli, nei cimenti del 1848-49 e degli anni successivi. Più notevole appare l’apporto alla Causa della famiglia, ove si rifletta alle sue tre nobiltà (2), e al suo dominio di vastissime tenute a Castagneto e a Montesilvano, appoderate e rese fruttifere, tra le prime in Abruzzo. Il bel palazzo settecentesco, nel quartiere di S. Giorgio, che due cavalcavia univano a splendidi giardini pensili, dagli alberi secolari, ornata dimora di questa gente di penna e di spada, fu, per un secolo, il centro morale ed intellettuale della Provincia. Vi maturarono gli eventi salienti del Capoluogo, alla fine del ‘700 e durante l’800, fin oltre l’Unità.

Intorno al 1750, obbedienti alla volontà del padre Berardo, uomo amabile, ma austero, da quel palazzo si trasferirono a Napoli, per seguire corsi di letteratura, filosofia e giurisprudenza, Giamberardino (1739-1814),  Gianfilippo (1743-1792) e Melchiorre (1744-1835). Allorché tornarono nella natia terra, addottrinati, specie nella nuova scienza dell’economia, in cui avevano avuto maestri il Genovesi, il Filangieri, il Galiani e altri sommi. Il Teramano era il Cantone, il più remoto ed il più abbandonato del Reame. Senza strade, senza scuole, senza igiene. Intere fertilissime plaghe non erano state mai dissodate. Immense selve coprivano la contrada fin quasi al lido del mare, mentre, dissennatamente, si disboscavano i monti. La fascia costiera non poteva essere arata e seminata, perché adibita al pascolo invernale delle greggi e degli armenti dei feudatari.

Il ceto rurale viveva in condizioni trogloditiche. Gli abitanti dei borghi, raccolti attorno alle Università, prive di potere, sopperivano alle esigenze primordiali con gli usi civici (là dove era possibile). Arti e mestieri venivano praticati con metodi di lavorazione primitivi. Dei commerci, ostacolati anche dai pedaggi e dalle gabelle, si erano impadroniti pochissimi risoluti che l’esercizio monopolistico aveva reso doviziosi. Epidemie continue flagellavano le misere popolazioni. A Teramo, alcuni chierici e curiali di muffita erudizione, costituivano l’elemento intellettuale. Gli spettacoli teatrali erano considerati cagione di disordini. L’annunzio della rappresentazione di una tragedia aveva determinato «li zelanti della città» ad inoltrare una supplica al re, perché la proibisse.

Il maggiore storico aprutino, Nicola Palma afferma che il ritorno da Napoli dei Delfico fu la premessa di quel rigoglio di cultura che valse a Teramo la lode dei dotti («Atene del Regno» fu chiamata). Giamberardino, Gianfilippo e Melchiorre raccolsero subito, intorno a loro, i più degni concittadini: in primis Alessio Tullii, storico ed umanista, che era vissuto in solitudine. Fecero venire dalla Capitale e dall’Estero tante casse di libri, che, con le nozioni acquisite in vari rami dello scibile, posero a disposizione degli amici-discepoli, coetanei o più giovani, considerati collaboratori negli studi. Il loro spirito rifuggiva dalla gravità e dalla pedanteria, tipiche dell’insegnamento, in quella età.

Sull’incontro e sulla confidenza tra i Delfico e i loro sodali, oltre la testimonianza del Palma, abbiamo la commossa narrazione del Pradowski, un misterioso letterato, forse straniero, comparso a Teramo, parecchi anni prima dell’invasione francese, nonché il carteggio di Melchiorre, Giovan Battista Mezucelli e Alessio Tullii.

Dice, appunto, il Pradowski (3), che la diffusa cultura teramana dell’ultimo settecento fu dovuta all’amicizia intellettuale dei Delfico con numerosi altri studiosi. «E quasi tutto ciò, (la sapienza nelle lettere, nella fisica, nelle scienze naturali ecc.) da loro s’è ottenuto, vicendevolmente rinfrancandosi, soccorrendosi, prestando libri, non di rado supplendo con incredibili fatiche al difetto di maestri e sempre mai proponendosi il sapere per unico premio del sapere».

Se ne ha conferma da una lettera del citato epistolario, datata da Teramo il 14 dicembre 1789, scritta da G. B. Mezucelli a Berardo Quartapelle: «Noi continuamente godiamo della compagnia dell’illustre Melchiorre, e profittiamo sempre dei suoi lumi. Si aspetta a momenti il baule grande dei suoi libri, poiché l’altro è giunto. Egli si compiace darci qualunque libro ci bisogna. Il dovere dunque porta che noi dobbiamo corrispondere, coi nostri sforzi, alle sue ottime intenzioni».

Ferdinando IV aveva demolito da poco il governo oligarchico cittadino delle quarantotto famiglie patrizie, e ne era risultata più attiva l’amministrazione della cosa pubblica locale, quando la gioventù borghese e quella parte del vecchio patriziato che aveva accettato il nuovo ordine municipale, senza isterilirsi in impossibili difese degli anacronistici privilegi. La fondazione della Società Patriottica permise di constatare il grado culturale elevato del cenacolo dei Delfico, soprattutto in riferimento alle condizioni economiche e morali della Provincia, sottoposte ad accurato esame critico, per poterne individuare e curare le piaghe! Dall’orazione sulla conservazione dei boschi, pronunziata da Gianfilippo, chiamato alla presidenza della istituzione; alla rivista «Il commercio scientifico d’Europa con il Regno delle Due Sicilie», diretta da Vincenzo Comi, medico e naturalista, il primo industriale dei luoghi; dai saggi di Melchiorre sugli stucchi, sulla coltivazione del riso; sulle dogane, sulla vendita dei feudi; alle acute analisi sui vari aspetti agricoli, commerciali, etici della comunità provinciale nel penultimo e nell’ultimo decennio del Settecento, dovute al Thaulero, al Nardi, al Michitelli; dagli stessi studi eruditi del Tullii a quelli di pura scienza dell’Abate Quartapelle; appare, con la serietà e con la preparazione degli Autori, la loro tendenza alle riforme miglioratrici.

Palese l’influsso degli enciclopedisti francesi su tutta questa produzione, che, negli scritti di Melchiorre Delfico, attinge pure ad altre fonti, come il sensismo di Locke.

Una intensa applicazione agli studi, seguita da prolungate osservazioni d’indole pratica e da condanna della società d’un Paese o d’una Regione, non può non condurre a pieno concorso nei fatti, diretti a mutare le attuali strutture statali ed economiche. La partecipazione alla Repubblica partenopea del ’99 dei Delfico e dei loro amici, non ha altra spiegazione e, in proposito, non è nel giusto chi non sa darsi pace del cambiamento di gente, apparentemente devota al Trono, di fronte all’invasione. Non che l’ingresso dei francesi nel Reame significasse la salute, difficile sempre a sperare e ad ottenere da armi straniere! Permetteva, però, ad uomini colti ed onesti, come i patrioti di Teramo, di confermare la già operata scelta tra i condannati metodi borbonici, inaspriti per il timore della perdita della corona, ingenerato nella famiglia regnante, e principî confacenti alla rivendicata dignità umana.

Occorre qui dire che, prima degli sconvolgimenti bellici, sia i Delfico, sia gli altri studiosi locali avevano posto ogni cura per far prevalere le loro opinioni nell’arretratissimo ambiente provinciale. In qualche progetto erano stai seguiti, come nella iniziata, ma purtroppo non compiuta costruzione della strada del Pennino, nell’allargamento dell’ultimo tratto del Trivio al Corso, nella creazione di una scuola pubblica «di leggere, scrivere, e di aritmetica», nonché di una casa di educazione della gioventù «per le arti liberali e per le scienze». (Purtroppo il già deciso «stabilimento» di questi istituti d’istruzione, nel Convento degli Agostiniani, non potette aver seguito per gli eventi del 1798-99 e posteriori). Queste iniziative, così inconsuete, nascevano da convinzioni e da propositi, ostili alla barbarie dominante. E deve trarsene la conclusione che, nella classe intellettuale di Teramo, la fedeltà ai Borbone era condizionata all’incivilimento del Paese, (se la Monarchia sapesse e volesse promuoverlo). Difatti, Melchiorre Delfico aveva sempre chiesto al Sovrano una «ragionevole libertà» per il Pretuzio, lontano e trascurato.

Nel dicembre del 1798, la maggioranza dei componenti della Società Patriottica, sciolta perché «il suo predicato cominciava a divenire odioso, a causa dell’abuso che del nome patria di là dai monti facevasi» (4), si prodigò per favorire l’entrata in provincia, dalla vicina frontiera con lo Stato della Chiesa, delle truppe francesi. Il che – beninteso – non volle dire integrale accettazione delle istanze giacobine, ma significò l’inizio di una attività risoluta, per la creazione nel Napoletano, di un ordine nuovo, conforme alle lunghe speranze. E avvenne, dunque, l’incontro tra i nostri patrioti e i soldati di quella Nazione che aveva spezzato le stesse catene che legavano ancora il popolo delle Due Sicilie. Non potette sottrarsi all’imperativo dell’ora, (intesa con i francesi), Melchiorre Delfico che, in Italia, aveva fama di profondo innovatore, come il Beccaria ed il Verri, (con la sola differenza che i suoi studi e la sua azione si erano sviluppati, nello stato della Penisola più arretrato e nella regione di questo, meno conosciuta e favorita).

I reparti napoletani, fatti affluire al Tronto si sbandarono rapidamente, all’avvicinarsi delle Armate che erano state mandate a combattere. Ma per il re e per la religione presero le armi montanari e contadini, dando inizio ad una lunga guerriglia, diretta da pochi ufficiali del Borbone. Furono le prime formazioni di quelle «masse» sanfedisti che, in breve tempo, avrebbero riconquistato a Ferdinando IV, rifugiatosi in Sicilia, il Mezzogiorno Continentale.

La municipalità Repubblicana, presieduta da Melchiorre Delfico, più tardi chiamato all’Assemblea Legislativa ed al Governo di Napoli, dove, però, non potette portarsi, ebbe vita assai agitata, per l’estrema insicurezza della Città, difesa da scarsissime milizie, e quasi assediata dai sanfedisti. Il primo ingresso dei Francesi avvenne senza spargimento di sangue, ma l’occupazione di Teramo da parte dei fautori del Borbone, insorti contro i deboli distaccamenti nemici e le abitazioni dei «Giacobini», oggetto di saccheggio, sarebbe stata ragione di rappresaglia per le truppe guidate dal Capo-battaglione Charlot, (contro le quali fu sparato un solo colpo di cannone da alcuni popolani). Soccorse, però, la mediazione di Giovan Bernardino Delfico nei confronti delle «masse», convinte a lasciare la Città, prima dell’arrivo dei Francesi e di questi trattenuti dall’attuare vendette.

Le vittorie in Calabria, nelle Puglie e in Campania del Cardinale Ruffo, alla testa dei Regi, si ripercossero nel Teramano, con la disposizione di tormenti crudeli.. Giovan Bernardino fu incarcerato a Civitella del Tronto e a Teramo, quindi assegnato a domicilio coatto nelle Puglie. L’unico suo figlio Orazio (1769-1844) con lo zio Melchiorre, (Carlo Cauti), passò, poi, a S. Marino, dove si trattenne a lungo, dettando la storia della libera Repubblica. Giovan Filippo era morto nel 1792 e di lui il ricordato Pradowski aveva letto l’elogio funebre, di cui ecco alcuni felicissimi brani:

«Il suo temperamento era quello dei grandi uomini, cioè il collerico; la corporatura era scarna, la statura giusta, l’andamento diritto, nobile e disinvolto, la carnagione delicata, la faccia lunga, bianco pallida, offesa ma non difformata dal vajuolo, gli occhi azzurri ed ampia la fronte. Serio d’aspetto e melanconico anzi che no, pur fra gli amici, senza correre come altri suole., all’opposto estremo, riusciva ad uopo e tempo amenissimo e gioviale. Non era di coloro che si arrogano il diritto di dare il tono alle conversazioni: non cercava né sfuggiva i rincontri di dotti trattenimenti; e senza vaghezza di essere né primo né ultimo a parlare, sosteneva mirabilmente il suo carattere, del pari scostandosi e da quelli che affettano saccenteria e da quelli che peccano di troppo spirito»;…« ebbe talenti che anche senza tante virtù gli avrebbero accattivato la comune ammirazione ed ebbe tante virtù che anche senza tanti talenti gli avrebbero meritato il comune amore, se chi davvero ama tutti, potesse mai da tutti essere amato».

Nel decennio franco-napoleonico, i Delfico che, come si è detto, erano stati filo-giacobini, più per forza di fatti che per opinione, dettero il loro consenso e la loro opera al nuovo sistema che, se non fu di piena libertà, segnò, tuttavia, per il Napoletano, un sensibile miglioramento sotto tutti gli aspetti. Giovan Bernardino, reduce dal «confino», inflittogli dal capo massa Pronio, (che l’aveva fatto escludere dall’indulto del 1800), volse le sue cure alla Società Agraria, di cui fu Presidente dal 1810 alla morte, avvenuta nel 1814. Portò l’omaggio della Provincia a Re Gioacchino, che saliva al trono.

Si dedicò agli studi storici, scrivendo sull’antica agricoltura dei Vestini e dei Pretuziani e sui nostri monumenti romani e medioevali. Il figlio Orazio, autore di una monografia sul Gran Sasso, della cui più alta vetta: Monte Corno, fu il primo a misurare l’altezza in pollici di Parigi, e che era stato capo dei militi cittadini nel 1799, tenne il comando della legione provinciale, con il grado di Colonnello. Melchiorre, nominato Consigliere di Stato, prese residenza a Napoli, dove scrisse quei «Pensieri su la storia e su la incertezza ed inutilità della medesima» che segnano il distacco netto tra la prima e le seconda fase della sua vasta opera, e che suscitarono stupore e contrasto in quelli che più l’avevano acclamato (5). Ma l’involuzione del filosofo, allineatosi con gli intellettuali del passato nell’avversione alla ricerca ed alla critica storica, (nella patria del Vico!!!), fortunatamente non attenuò l’entusiasmo per la causa nazionale del reduce dall’esilio.

Nei preliminari del Risorgimento, rimane, infatti, l’indirizzo, con l’allegato progetto di statuto italiano, rimesso, con l’offerta dello scettro costituzionale, nel 1815, a Napoleone, relegato all’Elba: espressione della corrente nazionale-unitaria napoletana, dovuta, quasi per intero, alla penna del celebre teramano. E al Delfico, il Parlamento delle Due Sicilie, prima assemblea legislativa, liberamente eletta in Italia, volle affidata la traduzione della Costituzione di Spagna, largita nel 1820 da Ferdinando I. Ultimo atto della vita politica del «Nestore della cultura napoletana».

I Delfico e i superstiti del decennio, tutti fra massoni qualificati, si erano iscritti alla Loggia Carbonaria di Teramo, che diresse, nella nostra provincia, il movimento rivoluzionario del 1820-21.

Preminente ed assorbente fu la loro azione in seno alla setta, cui partecipavano anche popolani. Eletto deputato Melchiorre, che optò per un Collegio di Napoli, dal quale aveva avuto vasto suffragio, e nominato Consigliere di Stato Orazio, entrambi propugnarono le libertà fondamentali del Cittadino, vigorosamente sostenute anche dagli altri parlamentari della Provincia: il Comi, il Castagna e il Coletti, anch’essi Carbonari (6).

Caduto, sotto le armi austriache, il breve reggimento costituzionale, subirono la reazione borbonica, che non poteva loro perdonare di essere stati «la rovina della Città e della Provincia di Teramo» (come s’era espresso il Preside Rodio). Tenuti in sospetto e sorvegliati dalla Polizia, trovarono conforto nei prediletti studi. Orazio, che, in giovinezza, aveva seguito corsi di scienze naturali nell’Università di Pavia (dove era entrato in dimestichezza con lo Spallanzani, il Galvani, il Volta ed Ippolito Pindemonte), alternò la ricerca geologica con la cura delle piante del suo orto botanico, realizzato nei giardini annessi al palazzo avito. Melchiorre lesse e scrisse fino agli ultimi giorni della sua lunghissima esistenza.

Con la morte nel 1842 di Orazio, l’antica famiglia Delfico si estinse, ma il cognome ne fu aggiunto al proprio dal Conte di Longano, Gregorio De Filippis (1801-1847), marito di Marina, unica figlia dello scomparso (7).

In quel tempo la Provincia si trovava ad aver realizzato qualche progresso nel commercio, più sensibile lungo la fascia litoranea, aperta ormai ai traffici, serviti dalla importante strada degli Abruzzi, tra il Tronto e la Pescara, e da trasporti marittimi facenti capo al lido di Giulianova, sede di dogana di prima classe. Anche l’agricoltura non era più «bambinella in fasce» come l’aveva definita venti e più anni prima l’economista teramano Fulgenzio Lattanzi. Appoderamento, introduzione di nuove colture, bonifiche, accrescimento del capitale bovino, avvicendamento dei terreni, testimoniavano dell’intenso sforzo compiuto, durante i primi decenni del secolo, da non pochi agricoltori. Nell’industria si era consolidato il successo delle molteplici iniziative di Vincenzo Comi, mancato nel 1830, le cui fabbriche, gestite dai figli, funzionavano a Giulianova e a Teramo, nell’Aquilano, a Popoli, e nelle Marche, a Grottammare. Altri pionieri avevano creato piccoli e medi stabilimenti nel capoluogo ed in altri centri. Vi si trasformavano i prodotti dei campi. Non mancavano, però, opifici adibiti a scopi diversi dal trattamento dei frutti della terra, come una cereria a Giulianova; concerie di cuoi a Teramo, a Penne, a Elice, a Montorio al Vomano, a Notaresco, un cappellificio ad Atri, filande di seta a Teramo, ecc.

Il miglioramento nei vari settori economici era derivato anche dalla stretta intesa tra gli intraprendenti operatori e la benemerita Società Economica, continuatrice, in senso tecnico, dell’opera della Patriottica e dell’Agraria, e punto d’incontro degli insofferenti della tirannide. La disoccupazione e la sottoccupazione, però, di larghi strati del popolo si mantenevano considerevoli. Le epidemie continuavano a mietere numerose vittime.

La scuola aveva esteso l’insegnamento primario e introdotto quello secondario, con la fondazione a Teramo di un Convitto-Liceo Ginnasio, cui Melchiorre Delfico, dando prova anche in questo del suo spirito liberale, aveva donato una biblioteca. Il ceto intellettuale, numericamente accresciuto, non aveva, però, avanzato in cultura e in idee, rispetto ai novatori dell’ultimo settecento, (malgrado che le recite teatrali non facessero più paura a nessuno e si tenessero, anzi, nell’angusto teatro, tutto in legno, «Corradi e Gatti», nel quartiere di S. Spirito).

Regresso negli studi di economia e di politica, che erano stati passione e benemerenza di Melchiorre Delfico e dei suoi prossimi, le indagini sulle relazioni sociali e sui mezzi e i metodi di produzione che i patrioti della prima generazione avevano compiuto in vista di una generale riforma del sistema di Governo e di amministrazione, erano, ora, meno approfondite, condotte con cautela e studio di farne coincidere i risultati con le tesi ufficiali.

L’erudizione era diventata monumento nei cinque volumi della Storia del Pretuzio di Nicola Palma.

Massoneria e Società Segrete raccoglievano: la prima quasi tutti i professionisti e gli abbienti; le seconde pochissimi e coraggiosi adepti.

Tollerante nei confronti della Massoneria, il Governo (e per esso l’Intendenza e la locale Polizia) esercitava controllo costante e duro sugli «attendibili», come venivano chiamati gli indiziati di appartenenza alle «sette». «La Giovane Italia» del Mazzini aveva avuto, per qualche tempo, emissario a Teramo il Saliceti. Non è da escludere che i moti di Penne del 1837, sanguinosamente conclusi alla Cittadella, con la fucilazione di alcuni dei capi, fossero diretti da cospiratori mazziniani.

Negli anni formativi dell’ingegno e del carattere dei figli di Marina Delfico (8), Teramo era ancora circondata, da ogni lato, di mura fortificate. La sua edilizia irregolare e non piacevole, come notò il Savini (9), formava la preoccupazione del Municipio. Il Decurionato si sforzava di migliorare le vie interne ed esterne e gli edifici pubblici, imitato dai privati che, o costruivano ab imis o modificavano, ampliandoli ed abbellendoli, i loro fabbricati.

Le classi cittadine comprendevano: i dominatori borghesi che avevano del tutto assorbito l’antico patriziato, affiancati dai funzionari regi, militari e civili e dal Clero; un medio ceto di imprenditori e mercanti; una piccola borghesia, traente i mezzi di sussistenza da infime proprietà terriere o da piccoli negozi, o dall’artigianato, notevole nella lavorazione del legno e del ferro, e – più numerosa – la plebe, cioè i mendici e i manovali, (i generici di oggi). Vita senza sfarzo, quella degli agiati, tenaci risparmiatori, che, nei tardi pomeriggi della buona stagione, quasi quotidianamente, si riunivano sulla scalinata del Duomo, e, seduti su quei gradini, loro riservati, conversavano degli affari pubblici e propri. Sacrificio senza adeguato compenso, o nera miseria, caratterizzavano la vita delle altre classi.

La formazione del movimento liberale moderato, sapiente nell’indirizzare il malcontento contro lo straniero accampato in Italia e contro la Polizia borbonica,  le necessità impellenti dell’ora, distolsero Troiano (1821-1908) e Filippo De Filippis Delfico (1827-1906) e i loro coetanei, aderenti alla Massoneria, «more maiorum», e decisi anti-clericali, dalla ricerca delle cause effettive della crisi di regime in atto.

Sugli esempi famigliari e con il conforto del consenso materno, la quarta generazione dei Delfico sentì il «romantico richiamo della patria», prese le armi, conobbe l’esilio, tornò a combattere per lo sterminio del brigantaggio. Pronto a marciare contro «le tigri austriache», si dichiarava Troiano, nella primavera del 1848, nel Manifesto-invito dello Spettatore dei Destini italiani, e accorreva in Lombardia, volontario della prima guerra d’indipendenza.

I due fratelli, con Valerio Forti ed Antonio Tripoti, organizzarono la sedizione, detta di S. Angelo, dal nome di una piccola Chiesa di campagna sul Pennino, dove il 2 ottobre 1848, in occasione della festa patronale erano convenuti numerosi patrioti che si infiammarono alla notizia, appresa dal «Contemporaneo» di Genova, della sollevazione di Vienna e manifestarono rumorosamente la loro solidarietà agli insorti e a loro fede liberale-statutaria. Il « moto» destò lo spavento del Comandante borbonico Fluscy (sic ma Flugj), il quale, in un rapporto al generale Landi, espresse questo avviso: «La tranquillità a Teramo non si ristabilirà senza forti salassi e sciabolate». Eppure s’era trattato solo della lettura d’un giornale, del canto di inni patriottici e d’una dimostrazione per il rispetto della Carta Costituzionale, giurata dal Sovrano e tuttora vigente. Dovevano conseguirne patimenti di carcere duro e di esilio gramo. Nel processo, celebrato molto dopo i fatti suddetti, non mancò nemmeno l’accusa specifica di formazione di un Governo provvisorio, in riferimento ad un episodio del Giovedì Santo 1848. (Quel giorno a Teramo si era diffusa la notizia dell’imminente discesa di montanari armati, sostenitori dell’assolutismo. I responsabili del Comune e i patrioti più autorevoli avevano nominato un Capo provvisorio della Guardia Nazionale, con il compito di sciogliere «attruppamenti sovversivi all’ordine e alle franchigie» e di far rispettare le ordinanze governative). Addebito che, con gli altri di aver fatto celebrare una Messa di requiem per le vittime napoletane del 15 maggio 1848 e di aver suscitato disordine nella ricorrenza della festa di S. Angelo, bastò al Procuratore Generale D’Agostino per domandare la pena di morte nei confronti di trenta cittadini, tra i quali Troiano e Filippo De Filippis Delfico, il Tripoti, i Forti, Antonio Camillotti, veterano della cospirazione in Provincia, uno degli scampati alle fucilazioni, seguite alla repressione dei moti di Penne del 1837 ed il giuliese avvocato penalista Michele Cavarocchi. Ma, in secondo tempo, un altro Procuratore Generale, il Nicoletti, mitigò la requisitoria, onde la Gran Corte Criminale finì con l’infliggere ai prevenuti la pena dei ferri, variante tra gli otto e i venti anni.

Parecchi dei condannati conobbero l’orrore delle segrete del Bagno penale di Pescara, con la palla al piede. Ma i Delfico, come il Tripoti e Valerio Forti, riuscirono ad esulare, Troiano a Patrasso e Filippo a Marsiglia.

Un fratello degli esuli, Melchiorre jr. (1825-1895), s’era affermato a Napoli come caricaturista. Anch’esso noto «settario», frequentava i circoli culturali, dove non era difficile prendere contatto con i capi della «rivoluzione». Amico di Verdi, gli fu vicino durante il suo terzo soggiorno napoletano, nel 1857. Colse in caricatura gli episodi di detto soggiorno, fece sfilare, in comica rassegna, gli amici di Verdi e i suoi disturbatori, e poi, «in tutti gli atteggiamenti, in tutte le pose, da quelle tragiche dell’ira a quella drammatiche della commozione, con una gran chioma, con un immenso testone, il Maestro: assediato dai seccatori, importunato dai musicomani, inseguito dagli ammiratori e collezionisti di autografi, nel culmine dell’ispirazione o all’apice della noia». «Né il Verdi si adontò o si infastidì mai del Delfico, il cui inesorabile e signorile spirito artistico lo divertiva e gli eccitava il rarissimo riso. Ebbe per lui una costante ed affettuosa amicizia e le ultime lettere scrittegli sono del 1891 (10)».

Melchiorre Delfico jr. descrisse, in un album di caricature, personaggi ed avvenimenti del trapasso politico dalla Monarchia dei Borbone a quella dei Savoia; prezioso documento del costume dell’epoca, soprattutto per quanto riguarda l’improvvisa conversione dei più accesi seguaci di Francesco II.

Fino alla morte, Marina Delfico tenne unita la sua numerosa famiglia. Nell’Archivio Provinciale di Stato di Teramo è conservato il fitto epistolario della madre con i figli esuli, dal quale, pubblicato in parte, nel 1950, da Alberto Scarselli, si apprende quanto di consiglio, di conforto e di denaro l’ammirevole donna dette ai suoi, in quei non pochi anni difficili, e quali furono i sacrifici di Troiano e di Filippo, rispettivamente in Grecia ed in Francia. Il primo si era allontanato da Teramo, al ritorno in città delle truppe del Landi, e aveva assistito a questo tristissimo spettacolo dal Pennino. Rifugiato ad Ascoli Piceno, poi a S. Benedetto del Tronto, infine ad Ancona, di qui s’era imbarcato per la Grecia. Quando non riceveva soccorso da casa, traeva i mezzi di sostentamento per sé e per i suoi compagni di esilio (tra i quali il conterraneo Del Cucco) dalla caccia, in cui era provetto, e dalla vendita di quadri, che dipingeva con buona tecnica.

L’altro, scampato alla cattura, mercé un imbarco clandestino per la Francia, nelle eguali frequenti contingenze sfavorevoli, commerciava in mobilio. Le sofferenze di Filippo erano accresciute dalla lontananza dalla giovane sposa Cleomene Rossi (sic ma Fallocco) e dalla preoccupazione che i suoi beni fossero realmente sequestrati, come ordinato dalla Gran Corte Criminale, nella sentenza di condanna. Tale iattura potè essere evitata per il risoluto intervento della madre che impedì l’esecuzione delle disposizioni patrimoniali della efferata pronunzia, eccependo validamente che, nei capitoli matrimoniali, era stato stabilito «un forte assegnamento», pari alla rendita complessiva dei beni alla moglie del condannato.

I due fratelli si riabbracciarono a Teramo nel 1860, dopo vari spostamenti di residenza, di Troiano da Corfù ad Atene, a Patrasso, in Piemonte, di nuovo ad Atene; di Filippo da Marsiglia, a Parigi, a Nizza (nelle quali città aveva avuto la compagnia, nel duolo e nella speranza, di Antonio Tripoti e di Giuseppe De Vincenzi). Marina Delfico, durante l’assenza dei figli, dedicò molto del suo tempo agli interessi domestici. Le sue lettere dicono di «fortificazioni» sul torrente Salino, nei pressi di Montesilvano, di qualche preoccupazione per la crisi dell’agricoltura, iniziata intorno al 1850, ma bene superata dalle grandi aziende, e del completamento della comoda, ampia scala, da cui si accede al piano nobile della casa di Teramo. Ma non smise la consuetudine, (che durava dai tempi del padre) dei periodici ricevimenti, nel suo salotto di conversazione, dei notabili, avversi al Borbone (11). Come ricorda il De Cesare (12), tra gli assidui di queste, apparentemente innocue adunanze, che infastidivano la polizia, furono l’Irelli, i fratelli Costantini, i fratelli Bonolis, G.A. Crocetti, Stefano De Marinis (protettore della poetessa estemporanea Giannina Milli), Nicola Forti, Giovanni De Benedictis ed altri patrioti.

Quali che fossero le aspirazioni dei Delfico nell’esilio (ed una il carteggio ne rivela, profondamente sentita e costante: la riduzione degli abusi del Clero), la loro condotta, nei mesi successivi al loro ritorno a Teramo, avvenuto dopo lo sbarco dei Mille a Marsala, fu in tutto conforme all’indirizzo del partito moderato, anche se obbedendo alle istruzioni del Comitato d’Azione di Napoli e di quello locale, di cui era «magna pars» il Tripoti, Troiano accettò la nomina a triumviro del Governo Prodittatoriale di Teramo che ebbe vita per soli tre giorni (8-11 settembre 1860). Del resto questa investitura fu annunziata al popolo «in nome di Vittorio Emanuele, re d’Italia e del Generale Garibaldi, Dittatore delle Due Sicilie»: segno che il programma del Partito d’Azione non era, poi, così rivoluzionario, come si doveva dare ad intendere, per offrire a Cavour una giustificazione plausibile per l’ingresso dei piemontesi nel Napoletano. (In precedenza il Delfico aveva sottoscritto, come esponente del Comitato teramano del Partito d’Azione, le convenzioni del moto insurrezionale fra le tre provincie degli Abruzzi, nella riunione in Salino, vale a dire nella sua villa di Montesilvano. Questo patto di «rivolta» non reca clausole men che legalitarie. Basta leggerne l’art. 4 «…sarà proclamato il Governo provvisorio a nome di Vittorio Emanuele Re d’Italia e Dittatura di Garibaldi»: previsione pienamente avveratasi, come si è visto!).

Le vicende provinciali posteriori al passaggio dell’esercito sardo (15 ottobre) e al Plebiscito (21 ottobre) trovarono Troiano Delfico Maggiore Comandante la Guardia Nazionale di Teramo, nel quale incarico aveva sostituito il Tripoti, quando questi era partito, con i suoi Cacciatori del Gran Sasso per l’altipiano delle Cinque Miglia e per il Matese, infestati dai briganti e dai reazionari. Prima del concentramento, intorno a Civitella del Tronto, di importanti Unità dell’Esercito piemontese, ormai italiano, ciò che accadde alla fine del 1860, principio del 1861, la Guardia Nazionale di Teramo, si trovò, unica forza armata del nuovo potere, a fronteggiare una situazione assai difficile. Difatti, dalla fortezza borbonica, presidiata da tutti i gendarmi della provincia, ivi affluiti ai primi di settembre, e non ancora cinta di regolare assedio, veniva diretto ed alimentato un esteso e temibile brigantaggio. La storia dei combattimenti e degli atti di valore della Guardia Nazionale di Teramo è tutta da scrivere. Chi affronterà tale meritoria fatica, dall’esame dello stato economico e sociale del territorio, nel 1860 e nel periodo posteriore, sarà tratto a concludere che il brigantaggio ebbe origine dalla più nera miseria, congiunta alla più completa ignoranza. (Il che nulla toglie alla gratitudine dovuta a uomini, come il Delfico, che stroncarono, per sempre, questo endemico male della Regione). Infaticabile, il Delfico, percorse, per anni, con i suoi coraggiosi volontari, mal remunerati, le montagne e le colline della Provincia. Ebbe ai suoi ordini immediati un gruppo di ufficiali eccellenti. Fu suo Aiutante maggiore quell’Antonio Caretti, milanese, uno dei Mille, che sarebbe caduto nel 1867, a Mentana.

Nella notte tra il 23 ed il 24 ottobre 1860, «trentasette militi della Guardia Nazionale», comandata dal Delfico, debellarono «presso Bellante, duecentoquarantasei briganti e reazionari». Al combattimento, asprissimo, prese parte a fianco del Comandante e del capitano Ortiz, il subalterno Berardo Costantini che, per l’eroismo di cui dette prova, fu decorato di medaglia d’argento al Valor Civile. Nella stessa notte, altro esiguo distaccamento dello stesso Corpo, guidato dal tenente Bucciarelli, ed in cui militava Settimio Costantini, futuro Sindaco, Deputato di Teramo e Sottosegretario all’Istruzione, volse in fuga cinque-seicento briganti e reazionari.

Scaramucce, imboscate, marce in zone impervie, privazioni, furono la vita del Battaglione, fino a quando nel 1864, il territorio provinciale potette dirsi pacificato; manifestazioni di brigantaggio perdurando solo in alta montagna. Il prolungarsi del banditismo fu attribuito alla condotta debole ed incerta del Governo, contro la quale il Maggiore Comandante la Guardia Nazionale di Teramo insorse, in una lettera aperta, indirizzata a Settimio Costantini, in occasione delle elezioni politiche del 1865: documento che segna il distacco del Delfico dalla corrente moderata, ossia dalla maggioranza parlamentare accusata di sostanziale illibertà, soprattutto per la pressione fiscale sulle classi povere e per la politica estera di servilismo verso Napoleone III e di umiliazione verso al Corte Pontificia, «un cadavere galvanizzato»!

L’atteggiamento critico del Delfico contro la Destra si accentuò negli anni seguenti. Nel ’67 pubblicò – infatti – un saggio politico: «Dei partiti in Italia», in cui sostenne la libertà delle opinioni e la necessità dell’istruzione pubblica, ai fini del suffragio universale e dell’effettiva unità italiana, rimproverando al Governo la mancanza di iniziative democratiche.

Nello stesso tempo Filippo si trovava ad aver percorso alti gradi nella Loggia Massonica di Teramo, di cui sarebbe divenuto «Venerabile». Intanto, manteneva stretti contatti con Garibaldi e i suoi intimi che avrebbe sostenuto, con ogni mezzo, nell’impresa di Mentana. Anche per lui, urgeva porre fine al potere temporale del Papa a fare di Roma la capitale dell’Italia Unita.

L’altro fratello, il geniale artista, amico di Verdi, si era definitivamente stabilito a Napoli.

Nella piena maturità, conquistata sui campi di battaglia e nell’esilio, Troiano Delfico, incapace di ozio, si applicò sempre più agli studi economici. Il risultato fu un libro:«Sulla questione sociale - Considerazioni» edito dalla Tipografia Romana nel 1878.

L’autore non mostra conoscenza esatta dell’argomento trattato, nel senso che ignora intere sezioni della dottrina economica, come, ad esempio, l’opera del Marx, peraltro allora, pochissimo diffusa, specie in Abruzzo. Ma i suoi apprezzamenti e rilievi su vari aspetti del problema (contro la schiavitù, contro la concentrazione della proprietà in poche mani; contro gli abusi della pubblica amministrazione nei confronti dei cittadini), oltre che specchio di una retta coscienza, sono indicativi del rapido mutare dei tempi. Difatti, la Destra Storica aveva compiuto il suo ciclo. Da due anni la Sinistra governava il Paese. I fratelli Delfico, con il Senatore Irelli erano stati ed erano, con altri vecchi «reduci», i capi della Sinistra provinciale. Avevano intuito che le questioni di fondo possono essere rinviate per specialissime contingenze, ma sono nodi che, prima o poi, vengono al pettine.

La questione sociale! E’ assai significativo che di questo argomento, destinato a tenere il campo nei dibattiti, abbia parlato per primo a Teramo – e nel 1878 l’ottimate più autorevole, prossimo Senatore, per «censo», l’esule intemerato, discendente di una grande famiglia italiana. 

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Nota bibliografica 

Su Melchiorre Delfico e sul sodalizio culturale teramano del ‘700, cfr. oltre le opere, citate nel testo del Palma e del Pradowski, e il carteggio M. Delfico, G.B. Mezucelli, A. Tulii; C. Campana, Un periodo di storia di Teramo e delle Scienze e delle lettere in Teramo sullo scorcio del sec XVIII, Teramo, Fabbri 1911; L. Coppa-Zuccari, L’invasione francese negli Abruzzi, vol. 4, Aquila-Roma, 1928-1939; B. Croce, Storia della Storiografia Italiana nel sec. XIX, Bari, Laterza, 1921; G. Pannella, L’abate Quartapelle e la cultura in Teramo, Napoli, 1888; R. Aurini, Dizionario bibliografico della Gente d’Abruzzo, vol. III, Pag. 1-52.

Sul decennio Franco- Napoleonico e sulla rivoluzione del ’20-’21 tutte le su elencate opere sono di utile consultazione. Cfr. pure F. Savini, Il Comune teramano, Roma, 1895; e il mio studio, Giulianova 1860, Pescara, 1959.

Sul periodo successivo, fino ed oltre l’Unità, cfr. A. Scarselli, Intimità nell’esilio (Carteggio di un esule e di una madre), Teramo, 1950; dello stesso A., Illustri teramani, Carteggio di patrioti (Lettere inedite a Filippo Delfico), Teramo, 1934; G. Pannella, Necrologia di Berardo Costantini, Teramo, 1903; A. Tripoti, Al popolo del I Abruzzo Ultra, Napoli, 1860; T. De Filippis Delfico, Sulla questione sociale – Considerazioni, Roma, 1878; R. De Cesare, La fine di un Regno, Città di Castello, 1909; G. Allulli, I firmatari dell’invito dello Spettatore dei destini italiani, Teramo, 1906; R. Aurini, Dizionario bibliografico della Gente d’Abruzzo, vol. I, pag. 299-304 (bio-bibliografia di Melchiorre Delfico jr.)

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(1) Anche nel Teramano, alcune famiglie presero parte, con più persone, alle lotte risorgimentali: i Castagna di Città S. Angelo, i De Caesaris di Penne; i Tulii, i Marozzi, i Bucciarelli, i Tripoti, i Forti, i Costantini di Teramo.

(2) Aveva titolo di Marchese, per eredità di Caterina Mazzocchi, di S. Maria di Capua, moglie di Gianbernardino; di Conte, col predicato di Longano, perché Marina, unica figlia di Orazio, era andata sposa a Gregorio De Filippis di Longano, e di barone, per investitura datane a Melchiorre dal Borbone.

(3) «Parole che spettano all’elogio di G. F. Delfico», Teramo,1794.       

(4) Cfr. N. Palma, Storia ecclesiastica e civile… della Città e Diocesi Aprutina, Ed. 1833, vol. III, pag 240.                                             

(5) Cfr. B. Croce, Storia della storiografia italiana, vol. I, pag. 17-18, Laterza 1921.

(6) Di Melchiorre Delfico, scomparso a Teramo nel 1835, della sua azione politica e della sua produzione, fu dato giudizio discorde. Infatti fu insinuato che egli – parlamentare in fluentissimo – favorisse la partenza del re per Lubiana che avrebbe dovuto prevedere funesta alla Costituzione. Nella repubblica delle lettere – già ai principi dell’’800, il suo saggio sull’inutilità della Storia ebbe a suscitare molti contrasti e nessuno o pochissimi consensi. Cfr. Croce, Storia della storiografia italiana, vol. I, pag. 17, Ed. 1921.

(7) Gregorio De Filippis di Longano, dal 1820, data del matrimonio, alla morte, visse tra Teramo e Montesilvano; fu buon verseggiatore e scrittore.

(8) Furono cinque, dei quali i più noti: Troiano, Filippo e Melchiorre jr.

(9) F. Savini, Il Comune Teramano, parte IV, cap. XXIX, par. 9.

(10) In Raffaele De Cesare, La fine di un Regno, parte I, cap. VII, pag. 125 dell’ediz. del 1909. Melchiorre jr. fu pure musicista.

(11) Prima del ’48, frequentavano i Delfico: il Gammelli, i Bucciarelli e Michelangelo Forti, cioè i reclusi di Pescara e di Nisida. Giovanni Bucciarelli ed il Forti morirono, di stenti in carcere.

(12) De Cesare, op. cit. parte II, cap. XIX, Pag. 438.